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Il regime di finzione in Augé. Tra sogno, riti e realtà

 

copertinadi Mariangela Vitrano

L’obiettivo che mi propongo di perseguire nella stesura dell’articolo è quello di analizzare un passo alla volta La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction, opera di Marc Augé che porrò in primo piano nell’intento di comprenderne il concetto fondamentale, ovvero il regime di finzione, collocandolo in comparazione con lo stesso, trattato però in un’altra opera dello stesso autore Finzioni di fine secolo. Che cosa succede?. In ultimo luogo, vorrei anche proporre un breve script che presenti un punto di vista letterario sulla questione, e lo farò prendendo in esame uno dei racconti appartenente alla raccolta Finzioni dell’artista argentino Jorge Luis Borges, ovvero: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius.  

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Dissoluzioni (ph. Vitrano)

Introduzione all’analisi antropologica

È con un’immagine, non del tutto casualmente cinematografica, che Marc Augé [1]  apre il suo saggio La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction. L’opera, distrattamente non annoverata tra le sue più importanti pubblicazioni, accoglie, invece, una particolare stesura multidisciplinare che vede collidere non solo ambiti scientifici a cui lo studioso appartiene per formazione, ovvero antropologia ed etnologia, ma anche discipline come sociologia, storia, psicoanalisi e semiotica. Tra lucide osservazioni di avvenimenti storici, etnografie in fieldwork e analisi di processi di “finzionalizzazione” in sviluppi artistico-narrativi Augé delinea, già nel 1997, il profilo meticoloso di una società profondamente attuale e drasticamente, forse, impreparata ad affrontare la dissoluzione e il successivo riassetto di una linea sottile come quella che mantiene l’equilibrio tra: immaginario individuale (sogno), immaginario collettivo (miti, riti, simboli) e finzione narrativa con conseguente alterazione per l’individuo stesso della percezione di questi tre elementi.

Si assiste, sostanzialmente, al mescolamento, allo sfaldamento delle frontiere specifiche istituite da ogni cultura tra sogno, realtà e finzione che rappresentano i tre poli distinti dell’immaginario. Nel mondo surmoderno, alle mediazioni che consentono lo sviluppo dell’identità, la presa di coscienza dell’alterità e dei legami sociali si sostituisce il dominio mediatico dell’immagine. In questo turbine non soltanto sociale, ma soprattutto interiore, le immagini cui si è pedissequamente sottoposti inducono così i soggetti-agenti ad un’incapacità paralizzante nel distinguere la realtà dalla finzione, a una perdita di contatto individuale con essa. Quello che abbiamo di fronte è, quindi, una spiazzante prevaricazione della finzione sul reale, un potenziale passaggio a un tutto fittizio destabilizzante anche le radici più profonde dell’essere. Come dirà lo stesso autore:

«Se la metafora medica si ricongiunge qui alla metafora guerriera, è perché il nemico è in noi, è già dentro, intra piuttosto che extra-terrestre; e perché le perversioni della nostra percezione, la difficoltà a stabilire e a pensare le relazioni (quello che a volte chiamiamo la crisi), provengono più da un’irregolarità del nostro sistema immunitario che da un aggressione esterna. La nostra malattia è autoimmune, la nostra guerra è civile» (Augé 1998 : 22)

Nell’incipit del libro, l’antropologo ci propone, con lo scopo di proiettarla nelle nostre menti quasi come fosse una diapositiva o una reminiscenza, l’immagine di una serie tv statunitense The Invaders [2] che ebbe nel periodo della guerra fredda forte risonanza mediatica e apprezzamento da parte del pubblico. La scena in questione è quella cruciale della serie televisiva, ovvero l’invasione degli Stati Uniti da parte di extra-terrestri. In un momento di tensioni e di conflitti percepibili ma inesplosi, questa invasione racchiude metaforicamente la minaccia comunista che si insinua silenziosamente e indisturbata nel Paese tra le fila di amici più stretti, parenti, intellettuali e personaggi di rilievo politico fino a compromettere sensibilmente il secolare ambiente liberal democratico degli Usa.

L’autore si serve di questa “istantanea” per introdurre la sua ipotesi antropologica per cui l’era della globalizzazione, in cui convergono diversi fattori quali la circolazione dell’informazione attraverso canali di comunicazione di massa (televisione, internet, turismo virtuale) e l’uniformizzazione e l’incremento dei punti nevralgici di collegamento tra un capo e l’altro del pianeta, manifesti dei sintomi sociali, politici, culturali, psicologici ed esistenziali (quindi relativi a un macrocosmo ma anche a un microcosmo) diversi tra loro ma tutti risalenti a una stessa sorgente: il regime di finzione. All’invasione comunista della serie tv Augé accosta un’altra invasione allargata alla terra intera: l’aggressione dell’immagine. In un regime dominato dall’immagine diventa inevitabile una negoziazione della verità, della realtà di cui vengono manipolate le categorie che la costituiscono e definiscono.

Come può un antropologo affacciarsi a questo scenario? Con quali modalità? Attraverso il più grande strumento, oserei dire anche dono, che ha sempre avuto a disposizione: l’osservazione, partecipante o meno, di ciò che lo circonda e di ciò che avviene attraverso un occhio critico, affinato dalla disciplina. È qualcosa che ho sempre trovato affascinante: osservare senza mai formulare verità assolute ma vulnerabili e discutibili, da poter intrecciare con innumerevoli vettori che dipingono l’antropologia come un settore fluido, decentrato, mai identico. L’osservazione in questo contesto si concentra innanzitutto sull’immaginario, punto cardine dell’indagine, sia collettivo che individuale influenzato da meccanismi culturali con i quali vive in continua osmosi e che determina la relazione con la cultura altra, relazione che non si traduce soltanto in mero contatto teorico, ma anche fisico che è quello che ha determinato scontri, colonizzazioni nella Storia, plasmata, orientata e riorientata nei vari percorsi possibili sotto la spinta di questi urti.

In virtù di ciò diviene necessario interrogarsi esattamente sul cambiamento delle condizioni osmotiche tra immaginario e reale, facendo fronte a una componente aggiuntiva e complicante che è la finzionalizzazione sistematica di cui il mondo è oggigiorno oggetto. In questo processo è importante comprendere, e quasi toccare con mano, la sostanza di cui si costituiscono gli immaginari e saperli discernere dai fattori attraverso i quali vengono modificati. Fattori che vengono identificati da Marc Augé nelle rappresentazioni associate allo sviluppo tecnologico, mistificatrici del reale e del rapporto con esso. Preme, quanto prima possibile, sottolineare che la disamina condotta dall’autore è ben lontana dall’esprimere profezie o giudizi generalizzanti sul cybermondo, dal preparare cioè il terreno a un dibattito pro/contro riguardo la tematica; anche perché ritiene queste modalità «imprudenti, parziali e insufficienti». Piuttosto La guerra dei sogni vorrebbe offrirsi a osservazione descrittiva riguardo l’effetto prodotto dal fenomeno mediatico sulla relazione triangolare identità/alterità/realtà.

2In quale misura la globalizzazione è reale, quali sono i suoi effetti e il concetto di Surmodernità

Augé muove la sua riflessione dal concetto contraddittorio e paradossale di globalizzazione annotando come l’omogeneizzazione di realtà particolari sia spesso mistificata e fragile, se non inconsistente. Da una parte troviamo la planetarizzazione politico-economica e informatica, dall’altra il violento affermarsi di nazionalismi e particolarismi in reazione difensiva alla sensazione di dissoluzione identitaria generata dalla integrazione. Oltre questa contrapposizione, si collocano i movimenti migratori che provocano immediatamente il crollo dell’ipotesi globalitaria per cui tutti i Paesi del mondo godrebbero di medesima situazione economica, demografica e politica. Svelato il paradosso, può anche essere affermato che l’era globalizzata attraverso l’immagine non ci offre altro che le briciole di una realtà da noi percepita sempre più ignota, priva di qualsiasi principio coordinatore che ci permetta di attribuirle senso. In Finzioni di fine secolo, l’autore si chiederà quanto la finzione possa essere collocabile nel dominio dell’ambiguità e quanto in quello dell’ambivalenza; termini apparentemente assai simili, ma con sfumature semantiche che ne delineano le differenze sostanziali.

L’approdo filosofico-antropologico di Augé alla questione sarà ancora una volta la sostituzione; la finzione dunque si definisce come ambigua, più che ambivalente, poiché non è mai facilmente distinguibile dalla verità ma si pone in sostituzione ad essa. Più che mai pregnante è la consapevolezza della progressiva scomparsa dell’avvenimento, qui approfondita e ancora più attuale. L’avvenimento è quasi totalmente gettato in pasto ai media che hanno potere di scelta sui luoghi su cui puntare i riflettori e su quali no. Marc Augé utilizza dei termini, che risuonano molto accurati: “fare e disfare” un avvenimento; e credo sia questo che facciano i mezzi di comunicazione di massa, sono rivolti alla massa, proiettati ad un numero indefinito ed elevatissimo di persone. Modellare l’immaginario individuale e collettivo di una mole così elevata di gente significa detenere un enorme strumento di potere e influenzare il flusso della storia. Il fatto accaduto viene visto, raccontato, trasformato, fantasticato, modificato, strumentalizzato, interpretato così tante volte e da così tante persone che si perde contatto con il reale, con l’autenticità dei fatti di cui i participi elencati diventano parte integrante. Lo spazio si restringe, si uniforma e si virtualizza soprattutto.

Nel proprio lavoro l’antropologo prima di interrogarsi sul rapporto che il proprio oggetto di studio intrattiene con l’altro da sé, si interroga sulla percezione identitaria che esso ha di sè stesso. Procedendo in questa direzione, prenderemo in considerazione il concetto di rito che ha finalità di produrre, e non solo di tradurre, identità attraverso il riconoscimento dell’alterità. Il suo ruolo è quello di mediare, rendere simbolo e istituzione l’immaginario individuale, quindi rendere pensabile e gestibile collettivamente (donare senso sociale) un tratto identitario.

3Anche Laura Graham [3], in uno dei suoi saggi dal titolo Dreams, asserisce che alla condivisione di qualsiasi esperienza individuale, quindi a una sua trasposizione verso l’esterno, consegue una conversione dell’esperienza interiore in una forma culturalmente convenzionale, accettabile e interpretabile da una collettività. Le modalità espressive che ne permettono la trasmissione sono elementi plasmanti le stesse esperienze individuali. Su questo Augé fa due osservazioni: la prima è che quando si produce un blocco rituale, cioè un indebolimento della mediazione identità/alterità ciò che ne deriva consiste in violenza; la seconda è che attualmente la globalizzazione e il dominio mediatico, suo scettro, sostituiscono il ruolo mediatore del rituale indebolendo l’importante dialettica e conseguentemente generando atti di violenza.

In questo quadro, dove si colloca il concetto di Cultura? Augé ce lo spiega molto bene in un passo del libro:

«Innanzitutto, è evidente che la cultura non implica in sé alcun rifiuto e alcuna incompatibilità fino a che resta cultura, cioè creazione. Una cultura che si riproduce sempre tale e quale (una cultura da ghetto o da riserva) è un cancro sociologico, una condanna a morte, proprio come una lingua che non si parla più, che non mutua più elementi da altre lingue, che non inventa più, è una lingua morta. È dunque sempre abbastanza pericoloso voler difendere o proteggere le culture, e illusorio ricercarne la purezza perduta. Esse non hanno mai vissuto in altro modo che trasformandosi» (Augé 1998 : 22).

Ancora risulta, quindi, importante interrogarsi sulle condizioni della trasformazione di una cultura. Ciò che interrompe questo flusso è la considerazione che dall’intangibilità della cultura dipenda la salvaguardia dell’identità etnica, perché in questo modo ogni influenza esterna è vista come ‘de-culturazione’ o perdita di identità. Per dimostrare che non è così, l’antropologo prende in esame il proprio fieldwork tra i pumé-yaruro del Venezuela, e osserva come i loro riti, il loro immaginario siano fortemente influenzati dall’esterno, dall’immagine e, proprio per questo, la loro cultura può considerarsi vitale: perché il ciclo osmotico tra reale e sfera identitaria si mantiene fluido, non si chiude al contatto né si slega dalle proprie origini. La mitologia viene integrata, re-immaginata e contestualizzata al presente. Nonostante la vitalità della cultura pumé, rimane il fatto che il loro gruppo etnico stia per scomparire.

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Street art. Individuale/collettivo (ph. Vitrano)

Poggiandosi invece a uno studio sul Messico, condotto dallo storico francese Serge Gruzinski [4], dimostra un processo inverso avvenuto durante la colonizzazione spagnola in Messico intorno al XVI secolo. La strategia coloniale si basava su campagne di evangelizzazione che miravano a una modificazione dell’immaginario attraverso icone e simboli prettamente cattolici, ciò che ne derivò fu una forte affermazione identitaria per quanto possa sembrare, a primo impatto, paradossale. Soffermandosi su questi due esempi, l’autore conferma la tesi per cui l’affermazione dell’identità di un popolo non è necessariamente correlata o, meglio ancora, direttamente proporzionale al cambiamento culturale. Piuttosto dirà Augé: «Non esiste affermazione identitaria senza ridefinizione dei rapporti di alterità, e non c’è cultura che viva senza creazione culturale» (Augé 1998 : 26).

Ma c’è ancora un dettaglio al quale riagganciarsi e sul quale focalizzare l’attenzione: la colonizzazione cattolica si serve immancabilmente dell’immagine. Gli indios elaborano l’imposizione culturale con uno spiccato senso di accoglienza e di adattamento in modo da trarre vantaggio dalla stessa strategia colonizzatrice. In questo modo donarono nuova linfa alla propria cultura d’origine, ibridandola ma mai fondendola con quella spagnola, e originalità alla propria arte. È un dinamismo interessante quello attuato dalle popolazioni del territorio messicano, un processo che messo a confronto con il ruolo odierno, e più aggressivo, dell’immagine mette in risalto la diversa, meno efficiente e solitaria elaborazione che il mondo attuale ne fa.

È qui che Marc Augé introduce il singolare concetto di surmodernità, o sovramodernità, intesa come evoluzione del postmodernismo e che descrive l’umanità tutta, anche se in modo ineguale, immersa nelle problematiche dette del “triplo eccesso”:

- l’eccesso di tempo, incarnato dalla fatica che ogni essere umano manifesta nell’attribuzione di senso alla realtà che egli vive a causa della moderna sovrabbondanza di fatti, eventi, informazioni e avvenimenti che lo sovrastano e che gli danno la sensazione che la storia acceleri;

-  l’eccesso di spazio, che descrive la possibilità di rapido spostamento e la sensazione che l’aumento di velocità dei mezzi di trasporto corrisponda ad un restringimento direttamente proporzionale della superficie terrestre (qui subentra la nozione di non-luogo);

- l’eccesso di ego, generato dai precedenti punti e dalla somministrazione della informazione come ‘proiezione’ diretta all’individualità, ai luoghi privati e alla sfera intima degli uomini. Consumata passivamente mediante schermi, l’immagine genera dei riferimenti esclusivamente relativi all’individuo cui è indirizzata.

Ne risultano disgregazione collettiva e alienazione, aggravati da un accentuarsi di differenze di tipo socio-economico tra popolazioni o addirittura, in uno spazio sociale più ristretto, tra concittadini. Il sovrasviluppo della modernità non impedisce l’inegualianza, al contrario la accresce, e rende astratta o, ancor peggio, ostile la figura dell’altro (rottura cioè del binomio identità/alterità), alimentando comportamenti, oltre che ideologie, brutali e assolutistici (totalitarismi, nazionalismi). Riporto di seguito un passo del libro inerente e riassuntivo dell’esposizione antecedente:

«Ci viene così fornito un elemento di riflessione: fino a quando la dialettica identità/alterità funziona, un’affermazione di appartenenza a una collettività non può essere concepita né come esclusiva di altre appartenenze né come esclusiva dell’affermazione di identità individuale. Ma questa dialettica può incepparsi tanto per gli effetti di dissoluzione imputabili alle tecnologie surmoderne quanto per gli effetti di indurimento e di glaciazione indotti dal ripiegamento sulle appartenenze esclusive. Che la relazione con il mondo si irrigidisca o si virtualizzi, essa sottrae l’identità alla prova dell’alterità. Crea così le condizioni della solitudine e rischia di generare un io tanto fittizio quanto l’immagine che essa si fa degli altri» (Augé 1998: 30).
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Carillon o forse no (ph. Vitrano)

La posta in gioco è la capacità dell’uomo di gestire le diverse componenti individuali, collettive e le loro naturali interrelazioni. Nel dispiegamento del concetto, l’autore parte dalla figura del corpo e della sua percezione. Molti individui tendono a non identificarsi interamente con l’immagine che hanno di sé, cioè con il proprio corpo ma parecchie volte lo sentono come una frontiera, un limite da superare o difendere. Ciò non implica necessariamente la sensazione di una separazione netta tra corpo e spirito. Nadel [5] nei suoi studi etnografici tra i Nupe [6] indaga sulla concezione pluralistica dell’uomo che la loro religione detiene. Secondo la quale, l’uomo ha: un corpo, un’anima detta rayi e una proiezione del corpo, detta fifingi, necessaria a donare forma visibile, e più o meno tangibile, allo spirito durante i propri viaggi ancestrali che coinvolgono l’individuo nella sfera del sogno.

Anche l’elemento del sogno si compone di diverse sfumature; infatti la macrocategoria degli Handikia racchiude in sé tutte le categorie di sogno, suddividendole principalmente in Kanëhe, ovvero sogno nel sonno, e Handivaga, sogno da svegli. La possessione viene collocata in relazione al sogno come inverso a esso, e non contrario. Mentre nel sogno si assiste ad un movimento dell’anima verso la dimensione divina, con un movimento inverso nella possessione assistiamo ad una discesa di demoni, entità divine in una dimensione tutta umana. Sia sogno che possessione sono collocabili, quindi, all’interno di un medesimo processo.

Dopo aver preso in esame pluralità dell’io e relazione sogno/possessione possiamo focalizzare l’indiscutibile continuità tra condizione fisica e spirituale in cui l’individuo si ritrova a interagire. Questi tre punti sono quelli più spesso comuni tra le variegatissime rappresentazioni ritualistiche del popolo africano. Ma ciò che è cruciale osservare è il rapporto io/altro sia nel sogno che nella possessione; noteremmo che il sognatore si relaziona con l’oggetto del proprio sogno mettendo di fronte il sé a un sé ‘tinto di alterità’, allo stesso modo durante la possessione l’io si confronta con una diversità che si tinge invece di similarità. Questo avviene perché semplicemente il soggetto sognato, agente nella visione, non è identico a colui che sogna e la potenza che possiede non è mai totalmente estranea al posseduto.

Delineati questi termini, possiamo finalmente avere una visione del sogno che non invoca solo un immaginario individuale e una visione della possessione che non implica una totale invasione dello spazio identitario da parte di un’entità ignota, piuttosto i due fenomeni sono sempre impregnati dell’uno e dell’altro elemento. L’alterità (demone, potenza che possiede) sarà ben lungi dall’escludere l’identità (sogno, percezione di sé) sostituendola con una personalità esterna, invece la arricchisce con qualcosa che non le appartiene ma che, contemporaneamente, non si discosta poi troppo da sé. Il risultato vede l’identità sempre integrabile e flessibile all’alterità.

La storia ci offre numerosi esempi di scontri tra immaginari che si traducono in corsa all’egemonia sull’immagine. L’autore trasporrà in chiave storica i concetti antropologici finora descritti, mostrandoci il risvolto pratico che profila la messa in atto dei meccanismi sociali precedenti. Augé si soffermerà in particolare su eventi storici risalenti al Medioevo europeo che vede sfidare l’immagine cristiana contro quella amerindia in Messico, a cui avevamo già accennato. Mette anche in una prsopettiva comparativa lo stesso fenomeno collocato in diverse dimensioni temporali, quelle passate e quelle presenti: una comparazione che ci guida verso interrogativi che hanno al loro centro una ridefinizione dei caratteri dell’immaginario o addirittura il dubbio sulla loro stessa esistenza.

6Borges e la sua ‘finzione nella finzione’

La creazione artistica è una cristallizzazione in scrittura, immagine o qualsivoglia codice espressivo di un immaginario individuale, che si presta a interagire con altri immaginari individuali o, addirittura, a formare un immaginario collettivo. Freud, psicoanaliticamente, individua l’atto di creazione nel gioco del bambino, che libera il suo immaginario creando un proprio mondo tenuto, però, ben distinto dalla realtà. Così farà l’artista, che terrà sempre presente la linea di confine tra realtà e sogno e ciò che di reale influenza il sogno e viceversa. Se il bambino o il creatore si lasciassero sovrastare dal proprio gioco o dalla propria creazione cadrebbero in uno stato di psicosi o nevrosi, così come un impoverimento della sfera fantasiosa/creatrice può avere ripercussioni sugli immaginari. Come proporrà lo stesso Augé:

«Avanzeremo l’ipotesi che, di conseguenza, ogni inaridimento di una di queste fonti può avere effetti anche sulle altre due. Questo è il rischio che ci fa correre oggi la guerra dei sogni» (Augé 1998: 59).

In Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, Jorge Luis Borges sembra venir meno alla convenzione creatrice che distingue un argine netto tra realtà e creazione. A proposito, lo scrittore fa apparire, senza indugio, due figure fondamentali: lo specchio e l’enciclopedia, entrambi simbolo della replicabilità inconsistente del reale. La narrazione, in prima persona, porta immediatamente il lettore a credere di star assistendo, quasi direttamente, al racconto di una serie di eventi vissuti dall’autore. Lui stesso introdurrà il secondo protagonista con un’affermazione che suona più come un dispiegamento del proprio intento narrativo:

«Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti (…)»  (Borges 1995: 7).

Ciò su cui vorrei soffermarmi è la reazione che si ha, generalmente, iniziando a leggere subito il testo, ignorandone l’introduzione; ci si chiede se narri eventi vissuti o meno, se voglia documentare qualcosa, dal momento che riesce a dare la sensazione di essere un genere documentaristico, o se voglia semplicemente narrare per il gusto di narrare e sperimentare. Una cosa è certa: si intrufola nell’immaginario individuale, e lo fa senza nemmeno troppi sforzi. Mi sono posta fuori di me e mi sono sorprendentemente vista a cercare e ricercare partendo da informazioni significative (nomi, simboli, indizi ecc.) captate nel testo per riuscire a comprendere se fossero vere, collegabili a qualcosa di certamente avvenuto.

Sono perfettamente caduta nella trappola che Borges ha costruito ad hoc per i suoi lettori. Ho usato il verbo ‘costruire’, perché si tratta di qualcosa di ben strutturato nell’atto artistico che è già, di per sé, immaginazione/finzione e quindi, in sostanza, siamo in presenza di finzione nella finzione. In questo caso però esiste un elemento additivo: il dubbio che il racconto fantastico non sia veramente tale ma abbia dei fondamenti di verità celata, quindi l’incertezza che la finzione sia realmente finzione. Qui, possiamo ricollegarci al concetto di ambiguità spiegato da Augé in Finzioni di fine secolo con la sola differenza che Borges, potendoselo permettere (il suo mezzo è la letteratura), lo sviluppa su più piani, mentre Augé con una riflessione socio-antropologica non può far altro che articolarlo partendo da una realtà e non da una creazione artistica.

Inoltrandoci nella trama, oltre il senso di smarrimento, si intuisce che l’obiettivo dei due personaggi è quello di ritrovare la documentazione che attesta l’esistenza di un mondo quasi “parallelo” con coordinate spazio-temporali totalmente diverse da quelle generalmente concepite e regolato da dottrine filosofiche, matematico e geometriche ben articolate. Come in The Invaders l’extra-terrestre prova a penetrare il terrestre e a sostituirvisi, allo stesso modo opera la finzione sulla realtà. Borges ci parla di oggetti secondari, i hrönir, copie ideali di oggetti reali, che poco a poco iniziano a essere ritrovati nel nostro pianeta, a confermare l’ipotesi dell’invasione. E così, attraverso l’idealismo filosofico, lo scrittore argentino sottolinea quanto il potere del linguaggio, delle idee, dell’immaginario possa influenzare, modellare e rimodellare il reale.

La scelta narrativa di ammettere in chiusura un post-scriptum successivo ai fatti descritti mi riporta allo stesso espediente cui ricorre Marc Augé in Finzioni di fine secolo, entrambi con lo scopo di testimoniare l’evoluzione del regime fittizio con il progredire del tempo. Per di più, noto l’importanza per entrambi gli autori di soffermarsi sulla tematica del totalitarismo e della violenza, strettamente connessi a un regime di finzione e, alla prima citata, scomparsa di un elemento che faccia da mediazione tra i poli dell’immaginario. A tal proposito, mi piacerebbe concludere con un passo del libro di Borges, di profondissima attualità:

«Quasi immediatamente, la realtà ha ceduto in più punti. Quel ch’è certo, è che anelava di cedere. Dieci anni fa, bastava una qualunque simmetria con apparenza di ordine – il materialismo dialettico, l’antisemitismo, il nazismo – per mandare in estasi la gente. Come, allora, non sottomettersi a Tlön, alla vasta e minuziosa evidenza di un pianeta ordinato? Inutile rispondere che anche la realtà è ordinata. Sarà magari ordinata, ma secondo leggi divine – traduco: inumane – che non finiamo mai di scoprire. Tlön sarà un labirinto, ma è un labirinto ordito dagli uomini, destinato a essere decifrato dagli uomini. Il contatto con Tlön, l’assuefazione ad esso hanno disintegrato questo mondo. Incantata dal suo rigore, l’umanità dimentica che si tratta d’un rigore di scacchisti, non di angeli» (Borges 1995 : 26).
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] Marc Augé nato a Poitiers il 2 settembre 1935, antropologo di fama internazionale, noto soprattutto per aver introdotto il concetto di non-luogo nell’ambito delle discipline socio-antropologiche e con esso la definizione di surmodernità.
[2] Gli invasori (The Invaders) è una serie televisiva statunitense di genere fantascientifico trasmessa per la prima volta negli USA nel 1967 e mandata in onda in Italia dal febbraio 1981.
[3] Docente di Antropologia all’Università dell’Iowa e membro dell’American Anthropological Association Committee for Human Rights. Svolge lavori etnografici e a sostegno di comunità indigene brasiliane e venezuelane.
[4] Storico francese, impronta i suoi studi e la sua ricerca intorno la colonizzazione dell’America e dell’Asia, in particolare si interessa di esperienze coloniali come luogo di meticciato, creazione di spazi ibridi e come il manifestarsi di una sorta di proto-globalizzazione.
[5] Siegfried Frederick Nadel, antropologo austriaco che spende la sua professione prevalentemente tra gli ambienti universitari e intellettuali della Gran Bretagna. Inizialmente avviato a studi musicali, sviluppa un significativo interesse per la psicologia e la filosofia che lo porteranno ad approdare alla letteratura antropologica e a specializzarsi in etnologia africana.
[6] Gruppo etnico situato principalmente tra il territorio settentrionale della Nigeria e la regione chiamata Middle Belt, che suddivide idealmente il paese in zona Nord e Sud. Rappresentano il gruppo dominante del Niger, cuore della Nigeria.
Riferimenti bibliografici
Augé M., La guerra dei sogni, Elèuthera, Milano, 1998
Augé M., Finzioni di fine secolo.Che cosa succede?, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
Borges J.L., Finzioni, Einaudi, Torino, 1995
Ginzburg C., La guerra delle immagini. Da Cristoforo Colombo a Blade Runner, Sucargo, Milano, 1991.
Nadel S.F., Nupe religion, Routledge & K. Paul, 1954, Londra, 1954.

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Mariangela Vitrano, neo-laureata in Lingue e Letterature moderne e Mediazione Linguistica all’Università degli Studi di Palermo, si interessa di antropologia e in particolare dei processi migratori, non solo in quanto fenomeno sociale ma anche sotto l’aspetto artistico ed esistenziale.

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