di Maria Paola Nanni, Franco Pittau
Il profilo sempre più plurale del quadro religioso italiano implica ricadute (e valutazioni) su diversi livelli (storico, culturale, giuridico, politico…). Il riconoscimento e la tutela di questa crescente eterogeneità chiamano in causa, innanzitutto, il “concetto di Paese” che si intende promuovere.
Il sentimento identitario e l’attaccamento alla nazione che ne può derivare includono indubbiamente la consapevolezza del passato (e, a volte, l’enfatizzazione delle “radici”), ma implicano anche la presa in considerazione delle sue attuali caratteristiche strutturali. Una consapevolezza, questa, ancora ampiamente deficitaria. Si rifugge, infatti, dal considerare che l’Italia, pur essendo il centro del cattolicesimo mondiale, è anche profondamente segnata da una sempre più ampia e diversificata dimensione multireligiosa: un’evidenza che si stenta (o addirittura ci si rifiuta) di riconoscere, quasi si trattasse di una caratteristica transitoria o marginale.
Di fronte a questa incapacità, o quantomeno riluttanza, si evidenzia – per contrasto – l’illuminata visione dei Padri costituenti che, dopo una dittatura che aveva fatto un uso strumentale della religione, presero le mosse dalle carenze riscontrate nei rapporti con le comunità protestanti per proporre un impianto di tutela funzionale ancora oggi, nonostante lo scenario di riferimento sia caratterizzato da una diversificazione quantomai accentuata.
Dopo la chiusura del periodo fascista, emblematicamente rappresentata dall’infamia delle leggi razziali, i costituenti erano consapevoli di dover promuovere norme in grado di garantire tutti e proposero uno schema di tutela aperto, articolato, completo (per l’ampiezza degli aspetti presi in considerazione), nonché attento anche ai passaggi operativi e alla capacità di mantenersi valido nel tempo, con alla base l’obiettivo di evitare che le differenze religiose fossero di pregiudizio all’identificazione con il Paese (che fosse di origine o di elezione).
La fase attuativa, però, è stata meno pronta ed efficace. Tali disposizioni, infatti, sono rimaste a lungo inapplicate e una seria riflessione al riguardo è iniziata solo quando il mondo cattolico, prima arroccato sullo status quo, è stato investito dal vento innovatore del Concilio Vaticano II. Si è potuto, così, nel 1984, superare il Concordato del 1929 (i cd. Patti Lateranensi), incluso il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, e approvare le prime Intese con le altre confessioni, secondo l’impianto pattizio delineato dal dettato costituzionale.
Per tutte le confessioni prive di Intesa, però, restano in vigore alcune norme del periodo fascista (la legge 24 giugno 1929, n. 1159 e il Regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289), non essendo tuttora stata varata una legge sulla libertà religiosa. Si sono quindi definiti livelli di tutela differenziati, a discapito delle confessioni prive di Intesa, che, nonostante le indicazioni costituzionali e la dimensione sempre più ampia delle comunità di fedeli interessate, finiscono per limitare il godimento dei relativi diritti alla libertà di religione e di culto. Una carenza di rilievo, che illustreremo di seguito, specchio dell’attendismo e l’incapacità decisionale di una classe politica e un’opinione pubblica poco sensibili ad aspetti che, invece, per la Costituzione sono prioritari e dei quali appare tutta la gravità quando si pensa, come illustreremo da ultimo, che riguardano milioni di persone (cittadini italiani e stranieri stabilmente residenti nel Paese).
Una possibile soluzione, come accennato, è rappresentata dall’approvazione di una legge sulla libertà religiosa, che si potrebbe comporre con la stipula di nuove Intese e il mantenimento di quelle in vigore, garantendo il rispetto dei diritti e delle libertà di tutti i fedeli, a prescindere dalla confessione di appartenenza. Nelle ultime due legislature il tema ha riscosso scarsa attenzione, mentre in quelle precedenti i dibattiti e le audizioni svoltesi nelle competenti Commissioni parlamentari hanno posto in evidenza un panorama ancora diviso tra un’apprezzabile disponibilità alla revisione delle norme, una timida tiepidezza e un’aperta contrarietà, specialmente nel caso dell’Islam. Si continua a pensare a un Paese distante dalla sua reale connotazione, senza considerare che una regolamentazione più completa e adeguata alla situazione attuale favorisce anche l’identificazione con lo Stato dei nuovi cittadini. Abbiamo scritto queste riflessioni per favorire tale obiettivo.
Dalle restrizioni del periodo fascista alle aperture della Costituzione repubblicana [1]
La Costituzione del 1947 ha modificato radicalmente i parametri di riferimento in tema di libertà religiosa ma non ha abrogato – salvo per gli articoli sottoposti a un giudizio di legittimità – tutte le norme precedenti, compito che spetta al legislatore ordinario, tramite una legge generale che contempli tutte le disposizioni necessarie per superare la normativa del passato. Il riferimento, ovviamente, è alle disparità di trattamento legate alla normativa del 1929/1930, cui tuttora restano sottoposte le confessioni religiose non firmatarie di un’Intesa con lo Stato italiano.
Durante il periodo fascista si scelse infatti l’alleanza con la Chiesa cattolica ampiamente maggioritaria nel Paese, sancita dalla stipulazione dei Patti Lateranensi: gli accordi siglati nel 1929 tra Stato italiano e Santa Sede, ratificati dalla legge n. 810 del 1929, che realizzarono un orientamento confessionale a favore del cattolicesimo, dichiarato nuovamente sola religione dello Stato, mentre gli altri culti (“acattolici”), prima solo “tollerati”, furono riqualificati come “culti ammessi”. In forza della legge n. 1159 dello stesso anno (Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi), che in nessun passo sancisce in maniera esplicita il principio della libertà religiosa, e del suo decreto di attuazione, il Regio decreto n. 289 del 1930, si delineava quindi un doppio livello di trattamento. Il primo riguardava la Chiesa cattolica, i cui reciproci rapporti con lo Stato erano regolamentati tramite il Concordato del 1929. Il secondo tutte le altre confessioni religiose, qualificate come “culti ammessi” e soggette a una rigida disciplina, che includeva molti controlli statali e ampie restrizioni nei confronti delle confessioni prive di riconoscimento giuridico.
Al contrario, nel nuovo impianto delineato dalla Carta costituzionale, è improprio parlare di culti “ammessi”, essendo tutte le scelte religiose accettate e tutelate, ma, anche dopo la sua promulgazione, diverse disposizioni del periodo precedente hanno continuato ad applicarsi nei confronti delle confessioni che, pur riconosciute ufficialmente come Enti di culto, non sono firmatarie di un’Intesa con lo Stato. Ne derivano delle limitazioni per quanto riguarda la concreta operatività religiosa (ad esempio, per l’apertura di luoghi di culto e di incontro o per l’osservanza di vari precetti), come pure sugli effetti civili del matrimonio religioso o sull’accesso alla ripartizione dei fondi dell’Otto per mille.
Rispetto al passato, in ogni caso, il disegno della Costituzione repubblicana si evidenzia per la sua apertura, radicalmente diversa rispetto alle disposizioni fatte valere durante il regime fascista e, in altri termini, anche rispetto al precedente periodo liberale. La Carta costituzionale prende infatti in considerazione la libertà religiosa nei suoi vari aspetti (sia individuale che collettivo e istituzionale) [2].
Il quadro normativo che ne discende, è utile ricordarlo, fu il risultato di posizioni diverse e non trovò inizialmente un appoggio pieno e condiviso. Parte dei cattolici, in particolare, era interessata a salvaguardare, anche nel contesto repubblicano, gli assetti raggiunti con i Patti Lateranensi, e tale impostazione venne riconosciuta anche dal Partito Comunista su pressione del suo segretario Palmiro Togliatti, che valutò con realismo il contesto politico e religioso dell’epoca.
Gli evangelici, la cui presenza era stata significativa nelle fila della Resistenza, si adoperarono invece per indirizzare i costituenti verso un’impostazione la più ampia possibile, che considerasse anche la facoltà di fare propaganda (istanza di fatto recepita dalla Costituzione), così da superare gli ostacoli fino ad allora incontrati. Auspicavano quindi, al contrario, una regolamentazione uniforme per tutti i culti nell’ambito del diritto comune ed erano contrari alla menzione dei Patti Lateranensi nella Carta costituzionale.
In questo contesto, pur senza l’unanimità del consenso dei costituenti, si arrivò alla formulazione, da un lato, dell’articolo 7, con cui la nuova Costituzione accetta i Patti Lateranensi per la disciplina dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica; e, dall’altro, dell’articolo 8, con cui si istituisce uno specifico istituto giuridico, speculare al Concordato e denominato Intesa, atto a regolare le relazioni tra lo Stato e i culti diversi da quello cattolico.
Le confessioni protestanti inizialmente si mostrarono poco entusiaste rispetto alla soluzione individuata, che recepiva la proposta, avanzata dal comunista Umberto Terracini e dal democristiano Aldo Moro, tesa a bilanciare gli specifici accordi sottoscritti con la Chiesa cattolica con analoghi strumenti rivolti alle altre confessioni. A posteriori, comunque, nonostante il forte ritardo di attuazione, se ne è riconosciuta l’utilità e si è affermato un generale apprezzamento da parte delle diverse confessioni coinvolte.
L’impianto garantista della Costituzione
La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ha dunque introdotto previsioni di tenore altamente garantista in materia di libertà religiosa. Gli articoli 3, 7, 8, 19 e 20 (come pure gli articoli 17 e 18), derivati dall’articolo 2, danno conto del disegno in materia, che prevede, in sintesi:
- la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, singolarmente e in forme associata (art. 2);
- il principio di non discriminazione su base religiosa (art. 3);
- l’indipendenza e la sovranità, ciascuno nel proprio ordine, dello Stato e della Chiesa cattolica, con la regolamentazione dei reciproci rapporti tramite i Patti Lateranensi (art. 7);
- l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose di fronte alla legge e il loro diritto di organizzarsi secondo i propri statuti e di regolare i rapporti con lo Stato con apposite Intese (art. 8);
- la libertà di riunione (art.17);
- la libertà di associazione (art.18);
- la libertà di professare il proprio credo, sia individualmente che collettivamente, di promuoverne la diffusione e di celebrarne il culto in pubblico o in privato, a meno che i riti non siano contrari al buon costume (articolo 19);
- la proibizione di ogni forma di discriminazione o l’imposizione di speciali oneri fiscali nei confronti di associazioni o istituzioni ecclesiastiche e religiose (art. 20).
- il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo (art. 1).
Più nel dettaglio, secondo l’articolo 7 della Carta costituzionale: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale».
L’articolo 8, invece, stabilisce che «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze».
Inoltre, la Corte costituzionale ha confermato che l’uguaglianza di fronte alla legge, sancita dall’articolo 3, si applica anche ai non cittadini (inclusi gli immigrati irregolari). Nello specifico l’articolo 19, che insieme all’articolo 20 proclama la libertà di professione, di propaganda e di culto – con il limite del buon costume e del mantenimento dell’ordine pubblico – e impedisce che le associazioni religiose siano discriminate dalle associazioni comuni mediante speciali limitazioni legislative o particolari gravami fiscali, estende la sua tutela a chiunque si trovi sul territorio. La titolarità e l’esercizio di un tale diritto prescindono quindi dalla cittadinanza. Sono inoltre riconosciuti anche allo straniero senza il limite della condizione di reciprocità (1° co. art. 16 disp. prel. al Codice civile) e non possono essere limitati né da norme o accordi internazionali, né da accordi con le confessioni religiose.
Sempre la Corte costituzionale ha anche specificato come la libertà di coscienza costituisca il fondamento dei diritti dell’individuo. La libertà di religione e il sistema di relazioni con le confessioni religiose, definito dagli articoli 7 e 8 della Carta costituzionale, concorrono a strutturare il principio di laicità dello Stato (che non significa indifferenza dinanzi alla religione bensì imparzialità a salvaguardia del pluralismo confessionale).
L’inerzia politico-legislativa fino al Concilio Vaticano II
Nonostante le previsioni costituzionali, sono stati necessari decenni per arrivare alla concreta attuazione delle Intese Nell’immediato Dopoguerra, d’altra parte, in ambito cattolico non si riscontravano significative aperture ecumeniche ai protestanti, e anzi era diffusa la preoccupazione per il loro proselitismo (che contava appena 121 mila persone nel 1954, secondo fonti governative), e questa tendenza perdurò a lungo. Per circa un decennio l’attenzione per le proposte sul libero esercizio dei culti non cattolici rimase quindi latente e continuò a trovare applicazione il Testo Unico di pubblica sicurezza del 1930, con le sue limitazioni circa la propaganda religiosa, nonostante il contrasto con il dettato costituzionale.
La situazione iniziò a smuoversi solo dopo l’istituzione della Corte costituzionale che, a partire dal 1956 [3], impresse un rinnovato slancio alle aperture in materia di libertà religiosa. Una prima proposta di legge per l’attuazione delle Intese e la regolamentazione di altri aspetti, presentata nello stesso anno dal repubblicano Ugo La Malfa insieme ad alcuni parlamentari socialisti e in collaborazione con il Consiglio federale delle Chiese evangeliche, non ebbe però alcun seguito in Parlamento.
Quindi nel mondo cattolico prese il via una radicale evoluzione, che risultò fondamentale per superare una situazione ormai stagnante. Papa Giovanni XXIII, seppure con un breve pontificato, segnò un vero e proprio punto di svolta, poi sorretto nella fase applicativa da papa Paolo VI. La sua enciclica Pacem in terris (1963) sottolineò il diritto di ogni essere umano alla «libertà nella ricerca del vero (n. 7) e le posizioni espresse in seno alla Chiesa con il Concilio Vaticano II (1962-1965), sollecitando i fedeli a valutare sotto nuove prospettive la libertà di religione in un ordinamento democratico e pluralista, svolsero un ruolo cruciale. La dichiarazione Dignitatis Humanae (7 dicembre 1965) affermò solennemente la libertà religiosa come diritto naturale di ogni uomo, che si «fonda sulla stessa dignità della persona umana» e «deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società» (n. 2).
Gli anni ’80: la stipula del nuovo Concordato e delle prime Intese
Per effetto di questo magistero innovativo, in ambito cattolico si diffuse una sensibilità rinnovata e specifica verso la libertà di religione, che dischiuse nuovi orizzonti, permettendo di pervenire alla revisione del Concordato tra lo Stato italiano e la Santa sede e, in parallelo, alla stipula delle prime Intese con le altre confessioni religiose. Il 1984 fu l’anno cruciale per entrambi questi aspetti.
La revisione del Concordato, avviata in maniera travagliata verso la metà degli anni ’60, si concluse il 18 febbraio 1984 con la firma dell’Accordo detto “di Villa Madama” (dalla sede romana della sua stipula): un passaggio determinante, preparato dai nuovi orientamenti del Concilio Vaticano II, che richiese un arduo lavoro previo e avviò una nuova stagione nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
Lo spirito del nuovo testo, ben diverso da quello del 1929, pur riconoscendo nell’articolo 9 che «i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano», consentì di superare l’indicazione del cattolicesimo come sola religione dello Stato. Premessa l’indipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa cattolica, nei suoi 14 articoli l’accordo ripercorre le garanzie in ordine alla missione della Chiesa e alla libera organizzazione ecclesiale, rivedendo parte delle previsioni precedenti, che, lo ricordiamo, con l’art. 7, sono richiamate nella Costituzione repubblicana.
Nello stesso periodo si diede finalmente l’avvio alla cosiddetta “stagione delle Intese” con le altre confessioni religiose, superando le chiusure che nella fase precedente avevano lasciato inapplicata la previsione costituzionale. È del 1984, infatti, la firma del primo accordo: quello con la Tavola Valdese che, da tempo, premeva per l’attuazione del dettato costituzionale.
Una fase applicativa con diversi livelli di tutela
Prima di passare in rassegna il panorama definito dalla progressiva stipula delle Intese tra lo Stato e alcune realtà confessionali diverse dalla cattolica, resta da evidenziare come la scelta del costituente di accogliere il principio della disciplina pattizia abbia indotto, nella pratica, livelli di tutela diversificati. La concreta applicazione della Costituzione in tema di libertà religiosa, data la persistenza di talune disposizioni del periodo precedente, delinea infatti, tutt’oggi, l’esistenza di tre diversi livelli di tutela.
Il primo è quello della Chiesa cattolica, che, pur non essendo più religione di Stato, resta intestataria del nuovo Concordato del 1984 che, con una serie di modifiche, ha adattato l’ordinamento precedente ai princìpi della Costituzione Repubblicana. Il secondo livello è quello proprio delle confessioni religiose che hanno sottoscritto una Intesa con lo Sato italiano (un patto bilaterale, corrispettivo del concordato), in applicazione della previsione dell’art. 8, comma 3 della Carta costituzionale: un passaggio fondamentale che le sottrae dall’ambito di applicazione della legge n.1159 del 1929 e del relativo regolamento d’attuazione, il regio decreto n. 289 del 1930.
Al terzo livello, invece, si trovano le confessioni che hanno ottenuto il riconoscimento giuridico dello Stato, ma non sono firmatarie di un’Intesa (in qualche caso anche per una preferenza interna): una condizione che si traduce in un trattamento differenziato (e meno favorevole), essendo la loro operatività ricondotta alla soprarichiamata legislazione del periodo fascista. Anche di queste andremo a tratteggiare un veloce profilo. Vi è, inoltre, anche un associazionismo che persegue fini religiosi, ma non è interessato al (o non ha ottenuto il) riconoscimento giuridico da parte dello Stato.
Le intese stipulate a partire dal 1984
In parallelo alla ratifica del nuovo Concordato con la Chiesa cattolica, alla metà degli anni ’80, si iniziò a dare un’applicazione concreta a quanto disposto dall’articolo 8, 3° comma della Costituzione. Dopo la Tavola valdese (1984), nel corso del decennio furono soltanto altre tre le confessioni “storiche” del Paese che ottennero tale riconoscimento: le Assemblee di Dio in Italia e l’Unione delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno nel 1986 e l’Unione delle comunità ebraiche in Italia nel 1987. Negli anni ’90, si aggiunsero l’Unione delle comunità evangeliche battiste in Italia e l’Unione evangelica luterana in Italia (entrambe nel 1993). Un ulteriore momento di apertura e riconoscimento si ebbe nel 2007, quando furono ben cinque le Intese stipulate: con la Sacra diocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale, con la Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, con la Chiesa apostolica in Italia e con l’Unione buddhista italiana, cui si sono aggiunte, nel 2015, quella con l’Istituto buddhista italiano della Soga Gakkai, e nel 2019, l’ultima, quella con l’Associazione Chiesa d’Inghilterra.
Come già ricordato, le Intese – richiamando l’impianto pattizio del Concordato con la Chiesa cattolica – affrontano e regolano gli aspetti funzionali a disciplinare i rapporti tra la confessione intestataria e lo Stato italiano. Pur nella relativa (minima) varietà degli accordi fin qui siglati, le materie trattate sono analoghe e possono essere sintetizzate nei seguenti ambiti di intervento: nomina dei ministri di culto (che avviene autonomamente, con l’unico obbligo di registrazione presso appositi elenchi); riconoscimento degli effetti civili dei matrimoni celebrati dai ministri di culto; trattamento tributario; riconoscimento degli Enti di culto e delle festività; forme per l’esercizio dell’assistenza in istituzioni collettive (forze armate, luoghi di cura, istituti di pena, ospedali); previsioni in materia di istruzione (studio del fatto religioso, riconoscimento di diplomi rilasciati da istituti di studi teologici, diritto di istituire scuole di ogni ordine e grado); rapporti finanziari con lo Stato per quanto concerne la ripartizione dell’Otto per mille dell’Irpef; deducibilità fiscale delle offerte dei fedeli; tutela e valorizzazione dei beni afferenti al patrimonio storico e culturale della confessione; trattamento delle salme e la sepoltura rituale; alimentazione e macellazione rituale.
Le procedure per la richiesta e l’approvazione di un’Intesa prevedono, innanzitutto, il riconoscimento giuridico dell’Ente religioso promotore, previa verifica del suo statuto e constatazione della sua compatibilità con l’ordinamento giuridico italiano. Secondo la prassi consolidata, la confessione interessata, dopo aver ottenuto tale riconoscimento, deve presentare apposita istanza al Presidente del Consiglio dei ministri. Delegato a condurre le trattative è il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che si avvale della Commissione interministeriale per le Intese con le confessioni religiose, istituita nel 1985 presso la stessa Presidenza e composta da rappresentanti dei Ministeri interessati (Interno, Giustizia, Tesoro, Economia e Finanze, Difesa, Pubblica istruzione e ricerca scientifica, Beni e attività culturali, Salute). L’Istruttoria preliminare circa la compatibilità della richiesta viene curata sia dal Ministero dell’interno che dal Consiglio di Stato chiamato a esprimere un parere circa il carattere confessionale dell’organizzazione richiedente, mentre a predisporre la bozza dell’Intesa provvede l’apposita Commissione, seguendo le indicazioni concordate dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delegazione della confessione interessata. Seguono gli esami e i pareri della Commissione consultiva per la libertà religiosa, operante dal 1997 presso la Presidenza del Consiglio di ministri, e – quindi – del Consiglio dei ministri stesso, che autorizza (o meno) il suo Presidente alla firma dell’accordo. Segue – in caso di approvazione – quella della confessione religiosa interessata. Infine, il testo viene trasmesso al Parlamento per la sua approvazione tramite un’apposita legge, che non si traduce in un unico articolo di ricezione dell’intesa (come avviene per gli accordi internazionali), bensì si struttura in una serie di articoli che ne riproducono, con poche modifiche formali, il testo (allegato alla legge).
È pacifico, inoltre, che il Parlamento, chiamato a votare articolo per articolo il disegno di legge proposto dal Governo, abbia la facoltà di emendare il testo. Per prassi consolidata, però, l’emendabilità viene ristretta a modifiche di carattere non sostanziale, finalizzate cioè a integrare o chiarire il disegno di legge o a emendarne le parti che non rispecchiano fedelmente l’Intesa.
Enti di confessioni religiose titolari (o meno) di personalità giuridica
Come già sottolineato, nei confronti degli enti con finalità religiose, riconosciuti giuridicamente dallo Stato trovano applicazione la cd. legge sui culti ammessi (n. 1159 del 1929) e il relativo regolamento di attuazione (R.D. 289 del 1930).
Di riflesso, vengono loro riconosciute, secondo un’eleggibilità soggetta a prescrizioni – che andrebbero superate – le seguenti prerogative: nomina di ministri del culto senza che l’ente debba più chiedere l’approvazione del Ministro dell’interno (di cui alla legge 24 giugno 1929, n. 1159); libero esercizio del loro ministero di culto, che in determinati casi (come nella celebrazione dei matrimoni) può avere effetti civili; libero esercizio dell’assistenza spirituale prestata dai ministri di culto in luoghi collettivi pubblici (ospedali, carceri, forze armate e di polizia) senza bisogno della preventiva autorizzazione di cui il regio decreto n. 289 del 1930; equiparazione, ai fini tributari, degli enti aventi fini di religione o di culto, agli enti di istruzione e beneficenza, in analogia con quanto previsto per la Chiesa cattolica dalla legge n. 222 del 1985; tutela degli edifici di culto da requisizioni, occupazioni, espropriazioni o demolizioni e il divieto d’ingresso della forza pubblica salvo urgente necessità; insegnamento religioso nelle scuole pubbliche nell’ambito delle attività didattiche integrative (con oneri a carico delle confessioni interessate); rispetto delle tradizioni religiose relative al trattamento delle salme e alla sepoltura (compatibilmente con la normativa vigente) e diritto a disporre di aree cimiteriali.
Il riconoscimento giuridico dipende, innanzitutto, dalla volontà dell’ente interessato – che deve presentare apposita richiesta al prefetto territorialmente competente, allegando il proprio statuto [4] – , e quindi, dall’approvazione dell’istanza da parte delle istituzioni preposte. La procedura del caso, inizialmente regolata dalla normativa sui culti ammessi del periodo fascista, è stata semplificata nel 1997, con la legge n. 127, che ha abrogato la previsione dell’acquisizione del parere del Consiglio di Stato in via obbligatoria. Nella prassi, tuttavia, si continua a dar seguito a un tale passaggio in ragione dell’alta garanzia di imparzialità e di verifica della conformità degli statuti all’ordimento giuridico italiano che ne discende [5].
Attualmente sono diverse decine gli enti religiosi che hanno ottenuto tale riconoscimento e ancora più numerosi quelli che non lo hanno, o perché, pur operando per conseguire le finalità religiose previste nei loro statuti, sono in attesa di ottenerlo o perché non lo hanno richiesto, non ritenendolo fondamentale per il loro operato. Di conseguenza, operano nell’ambito del diritto comune, a seconda di casi, o come associazioni di fatto o con una personalità giuridica ma non di tipo religioso (ad esempio, come Organizzazioni senza scopo di lucro), restando escluse dalle prerogative sopraelencate.
In un Paese come l’Italia, profondamente segnato dalla tradizione cattolica, questa continua a rappresentare un importante punto di riferimento per gran parte della popolazione. In un contesto ormai strutturalmente caratterizzato da una profonda e crescente eterogeneità (anche) religiosa, da una parte la Chiesa maggioritaria è molto presente nel dibattito pubblico, in particolare sui temi afferenti alla morale, dall’altra, molti “fedeli”, pur considerandosi cattolici, tendono ad allontanarsi dall’osservanza dei precetti della tradizione. In nome di un approccio individualizzato al sentimento e alla pratica religiosa, ispirato a personali ed eterogenee forme di spiritualità, molti non tengono conto del magistero ecclesiale, che pure esorta con fermezza a vivere in profondità e con coerenza la fede cattolica nel pieno rispetto di chi professa altre fedi: un rispetto che, ad oggi, appare ancora carente, in particolare nei confronti delle religioni professate soprattutto, ma non esclusivamente, da cittadini di origine straniera, che hanno gradualmente allargato il raggio del pluralismo religioso italiano.
Senza soffermarci su questi aspetti, come pure sull’impatto della dimensione religiosa sulla sfera individuale e – ancora di più – su quella del vivere collettivo nel quadro dei processi di secolarizzazione e del post-modernismo prima e della cd. “rivincita del sacro” [6] poi, sulla scia del quadro ricostruito finora, resta da evidenziare come l’ampio sistema di tutele delineato dal dettato costituzionale, nella sua concreta attuazione, continui a mostrare delle “carenze”, in particolare nei confronti dei fedeli – sempre più numerosi – di alcune comunità religiose “immigrate”.
Se infatti è indubbio che dall’entrata in vigore della Costituzione sono stati fatti molti passi in avanti, lo scenario attuale – profondamente diverso da quello vissuto dai costituenti – evidenzia estese situazioni deficitarie, a discapito dei fedeli delle confessioni non firmatarie di un’Intesa, cui resta importante porre rimedio.
Già nel 1956, d’altra parte, l’on. Ugo La Malfa, nella sua proposta di una legge (prima ricordata) per una piena attuazione della libertà religiosa, aveva stigmatizzato l’insorgere di un conflitto con le norme costituzionali «ogni qualvolta le disposizioni del 1929 e del 1930 stabiliscono una restrizione, una forma di controllo preventivo o un impedimento all’esercizio di un qualsiasi diritto attinente alla libertà di religione che non trovino in quelle norme una esplicita conferma». Nonostante le molte proposte avanzate nel corso delle diverse legislature, anche da parte governativa (sia in coalizioni di centro-sinistra che di centro-destra), però, non si è ancora pervenuti all’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa che ponga termine a una tale situazione di discrepanza.
Entrando nel merito di una questione di attualità, per esempio, è evidente che il diritto delle comunità di fede di disporre di spazi adeguati alle pratiche di culto e per i momenti aggregativi costituisca una esigenza primaria al fine di garantire l’effettivo esercizio del diritto di libertà religiosa e di culto, che – ad oggi – non è ugualmente garantita. Le confessioni non firmatarie di Intesa, infatti, sono esposte a restrittive e farraginose disposizioni di controllo. In assenza di princìpi sanciti dal legislatore nazionale, inoltre, diverse leggi regionali sull’edilizia di culto hanno fortemente limitato le autorizzazioni al cambio di destinazione d’uso dei locali individuati dalle comunità di fedeli e alla costruzione di nuovi edifici dedicati [7]. Caso per caso, si riesce a superare questo ostacolo solo ricorrendo alla Corte costituzionale per una pronuncia di illegittimità. La soluzione generale non consiste, però, nel ricorrere alla Consulta per contestare i singoli casi di discriminazione, bensì nell’approvare una legge organica sulla libertà religiosa, che protegga adeguatamente tutte le confessioni, anche quelle non firmatarie di un’Intesa con lo Stato italiano.
La forza dei numeri: il pluralismo religioso tra i cittadini italiani
Pur in un contesto di forte protagonismo della fede cattolica, il pluralismo religioso italiano non va ascritto primariamente o, peggio, unicamente al progressivo insediamento di migranti di origine straniera. Certo, l’affermazione dell’Italia come grande Paese di immigrazione ha accentuato di molto la percezione e la presa di consapevolezza della diversa connotazione religiosa della popolazione, in quanto ha allargato il gruppo e il numero dei soggetti culturali e religiosi presenti (anche tra i cittadini nazionali). L’eterogeneità del profilo religioso del Paese, però, ha radici ben più antiche e si è progressivamente accentuata anche per l’aumento delle conversioni tra la popolazione autoctona, che – in misura impensabile rispetto al passato –, sceglie di passare ad altri sistemi di fede: realtà diverse e molteplici, con cui è più semplice entrare in contatto (e in relazione) nel quadro di un mondo globalizzato.
Già nel 1848, poco prima di firmare il celebre “Statuto”, Carlo Alberto aveva concesso delle “patenti di libertà” alle due minoranze storiche del Regno di Sardegna: i valdesi e gli ebrei. Presenze che, insieme ai fedeli delle diverse espressioni del molteplice universo protestante e, più in generale, delle confessioni cristiane diverse dalla cattolica, delineano lo scenario di quel “pluralismo storico” cui gli stessi costituenti fecero riferimento nel delineare l’assetto costituzionale in materia di libertà religiosa [8].
Oggi, in un contesto profondamente cambiato, secondo i dati al 2017 del Cesnur – Centro Studi sulle Nuove Religioni, sono 866 le minoranze religiose diverse dalla cattolica rappresentate (209 in più rispetto a quelle censite nel 2001). Secondo la stessa fonte, nel 2022 sono complessivamente 2 milioni e 246mila gli italiani che appartengono a una minoranza religiosa, il 4,2% del totale. Come rappresentato nel dettaglio dalla tavola che segue, si tratta di un universo composito ed estremamente variegato, per una più corretta valutazione del quale, in particolare rispetto alla definizione dei singoli gruppi, rinviamo all’accurata nota metodologica redatta dagli autori [9].
ITALIA. Minoranze religiose fra i cittadini italiani (stima, 2022)
v.a. | % | |
Ebrei | 36.400 | 1,6 |
Cattolici “di frangia” e dissidenti | 24.500 | 1,1 |
Ortodossi | 415.000 | 18,5 |
Protestanti | 385.000 | 17,1 |
Testimoni di Geova (e assimilati) | 420.000 | 18,7 |
Mormoni (e assimilati) | 28.000 | 1,2 |
Altri gruppi di origine cristiana | 10.000 | 0,4 |
Musulmani | 528.000 | 23, |
Bahá’í e altri gruppi di matrice islamica | 4.500 | 0,2 |
Induisti e neo-induisti | 55.000 | 2,4 |
Buddhisti | 217.000 | 9,7 |
Gruppi di Osho e derivati | 4.000 | 0,2 |
Sikh, radhasoami e derivazioni | 24.000 | 1,1 |
Altri gruppi di origine orientale | 8.000 | 0,3 |
Nuove religioni giapponesi | 3.800 | 0,2 |
Area esoterica e della “antica sapienza” | 16.800 | 0,8 |
Movimenti del potenziale umano | 30.000 | 1,3 |
Movimenti organizzati New Age e Next Age | 20.000 | 0,9 |
Altri | 18.000 | 0,8 |
Totale | 2.248.000 | 100,0 |
FONTE: Centro Studi Nuove Religioni (CESNUR)
La forza dei numeri: il pluralismo religioso tra gli immigrati stranieri
L’immigrazione dall’estero coinvolge in modo significativo il nostro Paese almeno dalla fine degli anni ’60. Ha poi conosciuto un progressivo e intenso sviluppo fino ad affermarsi, negli anni ’90, come uno dei tratti più caratterizzante gli scenari nazionali: caratteristica che, pur nel mutare degli andamenti contingenti, permane tutt’oggi.
La presenza di residenti stranieri, inferiore a 150 mila unità nel 1970 e sotto la soglia di 1,5 milioni nel 2000, ha stabilmente superato i 5 milioni a partire dal 2014. La forte varietà delle origini nazionali delle persone coinvolte, nonostante il crescente protagonismo delle collettività dell’Europa orientale, si rispecchia in un profilo culturale e religioso altrettanto vario e in continua evoluzione, che influisce anche sul quadro della popolazione di cittadinanza italiana, sia per l’impulso che dà alle conversioni degli autoctoni, sia – soprattutto – per il numero, sempre crescente, delle acquisizioni di cittadinanza: già all’inizio del 2020 erano nell’ordine di 1,5 milioni gli stranieri divenuti cittadini italiani [10].
La crescente popolazione di origine straniera, in altri termini, ha ulteriormente (e fortemente) arricchito il panorama religioso nazionale, contribuendo in modo determinante alla configurazione di un “nuovo pluralismo”, più ampio e composito di quello che l’attuale impianto socio-legislativo riconosce e tutela. Da un lato, infatti, ha ampliato e frastagliato la presenza di gruppi confessionali già radicati (come nel caso dei cattolici, degli ebrei, della variegata presenza evangelica, degli ortodossi o dei Testimoni di Geova…), dall’altro ha portato all’affermazione, numericamente sempre più rilevante, di confessioni prima residuali (come nel caso delle comunità islamiche, di quelle buddhiste, induiste o sikh…).
Per meglio inquadrare la distribuzione degli stranieri residenti nel Paese in base alla tradizione religiosa di riferimento, si riportano di seguito i risultati della stima del Centro Studi e Ricerche IDOS, che trova un annuale aggiornamento nella pubblicazione del Dossier Statistico Immigrazione [11]. Il criterio di fondo consiste nel proiettare su ciascun gruppo nazionale le affiliazioni religiose riscontrate nella popolazione complessiva del Paese di origine (applicando, dove necessario, dei correttivi utili a dar conto di catene migratorie concentrate in specifiche regioni, in cui la composizione delle affiliazioni religiose si discosta sensibilmente dalla media nazionale).
Si evidenzia, così, da un lato la prevalenza della composita componente cristiana, che nel 2020 raccoglie la metà degli oltre 5 milioni di stranieri residenti e, dall’altro, l’impatto più contenuto, per quanto a sua volta rilevante, della presenza musulmana, pari nell’insieme a circa un terzo del totale: un dato distante dalla percezione comune e da alcune delle narrazioni più diffuse che, in chiave allarmistica e difensiva, tendono a farne la principale protagonista del quadro di riferimento. Di rilievo è anche la presenza di induisti, buddhisti e afferenti ad altre tradizioni religiose “orientali”, come pure degli atei/agnostici e, in misura minore, dei seguaci delle cosiddette religioni tradizionali (1,4%) e di altri gruppi (1,7%), quantificabili in meno di 100mila presenza ciascuno.
Più in particolare, quindi, l’immigrazione dall’estero ha innanzitutto indotto significativi cambiamenti all’interno della presenza cristiana, portando a un rilevante aumento degli ortodossi, di origine prevalentemente (ma non esclusivamente) est-europea, e – in seconda battuta – dei cattolici (in prevalenza filippini, polacchi e romeni) e degli evangelici (tra cui prevalgono i romeni, insieme ai nigeriani e ai ghanesi). Allo stesso tempo, ha portato al progressivo radicamento di sempre più ampie comunità islamiche, di origine prevalentemente africana (e nordafricana in primo luogo: marocchina, tunisina, egiziana…), europea (in prevalenza balcanica) e, in seconda battuta, asiatica (in particolare dall’area centro-meridionale del continente: Bangladesh, Pakistan…) [12].
ITALIA. Le religioni dei residenti stranieri (Stima, 2020*)
|
Cristiani |
Ortodossi |
Cattolici |
Protestanti |
Altri cristiani |
Musulmani |
Ebrei |
v.a. |
2.583.000 |
1.403.000 |
913.000 |
225.000 |
42.000 |
1.769.000 |
5.000 |
% su totale |
50,0 |
27,1 |
17,7 |
4,4 |
0,8 |
34,2 |
0,1 |
% su tot. cristiani |
100,0 |
54,3 |
35,3 |
8,7 |
1,6 |
- |
- |
|
Induisti |
Buddhisti |
Altre religioni orientali |
Atei/agnostici |
Religioni tradizionali |
Altri |
Totale |
v.a. |
167.000 |
125.000 |
95.000 |
267.000 |
70.000 |
90.000 |
5.171.000 |
% su totale |
3,2 |
2,4 |
1,8 |
5,2 |
1,4 |
1,7 |
100,0 |
* Stima elaborata a partire dai dati Istat sui residenti stranieri consolidati a seguito del Censimento permanente
FONTE: Centro Studi e Ricerche IDOS. Elaborazioni su dati Istat
In conclusione, l’auspicio di una società più aperta
Nonostante le positive evoluzioni normative avviate dalla Costituzione e progressivamente attuate a partire dagli anni ’80, quella attuale si configura come una situazione di tutela parcellizzata e incompleta della libertà di religione e di culto, sia nei confronti degli immigrati stranieri che dei cittadini italiani. E il quadro risulterebbe ancor più problematico, se non fosse intervenuta, a più riprese, anche per cassare disposizioni restrittive introdotte di recente, la Corte costituzionale.
Tale andamento contrasta con l’accentuato pluralismo dell’attuale panorama religioso italiano, soprattutto in considerazione del rilevante (e crescente) peso numerico delle persone che si rifanno a confessioni diverse dalla cattolica o da quelle intestatarie di un’Intesa con lo Stato italiano. Tanto più che la sottoscrizione di nuove Intese non solo è lenta, ma in diversi casi, come ad esempio in quello dell’Islam, è ostacolata da questioni complesse e, nel quadro attuale, di difficile superamento, nonostante coinvolga comunità religiose molto consistenti.
Ne discende il rischio – neanche troppo latente – di indurre nei fedeli delle confessioni prive di Intesa la percezione, se non la convinzione, di essere oggetto di un trattamento discriminatorio. Una condizione diffusa, che oggi riguarda milioni di persone e che non solo può frenare il senso di riconoscimento, di identificazione e di inclusione nella comunità nazionale, ma può tradursi in un sentimento di marginalizzazione potenzialmente foriero di una rivalsa in termini oppositivi [13].
Il quadro normativo vigente, d’altra parte, è stato pensato come uno strumento idoneo alla protezione dei diritti delle minoranze cristiane o di scettici e liberi pensatori, secondo quelle che erano le esigenze poste dai tempi. Oggi l’avvento di una società globalizzata, multiculturale e multireligiosa pone questioni profondamente diverse, che richiedono risposte rinnovate, a partire da una legge sulla libertà di religione e di culto che superi le attuali restrizioni e realizzi pienamente la previsione costituzionale a beneficio di tutte le confessioni (dando eventualmente alle Intese solo il compito di regolamentare particolari aspetti organizzativi e fatta salva la validità di quelle già stipulate).
L’opportunità di una legge generale sulla libertà religiosa, d’altro canto, era stata evidenziata già all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, tanto che una prima proposta – come ricordato – fu presentata in Parlamento già nel 1956. Tuttavia, a quasi 60 anni di distanza ancora non si è pervenuti al conseguimento di questo importante obiettivo, nonostante le aperture delle autorità cattoliche e delle altre confessioni cristiane. E anzi, nel corso degli anni Duemila l’analisi dei lavori parlamentari evidenzia un crescente atteggiamento di chiusura verso uno strumento teso a garantire il trattamento ugualitario dei fedeli di confessioni diverse, ovvero il pieno rispetto e la piena tutela della libertà di religione e di culto di ciascuno.
L’Italia è un Paese alle prese con gravi problemi socioeconomici. Appare, però, improprio e controproducente ritenere che il fatto di trascurare la tutela dei diritti umani fondamentali (nello specifico, di quelli religiosi), dando piena attuazione agli orientamenti costituzionali, non sia d’impedimento al benessere del Paese e non contribuisca ad accrescerne le fragilità.
Una riflessione attenta, approfondita e sganciata da prese di posizione di stampo ideologico sulle implicazioni in gioco porta, al contrario, ad auspicare un ripensamento e a operare affinché esso avvenga.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] La bibliografia in materia è particolarmente ampia. Ci limitiamo a citare alcune opere, pubblicate in momenti storici diversi, utili per circostanziare la presente ricostruzione: O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi, Soc. Editrice Vita e Pensiero, Milano, 1934; G. Peyrot, La legislazione sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, in La legislazione ecclesiastica – Atti del convegno celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, a cura di P. A. D’Avack, Neri Pozza, Vicenza, 1967: 519 ss; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino, 1975; G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’età della Costituente, Il Mulino, Bologna, 1990.
[2] Nell’Enciclopedia Treccani si trova sostanziosa sintesi dedicata all’evoluzione della libertà religiosa in Italia, che pone in risalto le aperture fatte nel periodo liberale: M. Madonna, “Breve storia della libertà religiosa in Italia. Aspetti giuridici e problemi pratici”, http://www.treccani.it/enciclopedia/breve-storia-della-liberta-religiosa-in-italia-aspetti-giuridici-e-problemi-pratici_%28Cristiani-d%27Italia%29/
[3] Iafrate. P., “La giurisprudenza italiana in materia di libertà religiosa”, in Dialoghi Mediterranei, n. 33, settembre 2018: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-giurisprudenza-costituzionale-in-materia-di-liberta-religiosa/
[4] La Corte costituzionale, con la sentenza n. 43/1988, ha precisato che la capacità delle confessioni religiose di dotarsi di propri statuti comporta che lo Stato rispetti la loro autonomia istituzionale, evitando ogni ingerenza e astenendosi dal fissarne direttamente per legge i contenuti.
[5] Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ufficio Studi e Rapporti Istituzionali, L’esercizio della libertà religiosa in Italia, luglio 2013.
[6] Cfr. G. Kepel, La rivincita di Dio. Cristiani, ebrei, musulmani alla conquista del mondo, Rizzoli Milano, 1991.
[7] È stato inoltre opportunamente evidenziato come il fatto di aver assegnato ai Comuni la facoltà di indire referendum, assoggetti di fatto il diritto di libertà religiosa al gradimento dell’opinione pubblica e al livello di tolleranza sociale dei territori. Cfr. I. Valenzi, Leggi regionali e libertà religiosa. Il caso degli edifici di culto, in Centro Studi e Ricerche Idos, in collaborazione con Confronti, Dossier Statistico Immigrazione 2015, Edizioni Idos, Roma, 2016: 197-198.
[8] Cfr. P. Naso, Vecchio e nuovo pluralismo religioso, in Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione – Direzione Centrale per gli Affari dei Culti – Ministero dell’Interno, Religioni, dialogo, integrazione. Vademecum:https://www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/vademecum_religioni_dialogo_integrazione.pdf 37-46.
[9] https://cesnur.com/dimensioni-del-pluralismo-religioso-in-italia/.Cesnur (Centro Studi Nuove Religioni), Introvigne M,, Zoccatelli P. (sotto la direzione di), Le religioni in Italia, Cesnur, Torino. Il testo viene periodicamente aggiornato: dell’ultima revisione, disponibile su richiesta, è stato pubblicato sul sito del Centro solo l’indice. Alla redazione dei testi hanno partecipato anche Raffaella di Marzio, Andrea Menegotto, Nelly Ippolito Macrina Roldan.
[10] Per un quadro completo e aggiornato della presenza di origine immigrata in Italia, cfr. Centro Studi e Ricerche IDOS, in collaborazione con Confronti e Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Dossier Statistico Immigrazione 2022, Ed. Idos, Roma, 2022.
[11] Cfr. Centro Studi e Ricerche IDOS, Migranti e multireligiosità. La responsabilità condivisa di un pluralismo in dialogo, in Centro Studi e Ricerche IDOS, in collaborazione con Confronti e Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Dossier Statistico Immigrazione 2022, Ed. Idos, Roma, 2023: 238-241.
[12] G. Demaio, L. Di Sciullo, M.P. Nanni, F. Pittau, Il panorama multireligioso italiano. Il contributo dell’immigrazione, in Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione – Direzione Centrale per gli Affari dei Culti – Ministero dell’Interno, op. cit.: 47-56.
[13] Cfr. M. P. Nanni, Immigrazione e pluralismo religioso. Piste di confronto con le comunità musulmane in Italia, in Centro Studi e Ricerche IDOS e Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, L’integrazione dimenticata, Idos, Roma, 2020: 47-55.
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Maria Paola Nanni, Ricercatrice sociale e redattrice, lavora stabilmente presso la redazione del Dossier Statistico Immigrazione, di cui cura la sezione “Flussi e presenze”. Ha approfondito i temi dell’Islam in Italia, con specifica attenzione alla tutela dei diritti di religione e di culto. Tra gli impegni più recenti, la curatela, con G. Demaio e B. Coccia, del volume Le Migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità (Edizioni Idos, 2023). Collabora con periodici e riviste di stampo scientifico e divulgativo trattando i temi dell’immigrazione e dell’integrazione in Italia e in Europa.
Franco Pittau, dottorato in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ‘70, quando condusse un’esperienza sul campo, in Belgio e in Germania, impegnandosi nella tutela giuridica degli emigrati italiani. È stato l’ideatore del Dossier Statistico Immigrazione, il primo annuario del genere realizzato in Italia. Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come Presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Interculture Migrazioni (MEDIM) presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specialistiche sui temi dell’emigrazione e dell’immigrazione.
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