Non se ne può più di sentire il coro dell’establishment politico, economico, mediatico. Un coro monotono, monocorde, che ripete ossessivamente che la coperta è corta, che non ci sono le risorse, da dove si prendono i soldi per fare questo e per fare quell’altro. Durante il Governo Letta, il coro diceva che c’erano soltanto 4 miliardi e se si stanziavano per l’IMU, non c’era più niente per il resto. Ora col Governo Renzi, si chiede: ma dove sono le coperture per abbassare il cuneo fiscale o le tasse ai più poveri, per restituire i soldi alle imprese creditrici, per abbassare l’Irap, per ristrutturare scuole e dissesto idrogeologico, ecc. ecc.? Ma, se ci fosse un Governo che finalmente volesse fare un’operazione profonda di giustizia sociale e di riduzione delle disuguaglianze, prendendo i soldi dove ci sono, eliminando privilegi e sprechi, allora il coro non farebbe più le precedenti domande ma insorgerebbe con critiche violente a difesa dei propri privilegi.
Il fatto è che, come i Governi precedenti, anche quello di Renzi non vuole toccare nessun interesse costituito. Anche i tecnici, che vengono pagati profumatamente per la spending review, per ultimo Cottarelli, non mirano a tagliare le spese inutili e gli sprechi e a redistribuire il reddito ma a fare tagli lineari su spese sociali e pensioni. È come se volessero ignorare che dal 1989 in poi, dalla caduta del muro di Berlino, con il trionfo del neoliberismo globale, c’è stato un trasferimento continuo di ricchezza dalle classi lavoratrici e dal ceto medio al capitale finanziario, che le disuguaglianze hanno raggiunto livelli inammissibili e scandalosi e che sono all’origine della crisi, come sostengono i Premi Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, Paul Krugman ed altri. Pensioni e retribuzioni sono state falcidiate, negli ultimi anni, anche dalle addizionali Irpef di Comuni e Regioni. Il coro dei giornalisti, dei politici, degli economisti e di tutti gli inclusi che hanno redditi privilegiati, dai manager pubblici a quelli privati, dai giudici della Corte costituzionale ai dirigenti della P. A., tranne poche eccezioni, si guardano bene dal dire che occorre una grande redistribuzione della ricchezza, perché temono per i loro patrimoni. Salvo poi assistere, ogni anno a marzo, al solito ritornello sulle dichiarazioni dei redditi dell’anno precedente, da cui emerge che i gioiellieri guadagnano meno dei lavoratori dipendenti e che questi ultimi guadagnano di più dei loro padroni.
La questione è semplice e tutti la possono intendere. Si potrebbero trovare le risorse per mettere liquidità sul mercato, redistribuire il reddito e alimentare la domanda per uscire dalla crisi, qualora ci fosse la volontà politica di farlo. Fabrizio Barca ha calcolato che una buona patrimoniale può portare 400 miliardi, se si aggiunge la volontà di perseguire l’evasione fiscale, sono altri 200 miliardi e altri 100 dalla corruzione e altri cento dai privilegi delle pensioni d’oro e dagli sprechi vergognosi della spesa pubblica, soprattutto nelle Regioni. La Confcommercio ha stimato un possibile risparmio di 82 miliardi sulle ruberie regionali, ma se si abolissero le Regioni e con esse le Province, rinforzando l’autonomia comunale, il risparmio sarebbe decuplicato. Allora sì, si procurerebbe un vero shock all’economia, abbassando le tasse e aumentando stipendi e salari, dando incentivi alle piccole e medie imprese e alle grandi che investono in Italia e reinvestono i profitti; si potrebbe così investire in ricerca e innovazione e soprattutto nella scuola e nella cultura. Una parte di quegli 800 miliardi recuperati, mettiamo 200 miliardi, potrebbero essere indirizzati alla diminuzione del debito pubblico, che si estinguerebbe in un solo decennio, liberando altre risorse e avviando un circolo virtuoso per la macroeconomia, traendone benefici tutti i cittadini.
Detto questo, Matteo Renzi non è certamente un rivoluzionario ma è indubbio che sprigiona un’energia, un dinamismo e una determinazione impressionanti, da far sembrare che dalla tartaruga Letta si sia passati alla Ferrari. Ha impresso un’accelerazione nell’azione di governo, alimentando aspettative e speranze, come mostrano anche i sondaggi. Il coro, collocando Renzi nella lunga lista dei suoi predecessori che da anni promettono riforme istituzionali e di ogni altro tipo, dimentica la differenza profonda che lo caratterizza rispetto agli altri e cioè che le sue promesse le calendarizza e in tempi brevi possono essere verificate.
Il problema di fondo non è se Matteo Renzi realizzerà le promesse annunciate ma il contenuto delle stesse. Ed è su questo che bisogna concentrare l’attenzione. Non c’è dubbio che egli agisca come un meccano o un rullo compressore, che sta avviando perturbazioni in vari aspetti del sistema ma coi limiti e le timidezze sul reperimento di risorse, che consentono solo operazioni di maquillage mentre servono operazioni chirurgiche. Si aggiunga che limiti gravissimi presentano le riforme istituzionali proposte. Cominciamo a enuclearli questi limiti nella concretezza della loro realizzazione. È un dato di fatto che 10 milioni di lavoratori riceveranno un pò di ossigeno a fine maggio, che allevierà la sofferenza di tante famiglie e che avrà anche un effetto macroeconomico di stimolo della domanda. È un fatto importante ma non sufficiente, perché ci sono pesanti esclusioni come gli incapienti (meno di 8 mila euro all’anno), i pensionati, che pure hanno una busta-paga e che pagano fino all’ultima lire le tasse, subendo il costo della vita senza adeguamenti da anni e la classe media bassa che è stata proletarizzata. Nè si tralasci di considerare che, con l’entrata dell’euro, i redditi fissi dei lavoratori pubblici e privati e dei pensionati sono stati dimezzati dalla furbesca operazione speculativa sul cambio. E tuttavia, Renzi ha promesso che darà una soluzione anche per le categorie escluse. Non c’è ancora una soluzione per gli esodati, vittime della riforma Fornero, rimasti senza stipendio e senza pensione. Certamente positivo sarà il taglio del 10% dell’Irap e delle bollette elettriche ma anche l’ampliamento del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, sebbene non si sia parlato di politica industriale, mentre dovrebbero essere in dirittura di partenza gli interventi sull’edilizia scolastica e sul dissesto idrogeologico.
Il DEF (Documento Economico Finanziario) che indica le previsioni e gli obiettivi di crescita, inflazione, occupazione segna un tendenza di cambiamento in difesa dei ceti meno abbienti, ma sempre con quella timidezza di cui dicevamo. Ci sono più tasse sulle banche e sulle rendite finanziarie, sono previsti dei tagli agli sprechi della P. A., ma anche qui c’è ancora molto da sforbiciare soprattutto nelle Regioni e sui vari enti inutili, nonché operare una forte semplificazione della burocrazia. Un altro obiettivo che va nella direzione del cambiamento è il tetto agli stipendi dei manager e dirigenti pubblici ma ciò è davvero possibile attraverso una riforma organica del fisco, che realizzi un’effettiva redistribuzione del reddito, attraverso una reale progressività delle imposte secondo il dettato dell’art. 53 della costituzione.
Inoltre, è stata approvata la legge sul voto di scambio, che esce dal generico delle intenzioni e amplia la fattispecie dello scambio, non solo per soldi ma anche per altre utilità e che è stata giudicata positivamente da persone credibili, che la lotta alla mafia la fanno concretamente e quotidianamente, come don Luigi Ciotti, come Gratteri e il procuratore antimafia Roberti, seppure è stata criticata la riduzione di pena da 4 a 10 anni. È stata anche approvata l’abolizione del reato di clandestinità e sono state depenalizzate le droghe leggere per uso personale.
Per quanto riguarda le riforme istituzionali, esse sono frutto di un accordo tra Renzi e Berlusconi, che ha generato delle mostruosità, giustamente criticate da più parti. Per quanto riguarda la legge elettorale, ribadisco che, se si vuole rafforzare la democrazia e ricucire la fiducia tra istituzioni e elettori c’è bisogno di maggiore partecipazione dei cittadini anche nella scelta dei propri delegati piuttosto che rappresentanti nominati dalle segreterie dei partiti. È necessaria l’elevazione del quorum del primo turno, se non vogliamo dei governanti che, al netto dei non votanti e delle schede nulle e bianche, rappresentino una minoranza di cittadini.
Per quanto attiene le riforme costituzionali, vorremmo sì l’abolizione del bipartitismo perfetto e una maggiore rapidità nell’iter legislativo, ma senza dimenticare che siamo depositari di una storia la cui tradizione giuridica, a partire dall’impero romano, si fondava sull’autorità del Senato e del popolo romano e che ha fatto scuola in Europa. Vorremmo, perciò, un Senato che, pur non avendo una funzione legislativa, non fosse composto di nominati tra sindaci e consiglieri regionali ma che fosse eletto tra un elenco rappresentato dal meglio della cultura di questo Paese, una sorta di collegio di saggi, che fungesse da supporto e riflessione per la Camera legislativa.
Si è detto che si sono abrogate le Province ma, in verità, non essendo state ancora cancellate dalla Costituzione, sono state soltanto abolite le elezioni dei consiglieri e dei Presidenti. Bisogna in concreto vedere come si articoleranno i consorzi tra Comuni e le città metropolitane, mentre saranno esigui i risparmi. Comunque, nonostante i limiti evidenziati, una cosa è certa, che Renzi ha messo in moto una serie di riforme che, certamente si devono migliorare ma quel che meraviglia è che un fronte di voci critiche si sta abbattendo sui provvedimenti messi in campo dal Governo, voci prima rimaste stranamente mute. Tra queste riforme, ce n’è una che ci sta particolarmente a cuore e su cui aspettiamo Renzi alla prova dei fatti, l’avere messo cioè al primo posto e come motore dello sviluppo la scuola e l’educazione.
Di sicuro c’è che i consensi intorno al Presidente del consiglio sono in crescita. Sintomo di un’aspettativa e di una speranza di tanti cittadini di cui la crisi economica ma soprattutto la delusione dei partiti hanno messo a dura prova appartenenze e valori identitari. Ma non si ricostruisce un tessuto sociale di fiducia e di speranza nel futuro senza incidere profondamente sulla realtà sociale disgregata dalle profonde disuguaglianze, da insostenibili iniquità, dall’affiorare di egoismi, xenofobia, vergognosi privilegi e corruzione. Ma occorre anche un respiro politico transnazionale e cosmopolita da contrapporre all’Europa dei localismi, che ha portato a una profonda divaricazione tra Paesi forti e Paesi del Sud Europa.
Il 25 maggio si svolgeranno anche le elezioni europee. È un dato di fatto che la ricetta del rigore e dell’austerità, messa in atto dalla troika, ha prodotto disastri e aumentato la povertà. Tra un’Europa dell’establishment e della tecnocrazia, che impone diktat passando sulla testa dei cittadini europei e la concezione degli euro-scettici, che vorrebbero uscire dall’euro, l’alternativa non può non essere che quella di un’Europa dei popoli e dei diritti, come quella che avevano immaginato i padri fondatori, in particolare Altiero Spinelli a Ventotene.
Di fronte a una crisi che non è soltanto economica e finanziaria, ma essenzialmente politica e sociale, l’euro non resisterà se non diventa la moneta di un governo democratico sovranazionale eletto dalle donne e dagli uomini europei, perché gli Stati da soli, con la globalizzazione, non sono in grado di esercitare la sovranità. Soltanto un’Europa che sia anche una comunità politica, con una sua Costituzione scritta dal suo Parlamento, dopo un’ampia consultazione di tutte le organizzazioni associative di base presenti nei paesi europei, può esprimere una politica economica europea comune, che crei posti di lavoro, con comuni piani di investimento. Deve essere un ’Europa che respinge il fiscal compact che, così come è oggi concepito, punisce il Sud. Un’Europa che pone al centro il superamento delle disuguaglianze, con un omogeneo sistema delle retribuzioni e delle tasse, la garanzia dei diritti, la comune difesa del patrimonio culturale e artistico, in particolare dell’Italia, che è il più ricco ma lasciato nell’incuria per troppo tempo. La Banca centrale europea dovrà avere poteri simili a quelli esercitati dalla Banca d’Inghilterra o dalla Fed, garantendo non solo prezzi stabili ma occupazione, benessere e salvaguardia dell’ambiente, della cultura, delle autonomie locali e dei servizi sociali.
Un’Europa che deve tendere a cambiare il suo modello di sviluppo, abbandonando il mito di una crescita economica senza fine e misurata col PIL piuttosto che col benessere diffuso delle persone. Oggi abbiamo di fronte la grande questione ambientale a livello planetario, che può condurre alla catastrofe tutti i popoli. Una nuova politica ambientale può essere fonte di nuova occupazione, di maggiore benessere e di riappropriazione dei beni comuni.
Inoltre, non essendo più le mafie fenomeni locali ma globali, occorre una politica di contrasto contro il riciclaggio, l’evasione fiscale, la corruzione, in un’Europa dove non sia più consentito opporre il segreto bancario alle indagini della magistratura. Infine occorre porre fine, nel Mediterraneo, alla morte dei migranti, che non sono un peso ma un fattore di crescita, contribuendo a costruire, come prevedeva il Trattato di Lisbona, un’area euro-mediterranea di cooperazione politica, economica e culturale.
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014