di Kais Ben Salah
Machiavelli è cosciente della novità delle sue teorie, che danno certezza all’azione politica attraverso un’indagine storica del passato e del presente. Alla stessa maniera degli umanisti, egli propone il principio dell’imitazione degli antichi. Il fiorentino sperava in un’imitazione attiva e creativa nel campo sociale, dove il modello antico fosse in grado di stimolare un’azione che avesse potere di salvezza, per trarre il Paese dalla disgrazia in cui era caduto. La scienza machiavelliana, quindi, dipende principalmente dall’agire (l’azione), ed è una sorta di guida teorica che aiuta a modificare il presente per chi sia capace di usarla:
«Il quale è misero perché le storie si leggono per diletto, o solo per conoscere gli avvenimenti, e non se ne trae il senso, non se ne gusta il sapore: non se ne scorge cioè la sapienza riposta, la regola eterna dell’agire» [1].
Nel proemio alle Istorie Fiorentine, Machiavelli criticò i suoi illustri predecessori umanisti, gli storici e i cancellieri del XV secolo: Leonardo Bruni [2] e Poggio Bracciolini [3]. Egli aveva l’intenzione di scrivere la storia di Firenze solo dall’inizio della dominazione dei Medici nel 1434, perché presumeva che Bruni e Bracciolini avessero sufficientemente narrato la storia precedente della città, ma, leggendo le loro storie, arrivò alla conclusione che, sebbene scrivessero seriamente sulle guerre di Firenze, rimasero in silenzio riguardo alla discordia civile e ai conflitti interni, o ne discutevano così brevemente che i lettori non potevano trarre né profitto né piacere dalla loro lettura. Machiavelli ipotizzò che questi autori avevano offuscato questi temi forse perché li ritenevano poco importanti e indegni da affidare alla memoria delle lettere, o perché temevano di offendere i discendenti di coloro che avrebbero dovuto denigrare. Entrambe le ragioni, per il Segretario non sono degne di «grandi uomini» [4].
Nei Discorsi Machiavelli afferma che gli storici sono favorevoli alla fortuna dei vincitori, a tal punto che rendono le loro vittorie più gloriose, gonfiano le loro qualità ed esagerano le azioni dei loro nemici.
«Perché il più degli scrittori in modo alla fortuna de’ vincitori ubbidiscano che, per fare le loro vittorie gloriose, non solamente accrescano quello che da loro e virtuosamente operato, ma ancora le azioni de’ nimici» [5].
Nei Discorsi [6], il Segretario avverte che nessuno dovrebbe essere ingannato dalla gloria di Cesare, «vedendolo celebrato dagli scrittori», perché coloro che lo lodano sono corrotti dal suo successo e intimiditi dalla lunga vita dell’impero. Governarono sotto il suo nome tutti gli imperatori successivi (furono chiamati Cesare), il che non permette a quegli scrittori di parlare liberamente di lui. Agli occhi di Machiavelli, la sfida per gli storici è come scrivere criticamente sul potere! Poiché era addolorato dai problemi dell’inizio del XVI secolo e aveva dato la responsabilità del declino dell’Italia ai suoi prìncipi e alle sue classi dirigenti, per questo la storia per Machiavelli non poteva essere né celebrativa, alla maniera del Bruni, né malinconica alla maniera del Guicciardini, ma solo critica, per potere attingere le verità nascoste della decadenza o dello sviluppo di una città [7].
L’educazione di Machiavelli fu senza dubbio umanistica, ispirata da storici e da poeti romani. Eppure, nonostante la sua convinzione che si potesse trarre preziose lezioni dalla storia antica, il suo atteggiamento nei confronti dell’idealizzazione rinascimentale dell’antichità era ambivalente. La sua rappresentazione più famosa del richiamo dell’antichità è la lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori (1474-1539) in cui scrive:
«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro» [8].
Nel “trasferire completamente “se stesso “in loro”, Machiavelli si ritrova a trascendere l’abisso temporale che lo separa dall’antichità. Il fatto di sapere che stava imparando dagli antichi aumentò la forza irresistibile d’immaginare la lettura di testi antichi come un dialogo aperto nel corso dei secoli a un flusso senza ostacoli di domande e risposte dalle quali – così dice al Vettori – «Il Principe è nato».
Machiavelli lamentò anche la riluttanza o l’incapacità dei suoi contemporanei di imparare da questi antichi “generosi”, e attribuisce l’inerzia dell’Italia a reagire in maniera efficace alle crisi dell’epoca, alla sua trascuratezza e smemoratezza delle lezioni dell’antichità. Era preoccupato per la brillante cultura del Rinascimento, anche se aveva recuperato il ricordo delle antiche virtù in un’Italia che sembrava nata, come scrisse nell’Arte della guerra, «questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte» [9] ma non era riuscita a infondere quelle virtù nella pratica della politica, dell’arte del governo e della guerra.
Machiavelli ha spesso scritto in un modo informativo e probabilmente ha voluto coinvolgere i lettori in un esame critico di tali teorie, soprattutto perché ha riconosciuto il loro fascino in un momento in cui la storia sembrava irrazionale e inspiegabile [10]. Le sue teorie che affermano di mostrare il senso della storia, e talvolta il suo significato, e di considerare i risultati come inevitabili o prevedibili, erano anche popolari nell’Italia dell’epoca, che viveva invasioni, guerre, massacri e il conseguente crollo degli Stati a partire dal 1494 [11].
Le teorie di Machiavelli riguardanti la storia possono essere suddivise in due gruppi, ciascuno definito da un’idea di base: l’esistenza di un modello – una struttura o un ritmo riconoscibili e ripetitivi nella storia – sulla base del quale è possibile prevedere lo schema degli eventi futuri; e, in alternativa, il paradigma che gli eventi umani siano determinati da un potere o una forza esterna e che l’unica cosa certa della storia è la sua incertezza e casualità [12]. In termini di prevedibilità e lungimiranza, le due idee possono sembrare in antitesi ma entrambe le ipotesi escludono o limitano la possibilità che un’azione o un intervento politico possano trasformare la storia in una direzione particolare ed entrambi rilevano così l’inevitabilità dei risultati storici. Le teorie che offrono intelligibilità, ma con solo ristrette possibilità d’intervento, sono la permanenza e l’universalità della natura e dei desideri umani, il naturalismo degli organi politici, i cicli socioculturali e la completa rovina come condizione necessaria per il salvataggio redentore.
Il proemio del primo libro dei Discorsi su Livio afferma la permanenza e l’universalità dei desideri e dei motivi umani, e quindi la presunta dimensione ripetitiva della storia, come base per utili confronti tra modernità e antichità. Machiavelli si lamenta dell’incapacità dei lettori di ottenere una vera comprensione delle opere della storia, perché ritengono erroneamente impossibile l’imitazione dell’antichità:
«come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che gli erono antiquamente» [13].
Esistono, quindi, gli stessi desideri e gli stessi umori come sono sempre esistiti in tutte le città e in tutti i popoli:
«È si conosce facilmente . . . come in tutte le città e in tutti i popoli sono quegli medesimi desideri e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre. In modo ch’egli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future . . . per la similitudine degli accidenti» [14].
Questa natura presumibilmente immutabile delle persone nel corso della storia, fissata nelle loro proprietà come il cielo, il sole e gli elementi, apre uno spazio teorico per l’imitazione e la predizione. Affermare desideri, azioni e persino esiti identici nel corso dei secoli può anche compensare una conoscenza incompleta della storia [15]. Tuttavia Machiavelli mette in discussione questa idea in diversi modi. Il proemio del secondo libro dei Discorsi avverte che le nostre opinioni sul passato (presumibilmente incluso quello espresso nel primo proemio) non possono essere attendibili, tra le altre ragioni, perché il giudizio delle persone varia con l’età.
«La quale cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti i tempi della lor vita fossero di quel medesimo giudizio, ed avessono quegli medesimi appetiti: ma variando quegli ancora che i tempi non variino, non possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre considerazioni nella vecchiezza, che nella gioventù. Perché, mancando gli uomini, quando gl’invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza, è necessario che quelle cose che in gioventù parevano loro sopportabili e buone, rieschino poi, invecchiando, insopportabili e cattive; e dove quegli ne doverrebbono accusare il giudizio loro, ne accusano i tempi» [16].
La domanda che si pone per Machiavelli a questo punto è: come possiamo sapere che la natura umana non è variata nel corso della storia, se le singole nature sono così variabili? Nei suoi Discorsi [17] egli rivede l’idea, questa volta sostenendo che gli uomini prudenti di solito dicono, e non senza merito, che chiunque desideri vedere ciò che sarà, dovrebbe considerare ciò che è stato, perché tutto nel mondo in ogni epoca ha la sua controparte in tempi antichi. Le persone hanno sempre avuto, gli stessi desideri, e quindi le loro azioni hanno necessariamente gli stessi risultati.
«Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso ne immeritamente, che chi vuole vedere, quello che ha a essere, consideri quello che è stato: perché tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto» [18].
Egli ribadisce immediatamente il problema indicando la diversità dei “desideri” e degli “umori” nei diversi popoli:
«Vero è che le sono le opere loro ora in questa provincia più virtuose che in quella e in quella più che in questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro» [19].
Il Segretario richiama, in questo modo, l’attenzione sulle varietà dell’educazione, dei costumi, della cultura, della religione e del comportamento collettivo… il che, interrompe la nozione dei desideri universalmente identici e ripristina la differenza, la contingenza e la temporalità. Tutte le persone evidentemente non sono uguali e le differenze possono essere spiegate.
Un altro tipo di ciclo appare nelle Istorie fiorentine:
«Sogliono le provincie il piú delle volte, nel variare che le fanno, dall’ordine venire al disordine e di nuovo dipoi dal disordine all’ordine trapassare; perché non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo piú da salire, conviene che scendino; e similmente, scese che le sono e per li disordini ad ultima bassezza pervenute, di necessità non potendo piú scendere conviene che salghino; e cosí sempre da il bene si scende al male, e da il male si sale al bene» [20].
Si tratta di un’alternanza continua e presumibilmente inevitabile, non tra forme di governo, ma tra “ordine” e “disordine”, in cui la pace porta la snervante “pigrizia” delle ricerche filosofiche e successivamente “disordine”, con “rovina” che genera la necessità di un nuovo ordine. Secondo Machiavelli, i cambiamenti che i Paesi subiscono procedono normalmente dall’ordine al disordine, e poi dal disordine ad un nuovo ordine; poiché la natura non consente alle cose del mondo di rimanere ferme, così, quando esse raggiungono la perfezione, incapaci di arrampicarsi più in alto, devono scendere, e allo stesso modo una volta che sono decaduti e attraverso il disordine raggiungono il punto più basso, incapaci di cadere ulteriormente, devono necessariamente ricominciare a salire; e dunque continuamente sono destinati ad andare dal bene al male e dal male al bene.
Questo ciclo ignora le forme politiche e si concentra sui cambiamenti socioculturali, in particolare quelli derivanti dalla presenza o dalla mancanza di buoni ordini militari. Traccia una ricorrenza regolare, quasi meccanica, che combina la “natura” con la necessità, ed entrambe con l’idea inspiegabile che disordine e rovina in qualche modo generano un ritorno all’ordine e alla virtù.
Nell’ultimo capitolo del Principe troviamo espressa esplicitamente questa idea. La rovina totale come presupposto essenziale per la rinascita è alla base della missione redentrice del “nuovo principe”, animato dalla «esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de’ barbari» [21]. Proprio perché l’Italia aveva raggiunto il grado più basso della sua storia, nessun tempo è mai stato migliore di così, afferma Machiavelli, per la comparsa di un redentore. Proprio come era necessario che gli Ebrei fossero ridotti in schiavitù in Egitto per rendere visibile la virtù di Mosè, che i Persiani fossero oppressi dai Medi finché la grandezza dello spirito di Ciro fosse riconosciuta, e che gli Ateniesi fossero dispersi affinché emergesse l’eccellenza di Teseo, così anche era necessario che l’Italia fosse ridotta alle sue attuali condizioni: spogliata, lacerata, invasa e avendo sopportato ogni tipo di rovina, affinché la virtù di uno spirito italiano fosse riconosciuta [22].
Temendo ancora di poter cadere nello stesso autoinganno di cui accusa coloro che lodano in modo errato o eccessivo il passato, Machiavelli accetta comunque, nel proemio del libro 2 dei Discorsi, che il presente dell’Italia sia inferiore al suo antico passato. Gran parte della forza polemica dei Discorsi risiede nell’aspra insistenza sul fatto che «la virtù che regnava allora e «il vizio che prevale ora» siano più chiari del sole, perché molte cose hanno reso quei tempi meravigliosi, e molte cose hanno reso i suoi tempi miseri, marcati da infamia e vergogna, mancato rispetto alla religione, alle leggi e all’organizzazione militare, e macchiati da ogni sorta di degrado [23].
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Note
[1] Raffaele Ramat, Niccolò Machiavelli, Antologia e discorso storico, Edizioni Glaux, Napoli, 1961: 160
[2] Leonardo Bruni (1370-1444), è stato un politico, scrittore e umanista italiano originario della Toscana, attivo soprattutto a Firenze, nella cui Repubblica ricoprì la più alta carica di governo di Cancelliere nella prima metà del Quattrocento.
[3] Giovanni Francesco Poggio Bracciolini (1380-1459), è stato un umanista e storico italiano. È ricordato per aver rimesso in circolazione, sottraendoli a secoli di oblio, diversi capolavori della letteratura latina, tra cui il De rerum natura di Lucrezio, l’Institutio oratoria di Quintiliano e le Silvae di Stazio.
[4] Istorie Fiorentine, proemio.
[5] I Discorsi, proemio libro secondo: 151.
[6] I Discorsi, 1: 10.
[7] G. M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pacini, Pisa, 1979: 168-171.
[8] Lettera XI a Francesco Vettori
[9] N. Machiavelli, Arte della guerra, Libro VII: 186.
[10] G M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico…, op, cit.: 85.
[11] Ivi: 69.
[12] In questa sua teoria il Segretario è perfettamente simile all’autore arabo Ibn Khaldun che vede nella storia due parti distinte, una prevedibile che non sfugge ad un certo determinismo, e l’altra è legata all’unicità del fatto storico.
[13] I Discorsi, proemio, Libro primo: 4.
[14] I Discorsi, I / 39: 102.
[15] Antonio Gramsci, Il moderno principe: il partito e la lotta per l’egemonia (Quaderno 13: Notarelle sulla politica del Machiavelli), Donzelli Editore, Roma, 2012: 175.
[16] I Discorsi, II, proemio. p. 153.
[17] I Discorsi, III /43: 378.
[18] I Discorsi, III /43: 378.
[19] I Discorsi, III /43: 378.
[20] N. Machiavelli, Istorie fiorentine, V / 1
[21] N. Machiavelli, Il Principe, Capitolo 26.
[22] Ibid, Capitolo 23.
[23] I Discorsi, proemio, libro secondo.
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Kais Ben Salah, professore di lingua italiana presso l’Istituto superiore di lingue applicate a Nabeul (Università di Carthagine). Da anni si dedica a lavori sui legami culturali tra l’Italia e il Nord-Africa in età moderna.
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