«Comprare e possedere Gaza»
Durante la sua campagna elettorale Donald Trump aveva sempre affermato chiaramente di voler dare fine alle guerre in corso, in primo luogo a quella nella Striscia di Gaza. E, prima ancora del suo insediamento ufficiale, era riuscito a ottenere da Benjamin Netanyahu – fino a quel momento sordo alle reiterate richieste di Biden – una tregua che, dopo quindici mesi, ha finalmente messo fine alle operazioni militari in quel tormentato territorio, fermando la strage dei civili palestinesi e riaprendo le vie al rifornimento di generi alimentari, bloccate durante questo tempo da Israele.
Il suo rapporto privilegiato col premier israeliano era stato poi confermato dall’invito a Washington, il primo rivolto a un capo di Stato estero. Regnava tuttavia la più grande incertezza su quello che Trump avrebbe detto al suo interlocutore. Le ipotesi più accreditate erano due. Una, quella più ottimista, secondo cui dal colloquio sarebbe uscito uno stop definitivo alla guerra, in continuità con la tregua da poco avviata, che prevedeva, nella sua ultima tappa, la definitiva conclusione delle ostilità. L’altra ipotesi era che il nuovo inquilino della Casa Bianca desse mano libera a Netanyahu per riprendere e continuare la campagna militare dell’esercito israeliano (Idf) fino al raggiungimento dei due obiettivi che sin dall’inizio il premier dello Stato ebraico aveva indicato, e che continuava a dichiarare irrinunciabili anche dopo la tregua: l’annientamento di Hamas e la liberazione degli ostaggi.
Queste e tutte le altre previsioni sono state drasticamente sovvertite dai 40 minuti della conferenza stampa congiunta di Trump e Netanyahu, al termine del loro incontro. Davanti a un presidente israeliano sorridente e una platea di giornalisti sbigottiti, Trump ha detto che la sua intenzione è di evacuare la Striscia di Gaza, “trasferendo” i circa 2 milioni di palestinesi che la abitano nei vicini Paesi arabi – Giordania ed Egitto –, e di costruire, al posto delle macerie, un mega resort turistico di lusso, una Dubai in stile monegasco, affacciata sul Mediterraneo Orientale. «Faremo qualcosa che nessuno ha mai fatto», ha detto. «Penso che lo trasformeremo in un posto internazionale, bellissimo. Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile».
Secondo il presidente Usa, attualmente «Gaza è un inferno, nessuno ci vuole vivere. I palestinesi adorerebbero andarsene». La Striscia non sarebbe occupata, però, da Israele, ma passerebbe sotto il controllo diretto degli Stati Uniti. Anzi sarebbe lo stesso Stato Ebraico – come Trump ha chiarito in una successiva dichiarazione – a consegnarla al suo “Grande Fratello” d’Oltreoceano, dopo avere effettuato l’evacuazione degli attuali abitanti.
In realtà, secondo il presidente americano, «a tutti piace l’idea che gli Stati Uniti controllino quel pezzo di terra creando migliaia di posti di lavoro (…). Questo non è per Israele ma per tutti». E a Gaza «ci vivranno le persone del mondo, anche palestinesi. Sarà la rivière del Medio Oriente». E gli Stati arabi? Il tycoon non vede problemi: «A molti in Medio Oriente piace l’idea» perché porterà «stabilità».
Pochi giorni dopo, in un’intervista a bordo dell’Air Force One, Trump ha ribadito il suo progetto di «comprare e possedere Gaza». Sottolineando , ancora una volta, che si tratta di «un luogo distrutto» e che «non si può vivere in quegli edifici in questo momento», perché «sono molto insicuri». «Ma», ha assicurato, «li trasformeremo in un ottimo posto per il futuro». Alla domanda del giornalista se i palestinesi avrebbero «il diritto al ritorno» nella loro terra, il presidente ha risposto: «No, non lo avrebbero perché avranno alloggi molto migliori».
L’entusiasmo di Israele, l’indignazione del mondo
È appena il caso di dire che questa svolta della politica americana – dopo anni di raccomandazioni alla moderazione e al rispetto del diritto internazionale, mal sopportate dal governo di Tel Aviv – ha galvanizzato la grande maggioranza dei dirigenti israeliani, sia quelli al governo che quelli all’opposizione. L’ex ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, che all’inizio di quest’anno si è dimesso dal gabinetto di guerra di Netanyahu per protestare contro l’accordo di cessate il fuoco a Gaza, ha scritto su X: «Donald, questo sembra l’inizio di una bellissima amicizia». Al ritorno da Washington, Netanyahu ha dichiarato che il suo incontro con Trump ha portato a «enormi risultati che possono garantire la sicurezza di Israele per generazioni». E ha definito quella del presidente americano una «visione rivoluzionaria e creativa» che «aprirà molte possibilità» per Israele.
Quanto ai gazawi, Netanyahu ha abbracciato con entusiasmo la linea di Trump, evidenziando che anche per loro questa è la migliore soluzione. «Non è uno sfratto forzato, né una pulizia etnica. Tutti parlano di Gaza come di una prigione a cielo aperto, e allora perché tenere questa gente in prigione?». E, qualche giorno dopo: «Noi permettiamo alle persone di andarsene. Negli ultimi due anni 150.000 abitanti di Gaza se ne sono andati. I ricchi potevano andarsene. Ma se altri vogliono emigrare, è una loro scelta». Il piano è piaciuto anche al leader del partito di opposizione israeliano «Unità nazionale», Benny Gantz, che ha elogiato le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti definendole «creative, originali e interessanti». La sola voce critica rimasta è quella del giornale di sinistra «Haaretz»
Fuori di Israele, invece, il progetto di Trump ha ricevuto un coro unanime di critiche indignate. Il Segretario generale dell’Onu, Guterres, ha dichiarato senza riserve che «è fondamentale restare fedeli ai fondamenti del diritto internazionale, ed essenziale evitare qualsiasi forma di pulizia etnica». Il Presidente francese Macron e quello egiziano Al Sisi hanno avvertito che «qualsiasi spostamento forzato della popolazione palestinese a Gaza come in Cisgiordania sarebbe inaccettabile». «L’espulsione della popolazione civile palestinese da Gaza non solo sarebbe inaccettabile e contraria al diritto internazionale. Porterebbe anche a nuove sofferenze e a nuovo odio», ha dichiarato in un comunicato Annalena Baerbock, ministro degli Affari esteri della Germania.
«Voglio dire una cosa molto chiara: Gaza è la terra dei palestinesi di Gaza e loro devono rimanere a Gaza», ha detto il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares. E il suo omologo irlandese, Simon Harris ha fatto notare che «qualsiasi idea di trasferire la popolazione di Gaza altrove sarebbe in chiara contraddizione con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». «Ai palestinesi di Gaza deve essere permesso di tornare a casa. Deve essere permesso loro di ricostruire e noi dovremmo essere con loro in questa ricostruzione sulla strada di una soluzione a due Stati», ha detto il primo ministro britannico Keir Starmer.
Per i Paesi Bassi non ci sono dubbi: «Gaza appartiene ai palestinesi», ha dichiarato il ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp. «La nostra posizione è e rimane invariata: i Paesi Bassi sostengono una soluzione a due Stati. Ciò significa uno Stato palestinese indipendente e vitale accanto a un Israele sicuro».
Perfino l’Italia, malgrado la forte sintonia di Giorgia Meloni con il presidente americano – espressa ultimamente dal rifiuto del nostro governo di firmare con gli altri Stati europei (tranne l’Ungheria e la Repubblica Ceca) l’appello in difesa della Corte penale internazionale – ha preso le distanze dalla proposta del presidente americano: «La posizione dell’Italia è quella dei due popoli due Stati», ha ribadito il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Anche se ha evitato di dare un giudizio di merito sulla svolta trumpiana e si è trincerato dietro la sua inattuabilità pratica: «Mi pare che la proposta di Trump non sia stata accolta dagli egiziani e dai giordani ed anche Israele ha detto che serve il consenso dei palestinesi», ha ricordato.
Quanto agli Stati mediorientali, tutti hanno bocciato senza mezzi termini il piano americano. Dell’Egitto si è già detto. Anche il re di Giordania Abdullah II, in un colloquio diretto con Trump, ha fermamente ribadito il suo no. Ma il rifiuto forse più pesante è quello dell’Arabia Saudita, il tradizionale alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente, che già con Biden erano sul punto di firmare gli “Accordi di Abramo”, lanciati nel 2020 proprio da Trump e finalizzati alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi. «Non ci sarà alcuna normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese indipendente», ha avvertito il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, Faisal bin Farhan Al Saud. E una reazione di parte islamica molto dura, fuori del mondo arabo, è venuta anche dalla Turchia, il cui ministro degli Esteri ha definito «inaccettabile» l’idea di Trump.
Una politica senza etica
Alcune considerazioni si impongono, davanti a questo quadro. La prima è di natura etico-politica: anche nel caso di Gaza, come sugli altri fronti internazionali, la linea di Trump è dichiaratamente quella di assumere gli interessi degli Stati Uniti – sotto l’etichetta della «sicurezza nazionale», ma anche, come in questo caso, del puro e semplice business economico – come l’unico criterio delle scelte da fare. Ogni richiamo ai princìpi su cui si fonda il diritto internazionale – il rispetto dei diritti umani, l’autodeterminazione dei popoli, la giustizia – sembra estraneo alla sua logica.
Così come lo è il più elementare senso della verità: per il presidente americano è vero ciò che gli è utile considerare tale, anche contro la più lampante evidenza. Così può sostenere senza battere ciglio che il suo piano di deportazione in massa di un popolo è il modo migliore di garantirne la felicità e che questo piano – in realtà da ogni parte contestato (tranne che da Israele) – piace a tutti.
La politica ha sempre avuto con la morale un rapporto problematico e spesso ne ha tradito le esigenze. Ma lo ha fatto di nascosto, evidenziando, con ciò, una certa vergogna. Con Trump questo pudore è stato rimosso. Le legge del più forte viene proclamata senza ombra di imbarazzo. I partiti e i giornali di destra, in Italia come altrove, esaltano questa sincerità come una liberazione, finalmente, dalla retorica e dai falsi moralismi. Ma dovrebbe fare riflettere che un simile esplicito capovolgimento dei valori umani fissati nel corso della tradizione dell’Occidente si è avuto, finora, solo col nazismo. L’arroganza di un potere economico e militare che pretende di porsi al di là del bene e del male non determina solo una rottura delle convenzioni formali, ma della sostanza dell’umano.
Ciò vale per molti aspetti della politica di Trump, ma è particolarmente evidente nel suo progetto relativo al territorio di Gaza. Solo un cinismo rivoltante può far leva sulla sua desertificazione da parte di Israele, anche grazie alle 7.000 bombe ad alto potenziale fornite in questi quindici mesi dagli Stati Uniti, per giustificare la sua espropriazione e la deportazione dei suoi legittimi abitanti.
Tutto ciò, peraltro, è sulla linea di ciò che ha fatto finora lo Stato ebraico. L’“inferno” della Striscia, come Trump l’ha definito, non è stato il frutto di un disastro naturale, ma della violenza devastante di una campagna militare deliberatamente finalizzata a rendere quell’ambiente inabitabile attraverso una sistematica «distruzione di massa delle case e delle infrastrutture» anche di quelle «non coinvolte nei combattimenti», stando al resoconto degli inviati del quotidiano israeliano «Haaretz». Ancora più cinica, se possibile, è la pretesa di Netanyahu di presentare la deportazione dei gazaawi come «una loro scelta», dopo aver creato deliberatamente le condizioni per rendere loro impossibile rimanere .
Sullo sfondo la prospettiva di un gigantesco business che – anche se non dovesse coinvolgere direttamente l’immobiliarista Trump, come lui si è affettato a dichiarare (ma si è già detto che conto fare della sua sincerità) – permetterà alla finanza internazionale di trarre immensi profitti dalla tragedia del popolo palestinese. Evidente il collegamento tra l’estremizzazione della logica del neocapitalismo e il tradimento di tutti i princìpi a cui la democrazia, in Occidente, aveva fatto finora riferimento e che la rendono degna di questo nome.
La sola discrepanza tra i progetti della destra israeliana e il piano di Trump sta nel fatto che la prima ha puntato sulla inabitabilità della Striscia nella prospettiva – dichiarata – di aprirla alla colonizzazione ebraica, e non di lasciarla agli Stati Uniti. Ma, in compenso, gli ultra-ortodossi stanno avendo finalmente mano libera nella pulizia etica del territorio della Cisgiordania, dove masse sempre più consistenti di palestinesi sono scacciate con la forza dall’Idf, in totale violazione dei diritti umani e delle risoluzioni dell’Onu di tutti questi anni.
Lascia stupefatti che ogni critica a tutto questo progetto sia stata bollata finora come un segno della recrudescenza dell’antisemitismo ancora serpeggiante nel mondo, identificando disinvoltamente il popolo ebreo con lo Stato d’Israele e Israele (dove in realtà molti sono gli oppositori a questa politica criminale) col suo premier, che peraltro è stato ufficialmente condannato dalla Corte Penale Internazionale, insieme al ministro della guerra Galland, per «crimini contro l’umanità».
Questa identificazione è stata in particolare sostenuta da autorevoli esponenti del mondo ebraico, come la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Italiane, Noemi di Segni. La storica ebrea Anna Foa, nel suo recente libro Il suicidio d’Israele, segnala che, dalla fine del secolo scorso la diaspora ha perso la sua autonomia, «appiattendosi su Israele». In particolare, scrive l’autrice, si è avuta una «sempre maggiore dipendenza del rabbinato europeo rispetto al rabbinato israeliano», specie in Italia. «Oggi l’ebraismo europeo è privo (. . . ) di ogni autonomia rispetto ad Israele», mentre mantiene una certa autonomia quello americano.
A conferma di quest’ultima notazione, in questi giorni un’intera pagina del «New York Times», ha pubblicato un appello la cui sintesi era: «Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza. Gli ebrei dicono no alla pulizia etnica!». Nel documento, firmato da oltre 350 rabbini, attivisti ed altri esponenti del mondo culturale nordamericano ebraici, si condanna senza mezzi termini la proposta del presidente degli Usa di «spostare i palestinesi al di fuori della Striscia» per crearvi un sito di pregio immobiliare».
I rabbini americani non sono nuovi a prese di posizione del genere. Trentasei di loro, nel gennaio 2024, interruppero con canti e striscioni l’assemblea generale dell’Onu per chiedere che l’allora presidente, Joe Biden, smettesse di bloccare con il veto, al Consiglio di sicurezza, ogni mozione a sostegno di un cessate-il-fuoco immediato e permanente a Gaza. A conferma che l’ombra dell’antisemitismo è solo un alibi sventolato da Netanyahu e dai suoi sostenitori.
Un pessimo stratega
In realtà Trump è anche un pessimo stratega e i suoi calcoli non solo sono immorali, ma si stanno rivelando politicamente disastrosi. Dopo aver promesso solennemente di porre fine alla guerra in Medio Oriente – una promessa che sembrava confermata dalla imposizione della tregua, il cui iter prevedeva una conclusione definitiva del conflitto –, il presidente Usa, con la sua intempestiva presa di posizione sul futuro di Gaza, ha di fatto annullato questa prospettiva, incoraggiando Israele a continuare la sua offensiva, per consegnare agli Stati Uniti la Striscia dopo averla conquistata. Che interesse potrebbe avere ormai Tel Aviv ad accettare lo status quo, una volta avuto il via libera a prendersi tutto? E perché Hamas dovrebbe completare la restituzione degli ostaggi, una volta cancellata ogni speranza di ottenere, con ciò, la fine delle ostilità?
È vero, i negoziati formalmente continuano in vista della seconda fase. Ma i toni si sono esasperati. Sia Trump, sia successivamente il segretario di Stato americano Marco Rubio, giunto a Tel Aviv, minacciano «l’inferno» se Hamas non restituirà tutti gli ostaggi. Ma non dicono cosa succederà se la consegna avverrà. E poiché «l’inferno» a Gaza regna già da quindici mesi, non si capisce cosa possa spingere il movimento islamico a rinunziare unilateralmente alla sua principale carta di scambio.
In ogni caso, che li consegnino o no, la guerra di Gaza, dunque, è destinata a riprendere e a prolungarsi indefinitamente fino alla tutt’altro che imminente eliminazione di Hamas (Israele ci prova vanamente da quindici mesi): esattamente il contrario dei propositi di Trump. Non solo, ma, collegando la sconfitta di Hamas alla deportazione dei due milioni di palestinesi, il presidente americano è riuscito a saldare definitivamente il destino del gruppo terroristico islamico con la totalità del popolo. Un capolavoro diplomatico.
Quanto alla promessa che da tutto questo deriverà l’agognata «stabilità» dell’intera regione, è chiaramente infondata, come lo era già, del resto, la tesi di Netanyahu che distruggendo Hamas lo Stato ebraico avrebbe finalmente ottenuto una vera sicurezza. La violenza, da che il mondo è mondo, ha generato solo altra violenza. Le scene della liberazione degli ostaggi israeliani, da una parte, dei detenuti palestinesi dall’altra, hanno mostrato una folla che inneggiava ad Hamas e sventolava le sue bandiere. Certo, il movimento islamico ha avuto gravi perdite, ma le sta già rimpiazzando con nuovo leve. E quando bambini e i ragazzini a cui sono stati uccisi i genitori, distrutte le case, imposti freddo e digiuni – per non parlare di quelli che resteranno mutilati – cresceranno, saranno il nuovo campo di reclutamento per Hamas o per chi verrà dopo Hamas.
L’idea del trasferimento in altri Paesi mediorientali non fa che rendere ancora più drammatica questa prospettiva di conflittualità permanente. Uno dei principali motivi per cui Egitto e Giordania rifiutano decisamente di accogliere i gazawi espulsi è che essi sanno di non potere impedire che, dopo la deportazione, compiano continui attacchi ad Israele e lo costringano (o lo autorizzino?) a rispondere invadendo il loro territorio e violando la loro sovranità. In nome dello slogan «Israele ha il diritto di difendersi», già abusato nella guerra di Gaza, vedremmo esplodere altre guerre, questa volta coinvolgenti proprio i soli governi arabi che finora gli Usa sono riusciti a rappacificare con lo Stato ebraico e che hanno avuto negli ultimi anni buoni rapporti con Tel Aviv. Un bel risultato per gli Stati Uniti!
Insomma, la pace in Medio Oriente promessa da Trump ricorda il detto «fecero il deserto e lo chiamarono pace». In ogni caso resta lontana, perché la sua stessa politica la sta rendendo sempre più improbabile. E comunque, se un giorno verrà, sarà rappresentata da un resort di lusso costruito sulle macerie materiali e umane di un popolo crocifisso.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Giuseppe Savagnone, dal 1990 al 2019 è stato direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, di cui oggi cura il sito «www.tuttavia.eu, pubblicandovi settimanalmente un editoriale nella rubrica “Chiaroscuri”. Scrive per quotidiani e periodici e collabora con «Tv2000», «Radio in Blu», «Radio Vaticana» e «Radiospazionoi». Nel 2010 ha ricevuto il premio «Rocco Chinnici» per l’impegno nella lotta contro la mafia. Tra le sue pubblicazioni, Quel che resta dell’uomo. È davvero possibile un nuovo umanesimo?, Cittadella Editrice, Assisi 2015; Il gender spiegato a un marziano, Edizioni Dehoniane, Bologna 2016; Cercatori di senso. I giovani e la fede in un percorso di libertà, Edizioni Dehoniane, Bologna 2018, Il miracolo e il disincanto. La provvidenza alla prova, Edizioni Dehoniane, Bologna 2021.
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