di Sergio Todesco
Sfoglio vecchi album fotografici. Compulso nutriti corpora di ottanta, cento anni fa provenienti da paesi della mia provincia (Tusa, Tortorici, Militello Rosmarino, Mistretta), e ciò che mi colpisce è che in tutte le immagini, ritratti di singoli individui o foto di gruppi familiari, non è dato mai trovare una persona sorridente. Sono tutti seri gli attori di quelle rappresentazioni, intenti a esporsi all’azione misteriosa e alchemica della scatola che trasformerà i loro corpi in una scala di grigi in grado di ricreare i loro sembianti. E mi chiedo: perché un tempo chi veniva ritratto non rideva, non sorrideva, non accennava minimamente a far cadere seppur per un attimo il cipiglio serio che ci è poi pervenuto?
Mi pare di dover provvisoriamente ipotizzare che il rito della fotografia abbia costituito per i ceti subalterni una tipologia rituale strutturalmente opposta al rito festivo.
La festa, l’universo festivo che dispiega nel corso del suo svolgersi un articolato fascio di segni comunicativi, mobilitanti modalità di gestione di intere famiglie di linguaggi e forme plurime di codici tra i più disparati, dal verbale al sonoro all’olfattivo al gestuale, predilige tra essi, come maggiormente rappresentativo della propria essenza, quello corporeo; le feste sono infatti grandiose manifestazioni somatiche che consentono agli esseri umani che le vivono di rapportarsi reciprocamente, nella propria fisicità, in modo affatto differente da quanto avviene nella realtà quotidiana, sperimentando forme nuove di comunicazione che investono la sfera emotiva, affettiva, sessuale. In molte feste, anche di tipologia non carnevalesca, il riso, espressione di un benessere reale o simulato, continua dunque a rivestire un’importanza non secondaria.
Utilizzando una terminologia bachtiniana, si potrebbe affermare che i corpi della festa (di gran parte delle feste) sono corpi carnevaleschi, mentre quelli della fotografia (parlo naturalmente delle foto di una volta) sono corpi quaresimali. Come ci hanno insegnato Bachtin (L’opera di Rabelais e la cultura popolare), Propp (“Il riso rituale nel folklore”, in Edipo alla luce del folclore; “Morte e risa”, in Feste agrarie russe), Di Nola (“Riso e oscenità”, in Antropologia religiosa), De Martino (Morte e pianto rituale nel mondo antico), e anche Bettini, Raveri e Remotti nel loro recente Ridere degli dèi, ridere con gli dèi, il riso nel folklore, ma ancor prima già dall’antichità classica, ha la funzione di riaffermare i valori della vita contro quelli della morte. Ridere, anche in circostanza tristi o drammatiche, equivaleva a praticare un esorcismo esemplare contro il rischio – sempre latente nell’uomo – di “passare con quello che passa”, di non riuscire a fronteggiare l’ebetudine stuporosa originata dal lutto, dalla disgrazia, da una condizione di allontanamento, privazione o assenza rispetto a una realtà prima presente e rassicurante nella sua domesticità.
Il riso nella festa è pertanto consustanziale all’esibizione di una vitalità che nell’iterazione rituale intende riaffermare le proprie ragioni, le ragioni di una presenza che attraverso strategie comunitarie certifica a se stessa la congruità dei propri orizzonti esistenziali.
La fotografia sta nel segno opposto. Roland Barthes ci ricorda che la foto è ‹‹la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti››(1979:33). Nel particolare lessico da lui consegnatoci ‹‹colui o ciò che è fotografato, è il bersaglio, il referente, sorta di piccolo simulacro, di eidòlon emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo “spettacolo” aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto›› (ivi:11).
L’icona fotografica si costituisce dunque quale dispositivo cui è demandato il compito di fissare più o meno indelebilmente sulla carta pezzi di divenire, lacerti temporali che si strutturano in contenitori di memorie, in storia compressa e presentificata, in arresto del tempo e presenza che resiste alla morte, consentendo che i morti stessi possano tornare in vita in effigie. In più, va registrata la percezione che della fotografia si ebbe nei primi anni del suo apparire, percezione a lungo mantenutasi presso i ceti subalterni, quella di veicolare perils of the soul, rischio che attraverso la creazione dell’immagine si potesse perpetrare un furto dell’anima, della parte sottile e sostanziale a quell’immagine sottesa.
Come dunque sarebbe stato possibile ridere durante l’esposizione a questo mirabile processo nel corso del quale era richiesto all’io di mantenere intatta la propria integrità, senza cedimenti né sbavature emozionali? La serietà si affermava come prassi obbligatoria, al pari della compostezza vestiaria e del rispetto della prossemica nella composizione e disposizione del gruppo familiare.
Diverse le strategie del riso, delle tecniche volte a spezzare una tensione, delle modalità che i ceti subalterni hanno utilizzato per ricomporre le fratture che forze avverse, naturali o umane, causavano al proprio “mondo”, al proprio quadro concettuale, ai propri orizzonti simbolici.
Tecniche e strategie del “ridere secondo cultura” le ritroviamo già nei miti dell’antichità classica. L’episodio più noto è quello di Demetra, che vagando disperata in cerca di Kore rapita da Ade giunge ad Eleusi. La Dea è affranta, e la sua angoscia ha già prodotto l’inaridimento dei raccolti, quand’ecco che, avendo ella rifiutato una bevanda offertale per uscire in qualche modo dallo stato luttuoso, Baubo, una contadina del luogo, solleva le proprie vesti ed esibisce alla Dea la propria vulva, suscitando il riso di Demetra che accetta di bere la pozione prima rifiutata. Il gesto osceno scioglie in tal modo l’ebetudine stuporosa della Dea e consente che tale gesto liberatorio ripristini l’ordine naturale e restituisca agli uomini la fertilità dei campi e l’abbondanza dei raccolti. Si tratta, come è agevole intuire, del riso e dell’esibizione oscena che assumono le valenze proprie di tutte le società che si sono misurate col compito di dare risposte culturali al fenomeno in sé angosciante della morte dei prodotti della terra e della loro incerta rinascita.
In tale particolare ambito agrario acquista uno speciale rilievo il motivo del riso e in generale di un clima orgiastico come pratiche vitali che ridischiudono la fruizione delle forze fecondanti della natura. Come ricorda Vladimir Jakovlevič Propp, mentre la permanenza nello stato di morte (in ambito agrario assimilabile al vuoto vegetale) era accompagnata dal divieto di ridere, il ritorno alla vita, cioè il momento della rinascita, al contrario, era accompagnato dal riso, il quale forse era persino obbligatorio.
«Il riso – ci dice Aron Ja. Gurevič a proposito del Carnevale (ma l’osservazione pare estensibile all’ambito festivo e rituale in genere) – sembra qui la manifestazione di un particolare meccanismo psichico solo mediante il quale l’uomo era appunto capace di guardare in faccia la morte e i suoi portatori, le forze del male, i rappresentanti dell’inferno. Senza annullare la paura, senza vincerla e senza liberare da essa, il riso allentava l’insopportabile tensione generata dalla coscienza della morte e del castigo ultraterreno che inevitabilmente la segue» (1986: 288).
Ernesto de Martino ci ha insegnato che da una crisi della presenza si viene fuori soltanto ove si abbia la capacità comunitaria di «far passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte». In una delle sue opere più pregnanti, Morte e pianto rituale, egli descrive minuziosamente i funerali di Lazzaro Boia, pastore rumeno, avendo avuto l’opportunità di consultare le schede prodotte dall’etnografo Ovidio Birlea che vi aveva assistito. Da tali documenti risulta come durante la lunga veglia funebre ai momenti destinati alla lamentazione rituale si susseguissero momenti dedicati alle fabulazioni, ai giochi, ai lazzi e alle pantomime licenziose, tutti comportamenti indirizzati a creare un clima aperto al riso che poneva gli astanti in netta, consapevole contraddizione con la realtà luttuosa alla quale essi stavano prendendo parte. Tutto ciò costituiva per de Martino una strategia differente, ma non irrelata, rispetto al “farsi procuratori di morte” – attraverso una variegata gamma di plasmazioni – della stessa morte la cui passiva accettazione avrebbe rischiato di precipitare individui e comunità intere nello smantellamento sistematico di qualunque risorsa progettuale.
Il grottesco medievale è forse, come sostiene Gurevič, «una delle forme di accostamento al sacro. Lo profana e lo sanziona al tempo stesso» (ivi: 323). Tra “alto” e “basso” dunque, per usare le espressioni di Bachtin, esiste una correlazione, uno stretto legame dialettico in quanto entrambi, ciascuno per la propria parte, sono chiamati ad eseguire rituali diversi e forse opposti in quanto alla loro natura, ma tutti in qualche misura volti a comporsi in un equilibrio atto a conferire senso.
Naturalmente, come l’etologia ci ha ormai dimostrato, esiste un ampio ventaglio di manifestazioni del ridere di cui non riesce sempre agevole valutare la collocazione sul versante naturale o su quello culturale. È inoltre indubbio che la funzione sociale del riso abbia soddisfatto nel corso dei secoli esigenze diverse e non tutte riconducibili alla prospettiva che qui si cerca di avanzare. Gurevič ha fatto notare che «la natura del riso e del grottesco è radicalmente cambiata nel corso dei secoli che separano il Medioevo dalla nostra epoca e oggi è ormai difficile comprendere, senza travisarle, forme comiche da tempo scomparse, e in particolare il posto che occupavano nella coscienza degli uomini di un’età tanto lontana da noi» (ivi: 279).
È però altrettanto indubbio che la cultura popolare abbia costituito nel tempo una sorta di palinsesto nel quale sono venute stratificandosi le diverse “scritture” impresse dagli uomini in società nelle proprie rispettive pergamene simboliche. Non deve pertanto destare sorpresa il registrare come comportamenti più o meno formalizzati relativi al riso, al comico, all’osceno possano essere presenti, benché ormai in forme residuali, all’interno di eventi festivi nei quali le comunità, con livelli più o meno significativi di consapevolezza, avvertono l’esigenza di praticare esorcismi contro le varie “potenze del negativo” che impattano sull’esistenza quotidiana.
In Sicilia e nell’intero bacino mediterraneo esiste una tipologia esemplare di contaminazione della sfera sacra (o della serietà, del rito, del potere) con quella burlesca (o del riso, del gioco, della trasgressione), ed è quella costituita dallo ἱερὸς λόγος popolare di Giufà. La figura dello sciocco è sempre stata, presso le culture che l’hanno elaborata, un dispositivo volto a esorcizzare la negatività che a vario titolo e sotto diverse forme minacciava la comunità rischiando di comprometterne l’assetto. Attraverso tale transfert esorcistico il negativo veniva a scaricarsi sullo stolto, vero e proprio capro espiatorio chiamato in tal modo a divenire strumento e veicolo di riscatto e di assicurazione per tutti.
Se adottiamo tale chiave di lettura, le “storie di Giufà”, la cui produzione e circolazione comprendono gran parte del bacino mediterraneo, possono essere valutate alla stregua di historiolae paradigmatiche attraverso le quali vengono offerti alla fruizione dei loro destinatari alcuni scandagli sull’uomo, sui rapporti dell’individuo con il potere e con la comunità, sulla verità e la menzogna, sull’autorità e la famiglia.
La figura di Giufà, personaggio della tradizione orale le cui storie delineano un trickster privo di senno ma pieno di furbizia, al contempo folle, irrazionale, carente di logica immerso come egli si trova a essere nel labirinto della letteralità, e tuttavia in grado di dipanare a ventaglio un ordine del mondo alla rovescia, di instaurare una grammatica e una sintassi del reale capace di tirarlo fuori dalle complicazioni in cui egli sistematicamente va a cacciarsi.
Nella cultura popolare siciliana le surreali storie di Giufà costituiscono nel loro complesso una sorta di ironico contraltare alla drammatica tragicità dell’esistenza, proprio come le farse di Nofriu e di Peppinninu, spezzando la tensione delle serie vicende paladinesche, riescono ad allentare, suscitando il riso da parte degli spettatori, il groviglio di passioni che l’opra dei pupi rappresenta sulla scena. Il carattere liberatorio e addirittura terapeutico del riso è strettamente connesso all’originario significato sacro di questa fondamentale espressione umana. Giufà possiede tutte le caratteristiche del trickster, dell’essere mitico che è al contempo creativo e buffone, sacro e misterioso, come tale oggetto di tabu, che con i propri fraintendimenti scàrdina e mette in crisi le ordinate corrispondenze tra parole e cose, e così facendo in qualche modo rifonda sempre di nuovo il mondo.
Così, Giufà appare eroe levantino, arabo, siciliano: a fronte della inattaccabile serietà degli eroi nordici, dei modelli culturali importati dai Normanni, Giufà testimonia che nella sfera culturale nord-africana e islamica, della quale anche la Sicilia partecipa, l’assoluto si lascia scoprire solo a condizione di essere disposti a sperimentarne le molteplici aporie. Come un maestro Zen, Giufà impartisce i propri insegnamenti compiendo atti ed elaborando stratagemmi linguistici che sono fonti di illuminazione per chiunque a essi assista, squarciando alla stregua di un fulmine la caligine che avvolge il nocciolo dell’esistenza. Mentre Artù, eroe solare, è l’esponente di un universo serio, per nulla rabelaisiano, in cui la preminenza rimane per sempre accordata alla conoscenza, sia pur sapienziale, dell’unica grammatica possibile attraverso la quale conoscere e decrittare il reale, ossia quella del rito, dell’ordine e del potere, Giufà è il detentore di un sapere tutto lunare, basato sulla scaltrezza, sulla follia, sulla scomposizione del reale, sulla capacità di riscrivere la sintassi del mondo attingendo al potere rivoluzionario della letteralità.
In tema di stretta embricazione della sfera del sacro con quella del riso, della comicità e finanche dell’osceno mi sia concesso riportare un ricordo personale. Circa trent’anni fa mi sono accompagnato a una comitiva di pellegrini messinesi a Polsi, rimanendo con loro nei due giorni principali della grande festa dedicata alla Madonna della Montagna che si svolge l’1 e il 2 settembre nel santuario in Aspromonte. Ho trascorso parte della notte all’interno della chiesa, nella quale ho avuto modo di verificare la persistenza dei rituali di incubatio sui quali ho scritto in un precedente contributo. Ritiratomi poi nel casotto riservato ai messinesi, sono rimasto sveglio, disteso sulla spartana branda disponibile nel camerone, ad ascoltare (in rigoroso silenzio) i commenti dei pellegrini, che avevano fino a qualche ora prima compiuto gesti di devozione ed eseguito canti religiosi in onore della Madonna della Montagna, gli stessi comportamenti che avevano segnato fin dall’inizio la partenza in barca da Messina e poi il doppio tragitto in pullman e su un camion fino al luogo da dove iniziava l’ultimo ripido tratto da percorrere a piedi per scendere nella conca che ospita il santuario. Ebbene, una volta ritiratisi nel camerone comune essi, anziché dormire riposandosi dalle fatiche della lunga giornata, si sono abbandonati a una serie – durata almeno un’ora – di motteggi, battute, intercalari tutti a sfondo erotico-scherzoso, con frequenti riferimenti anche alla sfera scatologica. Ho avuto la netta impressione che tale comportamento non fosse casuale né riconducibile alla particolare verve dei componenti il gruppo, ma facesse viceversa parte integrante dell’esperienza del pellegrinaggio e fosse, per così dire, in esso strutturalmente inserito.
Mi è sovvenuto alla memoria un brano di Bachtin dedicato all’abbassamento, alle contaminazioni chela sfera del sacro intrattiene con la corporeità, la sessualità, il riso e l’osceno:
«Il tratto caratteristico del realismo grottesco è l’abbassamento (snizenie) cioè il trasferimento di tutto ciò che è alto, spirituale, ideale ed astratto, sul piano materiale e corporeo, sul piano della terra e del corpo nella loro indissolubile unità [....]. Nel realismo grottesco l’abbassamento di ciò che è alto non ha affatto un carattere formale o relativo. L’“alto” (verch) e il “basso” hanno qui un significato rigorosamente e unicamente topografico. L’alto è il cielo; il basso è la terra; la terra è il principio dell’assorbimento (la tomba, il ventre) ed è nello stesso tempo quello della nascita e della resurrezione (il seno materno). È questo il valore topografico dell’alto e del basso nel loro aspetto cosmico. Sotto l’aspetto propriamente corporeo, che non è mai del tutto separato con precisione dall’aspetto cosmico, l’alto è il volto (la testa), il basso gli organi genitali, il ventre e il deretano. È con questi significati assolutamente topografici che ha a che fare il realismo grottesco, ivi compresa la parodia medievale. L’abbassamento consiste, in questo caso, nell’avvicinamento alla terra, come principio che assorbe e nello stesso tempo dà la vita; abbassando si seppellisce e nello stesso tempo si semina, si muore per nascere in seguito meglio e di più. L’abbassamento significa anche iniziazione alla vita della parte inferiore del corpo, quella del ventre e degli organi genitali e, di conseguenza, iniziazione ad atti come l’accoppiamento, il concepimento, la gravidanza, il parto, il mangiare voracemente e il soddisfare le necessità corporali. L’abbassamento scava una tomba corporea per una nuova nascita. È questo il motivo per cui esso non ha soltanto un valore distruttivo, negativo, ma anche positivo, di rigenerazione: è ambivalente, nega e afferma nello stesso tempo. Fa precipitare non soltanto verso il basso, nel nulla, nella distruzione assoluta, ma fa precipitare verso il “basso” produttivo, in cui avvengono il concepimento e la nuova nascita, e da cui tutto cresce a profusione; il realismo grottesco non conosce altro “basso”; il “basso” è la terra che dà la vita e il grembo materno; il “basso” è sempre inizio» (Bachtin, 1979: 25, 26-27)
Sono, questi, pochi accenni a una serie di riflessioni che da tempo mi tengono impegnato. Riflessioni forse stimolate dall’esigenza di sottrarmi alla volgarità dei paesaggi iconografici contemporanei, la cui sguaiataggine – ben lontana dal riso rituale e liberatorio di cui ho cercato di offrire alcune esemplari tipologie – appare un ben misero dispositivo nella costruzione di senso che l’umanità oggi stenta a perseguire. La serietà dei nostri antenati ritratti in foto mi pare dunque, in un tempo come il nostro abitato da fatui e ilari capipopolo, una possibile sobria risposta alternativa ai gravi problemi che ci attendono alla fine del tunnel che in questo tempo ci ospita.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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