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Il senso, il sentimento e la ragione dei luoghi

 Amatrice e la chiesa di sant'Agostinino

Amatrice e la chiesa di sant’Agostino

di Mariano Fresta

Gennaio 2017: terremoti, neve e valanghe da cinque mesi stanno martoriando l’Italia centrale. Decine di morti e di dispersi sono il bilancio più tragico; e poi agricoltura, zootecnia e artigianato distrutti. E macerie: macerie di case, di borghi, di paesi … Quale sarà il futuro dei paesi colpiti da questi tragici eventi? Amatrice e Norcia, Castelluccio e Montereale, Farindola e altre decine di centri, sconvolti in modo irreparabile, saranno ancora capaci di ospitare degli abitanti? E i loro abitanti avranno il coraggio, o forse la possibilità di tornare ad abitarli? [1].

La storia, antica e recente, ci insegna che molti dei paesi colpiti dai terremoti, oppure abbandonati dalle popolazioni perché troppo disagevole era la vita da loro offerta, non sono più riusciti a risollevarsi. Ne è testimone il volume di Vito Teti Il senso dei luoghi [2], in cui si narrano le vicende dei paesi abbandonati dopo il terribile terremoto del 1783, ai quali si sono aggiunti quelli che, più recentemente, sono stati travolti o da disastrose alluvioni o, con violenza meno drammatica, dalle trasformazioni economiche sociali e culturali che si sono susseguite negli ultimi cento anni: industrializzazione, crisi delle strutture economiche tradizionali, isolamento e impoverimento di alcune zone, emigrazione, ecc.

L’archeologo Emmanuele Curti, riflettendo sui destini di molte delle migliaia di piccoli luoghi abitati che hanno caratterizzato per secoli la storia italiana e che hanno costituito l’ossatura economica della Penisola, paragona la crisi dovuta alla fine dell’impero romano, che vide, per motivi strategico-militari, la scomparsa dei borghi collinari e montani a favore dell’inurbamento delle pianure, a quella attuale: il «sistema» odierno, con il richiamo delle aree industrializzate sistemate nelle zone pianeggianti, egli scrive, «ha fatto saltare l’economia dei nostri paesi, perché non più ‘utili’» [3]. Se ciò è successo senza l’intervento di fattori esterni, come i terremoti o altri drammatici eventi, possiamo immaginare che fine faranno tutti i paesi distrutti o fortemente colpiti dal sisma in questi ultimi mesi. Anche se ci sarà una ricostruzione, come è avvenuto per la Valle del Belice, l’Irpinia, l’Umbria, ecc., il contesto storico culturale, economico e sociale si perde per sempre. Vito Teti, nel volume più sopra ricordato, ci illustra ampiamente lo scempio di intere zone, ormai morte senza speranza di una qualche ripresa, con il solo vago ricordo delle comunità che furono. E la storia delle ricostruzioni recenti ha ribadito questa situazione: non si perdono soltanto i beni materiali, non si sconvolgono le strutture economiche, ma si dileguano i saperi legati a certe forme di vita, che nel corso dei secoli erano stati usati per creare borghi, castelli, villaggi, architetture e sistemi urbanistici, paesaggi, condizioni di vita e comunità in possesso di valori etici e di patrimoni culturali.

In Italia ci sono circa ottomila comuni, di cui quasi seimila hanno meno di cinquemila abitanti; tra questi, tremila e cinquecento non raggiungono le duemila unità, cioè il 41% di tutti i comuni e il 62% dei piccoli. Oggi rischia di scomparire un tessuto fitto di paesi borghi e villaggi, rafforzato ancor più, specie nelle regioni centrali della Penisola, dall’insediamento a case sparse, come può vedere chi viaggia in treno o percorre le autostrade. Di fronte a questa situazione, che può diventare irreversibile («Tanto vale prenderne atto», dice Curti), si cerca di correre ai ripari. Nel 2014 è stata promulgata la cosiddetta legge Delrio che prevede la fusione o l’associazione tra piccoli comuni: si tratta di un provvedimento piuttosto burocratico che in alcuni casi viene applicato altrettanto burocraticamente, senza discussioni preliminari tra i cittadini, senza studi adeguati per vedere se è meglio la fusione oppure l’associazione tra comuni di zone omogenee; tra l’altro, l’associazione, che consentirebbe l’unificazione di uffici e servizi, darebbe anche la possibilità per ogni centro abitato di conservare la propria autonomia culturale.

Per rallentare o impedire il collasso di questa grande parte del Paese che nei secoli si è ubicata sulle colline e sul fianco delle montagne, non ci sono solo proposte e progetti amministrativi; da circa venti anni, infatti, sono nati movimenti ecologisti, sono sorte sensibilità antropologiche e storiche che hanno spinto a studiare gli aspetti della crisi e a trovare le soluzioni che evitino lo spopolamento delle zone a rischio di estinzione.

FOTO1L’antropologo Vito Teti (più sopra ricordato) per lunghi anni ha percorso la Calabria per documentare lo stato di salute di paesi dati per morti già alla fine del sec. XVIII, a causa di un sisma spaventoso, e di quelli che negli ultimi decenni sono stati abbandonati dai loro abitanti alla ricerca di lavoro e di condizioni di vita migliori, o trasferiti nei “doppi”, cioè in paesi con lo stesso nome ma ricostruiti a qualche chilometro di distanza, dopo le gravi alluvioni degli anni ’50 del secolo scorso. In circa seicento pagine intense, la puntuale ricognizione dell’antropologo ha messo in luce un fatto straordinario: i paesi dati per morti decenni fa continuano a vivere per merito di pochissime persone che ancora vi abitano e che tengono i contatti con quelli traslocati nei paesi “doppi”. E ad ogni buona stagione e soprattutto nel periodo in cui ricorre la festa dell’antico santo patrono, tornano molti degli emigrati, con i quali la comunità si ricompone in parte, così che si può fare la processione del santo e si può assistere ai fuochi d’artificio. In questo modo i paesi abbandonati in tutto o in parte non muoiono mai, perché vivono nella memoria dei sopravvissuti: case, stalle, alberi, torrenti continuano a narrare la storia di chi li ha vissuti.

Se nelle pagine di Teti c’è la nostalgia del mondo perduto, in quelle di Franco Arminio [4] troviamo un atteggiamento dolente, nei riguardi di una condizione esistenziale precaria, che si accoppia con un sentimento di rabbia per quello che si potrebbe fare e non si fa. Per mobilitare l’opinione pubblica su questa necessità di portare sullo scenario politico e culturale la situazione di questi centri, Arminio ha fondato una corrente culturale che ha chiamato “paesologia” e un’associazione, con lo stesso nome, che lavora per coinvolgere enti pubblici, cittadini, organi dello Stato nella salvaguardia di queste entità territoriali. Egli percorre continuamente gli Appennini ed altre zone disagiate del Paese, alla ricerca di una documentazione quanto più ampia possibile. Ma non sta a soffermarsi a guardare i ruderi e le macerie, perché la paesologia «non è mai uno sguardo insistito, non c’è mai un supplemento d’indagine. C’è un’occhiata, un piccolo passo in compagnia, una vicinanza provvisoria …».

E poi, anche lui avanza proposte che, però, nelle sue espressioni linguistiche appaiono alquanto utopistiche, poetiche; egli si limita a dare corpo ai sentimenti e alle emozioni che nascono dalla visione di mondi che sono stati travolti dal cosiddetto progresso o da eventi naturali straordinari:

«… Bisogna fare leggi per le persone, bisogna lasciar stare i paesi. Un corpo mitico, un corpo mistico non può essere messo nel lenzuolo dell’attualità. Bisogna lasciargli la polvere che ha, la luce che ha. La paesologia non ama i rivestimenti, semmai si tratta di scorticare e lasciare a vista i tubi, gli allacciamenti. Ecco la grazia di esporsi, di essere esposti. E dunque anche la fragilità di questa grazia» [5].

 A lui, infatti, interessano le persone che va a cercare in questi paesi sperduti e feriti, dove sono rimaste nonostante tutto; si informa della loro vita, del loro lavoro se ce l’hanno (e spesso soprattutto i giovani non ce l’hanno):

 «Che lavoro fai? Lavoro in Germania. Che lavoro? Gelataio ambulante, sei mesi all’anno, da marzo a settembre. Dove lavori? In un paese vicino Stoccarda. Come ti chiami? Nicola Melillo. Vai da solo in Germania? No, con due di Colliano. Per chi lavorate? Il padrone è di Palomonte. Quanto guadagnate? Novecento euro di stipendio, più novecento di provvigione. E nei sei mesi che stai qui che fai? Prima ho lavorato in un ospizio a Lioni, poi è finita. Comunque pagavano poco, dieci euro al giorno. Con chi vivi? Con i miei genitori. Che fanno? Un po’ di campagna, e poi accudiscono mia nonna, praticamente la sua pensione è l’unica entrata sicura» [6].

I paesi che visita e conosce di più sono, ovviamente, quelli dell’Irpinia, dove abita, che vissero la tragica esperienza del terremoto del 1980: egli si fa cantore di quei paesi irpini che portano ancora i segni di quell’evento; anzi, essi sono le mete privilegiate dei suoi viaggi, delle sue visite, ne dipinge le ferite che non sono solo materiali ma affettive ed emozionali:

«Il primo giorno nella piazza del paese [di Castelnuovo di Conza] avevo letto i nomi delle vittime del sisma divisi per famiglie. Mi aveva colpito questo gruppo: La Morte Giuseppina 26, Porreca Gerardo Vittorio 0, Porreca Maria Grazia 2, Porreca Filomena 4. Mi ero chiesto dove mai potesse essere il padre, me lo ero chiesto in uno di quegli attimi in cui ti arriva la vita degli altri, prima di continuare nella prigione della tua» (Ibidem).

Non sta a lui escogitare piani economici, strategie sociali; se avanza proposte, si mantiene sul generico, a lui interessa di più suggerire emozioni, coinvolgere gli altri sul piano della nostalgia e del rimpianto del tempo che fu:«Sull’Appennino negli anni scorsi sono arrivate le pale eoliche e sono andate via le scuole. Ora è il tempo di ragionare di servizi e di investimenti» [7].

foto 2aArminio è ritornato nei paesi in cui Carlo Levi fu mandato al confino: e non poteva essere altrimenti perché egli ha fatto sua quell’atmosfera che circola nelle pagine del Cristo si è fermato ad Eboli, sente come sua quella cultura che sa di antico e che “non ha bisogno della modernità”, come si legge in una didascalia di una foto che ritrae di spalle una signora in una strada deserta di un paese anonimo della Lucania; addirittura ha scelto il paese di Aliano per farne, ogni anno in agosto, la capitale del Festival della Paesologia, intitolato alla Luna e i calanchi. Anche lui, sulla fine dei paesi, sembra concordare con le stesse idee di Teti:

«Quella dei paesi in estinzione è una vera e propria bufala mediatica. In Italia non è mai morto nessun paese. Si sono estinte piccole contrade, ma i paesi non sono mai morti, al massimo sono stati spostati a seguito di terremoti e frane».

Dimentica, però, che il trasloco da un luogo ad un altro non è qualcosa di solo fisico e materiale: tutto il senso di comunità costruito in decenni o addirittura in secoli o si affievolisce o si perde del tutto e se rinasce non è più quello di prima. Non propone, dunque, soluzioni Arminio, ma come sottolinea Curti:

«Ultimamente il fenomeno della paesologia sta riconquistando i cuori, specialmente quelli degli abitanti delle città (mentre nei paesi la gente dice di aver passato ormai il punto di non ritorno) che si innamorano dei nostri borghi, dei nostri bei paesi (del Bel Paese, quale ironia..) per poi il lunedì tornare in città».

Questo sentimento cittadino, tuttavia, che «si nutre dell’abbandono, dell’estetica del luogo fantasma» non è «una categoria economica sufficiente». Occorre, continua Curti, che esso si trasformi in «costruzione di senso», di modo che il turista di passaggio diventi un ««cittadino temporaneo»; occorre «che sia allargato il concetto di cittadinanza: cittadinanza di chi ci vive, di chi arriva da migrante … per diventare abitante vero» [8].

Altro spessore culturale ha il volume di Antonella Tarpino, Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini (Einaudi, 2016); e soprattutto diversi sono il tono e i modi con cui l’Autrice affronta il tema e ci espone le sue riflessioni.

Prima di avviare il suo racconto, suddiviso in quattro itinerari, l’Autrice, in un lungo preambolo, discute filologicamente ed etimologicamente alcuni termini per aiutare il lettore a capire i concetti e le narrazioni che troverà nelle pagine successive. Il punto di partenza è il concetto di “identità”, fino a qualche tempo fa definito come «caratteristica precipua e permanente» di una persona, o di una cittadinanza, o di un paese o di un’intera Nazione. L’antropologia e la sociologia di questi ultimi anni ci hanno, invece, spiegato che una identità siffatta non può esistere, né per l’individuo, perché ciascuno di noi si trasforma crescendo, acquisendo nuovi saperi, nuove sensibilità, viaggiando, studiando, stando a contatto con gli altri, né tanto meno per comunità piccole come i paesi o grandi, come le Nazioni, immersi, da più di un secolo, in una “modernità liquida” [9].

La Tarpino raggiunge le stesse conclusioni reinterpretando i concetti correnti di “confine” e di “limite” con il riferirsi alla loro etimologia: il primo, derivando da cum-finem, indica territori contigui, congiunti (cum) e non separati, come in genere si crede. Limes, da parte sua, ha la stessa radice di limen, che significa “soglia”, che è un punto di passaggio che tutti noi siamo abituati a superare più volte quotidianamente, mentre il “limite” definisce qualcosa di invalicabile. Poteri militari e poteri politici hanno disegnato, sulle cartografie, linee di confine, utilizzando montagne, fiumi, laghi, mari, ogni barriera naturale per circoscrivere il territorio su cui esercitare il loro dominio e la loro amministrazione. Per la Tarpino questi limiti esistono solo sulle mappe, perché le montagne e i fiumi non sono invalicabili ma luoghi a lungo percorsi e attraversati e che i territori che racchiudono sono vissuti da migliaia di persone, brulicano di vita e di molteplici attività, dove uomini, venuti da altre zone, per lunghi secoli hanno circolato liberamente, scambiandosi non solo merci, ma anche informazioni, lingua, e quei prodotti culturali ed espressivi che di questi scambi si nutrono.

FOTO3Quando nel 1982 partecipai ad uno stage di ricerca in Val Germanasca, una piccola e angusta valle vicina a Pinerolo, pensavo di trovarci una comunità isolata anche culturalmente; invece scoprii che i suoi abitanti sapevano parlare ben quattro lingue, che erano, tutti, in possesso di capacità di scrittura, che avevano viaggiato e attraversato le Alpi sia per sfuggire alle persecuzioni (sono di religione Valdese) sia in cerca di lavoro; che il loro patrimonio culturale era composto da elementi provenienti dall’Italia, dalla Francia, dalla Svizzera, da tutti i luoghi in cui erano stati: insomma un miscuglio, una mescolanza di patrimoni culturali riassunti in ognuno dei piccoli villaggi dell’aspra valle. Cosa c’è nell’opinione comune più “invalicabile” delle Alpi? Ma è un’opinione che non riguarda le genti che vi abitano; come ha detto uno di loro: «Le montagne non hanno mai rappresentato una frontiera, ma sempre un luogo di scambio e di conoscenza» [10]. Dello stesso parere sono Enrico Castelnuovo, citato dalla Tarpino, per il quale i crinali delle montagne sono solo delle cerniere [11], e soprattutto l’antropologo Pier Paolo Viazzo che a lungo ha studiato la regione delle Alpi occidentali, mettendo in discussione l’immagine, stantia, di una società montanara isolata, povera e analfabeta, condannata all’arretratezza da un ambiente ostile [12].

Una volta chiarito che l’identità non è stabile ma fluida e mutevole, la Tarpino comincia ad illustrare i luoghi che ha visitato. Il primo itinerario si svolge proprio sulle Alpi, partendo da Ventimiglia e percorrendo tutta la Val Maira, fino a Elva, a 1637 metri di quota: si tratta di “paesaggi del limite”, cioè di zone dove la cultura non ha attraversato i territori, non ha “circolato”, ma si è espansa in lunghezza utilizzando strade tortuose e sentieri impervi che dal mare portano alla montagna. Erano le strade dei “capellai” e degli “acciugai”, di quelli, cioè, che andavano nei villaggi montani per comprare i lunghi capelli delle donne per poi farne parrucche, e di quelli che andavano a vendere le acciughe salate, trasportandole nelle botti su carretti improvvisati. Ma erano anche le strade per le quali passò il pittore Hans Clemer che nei primi del XVI secolo affrescò le chiese di alcuni villaggi, portando in quei paesi fuori mano i primi vagiti della pittura rinascimentale. Gli stessi sentieri erano percorsi dai colporteurs, infaticabili venditori di libri e abili narratori di storie che, essendo analfabeti, avevano appreso dalle letture altrui. A sostenerla nella sua descrizione dei luoghi, la Tarpino chiama in aiuto gli scrittori Nico Orengo e Lalla Romano, che in quei paesaggi hanno ambientato alcuni loro romanzi.

La conclusione di questa prima parte è che le montagne possono diventare elemento di scambi con le pianure, cerniera di comunicazione e di rapporti intensi tra le coste e le città del Nord. Ma sono state anche, insieme con altre zone difficili da raggiungere, rifugi inaccessibili di eretici, di banditi, di fuorilegge: i Valdesi si sono nascosti, infatti, nelle strettoie della Val Germanasca, il bandito Tiburzi nella selva viterbese del Lamone e i partigiani ancora in montagna, dove avevano i loro rifugi e i loro centri operativi, come Paraloup nel cuneese.

Il secondo itinerario ha come tema i paesaggi di confine. Siamo ancora in zona di montagna, nell’estremo Ponente ligure, con i suoi terrazzamenti, i suoi olivi dal tronco contorto, i suoi pastori con le greggi periodicamente transumanti: un paesaggio tutto costruito dall’uomo in secoli di grande fatica. In questi paesaggi ci sono ancora le tracce di eventi storici: «è il caso della valle Argentina che fu scenario cruento della lotta tra fedi inquisitorie, credenze magiche e paure» (pag. 84). Città importante della zona è Triora, luogo fortificato, circondato da alte montagne e profondi scoscendimenti, ricco di sorgenti presso le quali, si diceva, si radunavano le baggiure, le streghe prima di celebrare il sabba alla presenza del diavolo. Era il 1587 e la caccia alle streghe e i roghi erano arrivati fino a lì.

Tutta questa parte montana della provincia di Imperia, confinante con la Francia, ha subìto le vicende politiche e militari che hanno interessato i due Paesi. Così, alla fine della Seconda guerra mondiale il comune di Briga fu attraversato dalla linea di confine, separando il capoluogo, che divenne francese con il nuovo nome di La Brigue, dalla frazione di Realdo che restò italiana. La nuova situazione creò uno spaesamento tra gli abitanti: i pastori, per esempio, non si capacitavano del perché la gendarmeria francese li fermasse e chiedesse loro il passaporto per attraversare i pascoli che da sempre avevano utilizzato senza che nessuno li avesse contrastati con continui controlli. Era un fatto paradossale e non solo per i pastori e gli abitanti della zona, tanto che nel 1958 Christian-Jacque ci fece anche un film: La legge è legge! Mi ricordo le grandi risate che mi feci nel seguire i contrasti tra Totò e Fernandel, gendarme francese, insicuro della sua nazionalità perché nato nella cucina di un albergo italiano. La trama, così surreale e assurda, mi sembrò inventata per i due grandi comici; ora, leggendo il libro della Tarpino, mi accorgo che si trattava di un racconto ispirato dal vero, da una realtà che agli occhi del personaggio di Fernandel risultava “imbecille” e la frontiera una stupida invenzione. Per il gendarme del film e per i pastori brigheschi vale proprio la considerazione fatta dalla Tarpino: «Il confine esiste solo per chi è costretto ad attraversarlo» (pag. 77).

Ma le vicende di Briga, con le esigenze dei pastori spinti dal bisogno di portare gli animali al pascolo e con i controlli doganali che glielo vogliono impedire, ci riportano ai tempi odierni, con le scene dei migranti bloccati sugli scogli di Ventimiglia, contrastati dalla gendarmeria francese nei loro disperati e reiterati tentativi di superare la barriera; scene che poi si sono ripetute a Calais, all’imboccatura del tunnel che dalla Francia porta in Inghilterra.

FOTO4Ai “Paesaggi lungo le vie del sale” è intitolato il terzo itinerario che si svolge in uno spazio racchiuso fra le province di Genova, Alessandria, Pavia e Piacenza, un territorio appenninico attraversato dai fiumi Scrivia, Borbera, Curone e Trebbia e segnato da una fitta rete di mulattiere su cui viaggiavano le carovane dei muli carichi di sale. Era questa zona, infatti, il centro di smistamento per tutti quei commercianti che portavano il sale da Genova nelle regioni lontane dal mare. Ma questa era inoltre la regione in cui esistevano una tradizione musicale dovuta ai molti pifferai e suonatori di cornamuse e una tradizione di danze e di canto corale, come il trallallero. In alcune di queste pagine la Tarpino utilizzando, oltre alle notizie ricavate dalla bibliografia, anche quelle riprese dalle cosiddette fonti orali, ci propone una ricostruzione delle Quattro province simile a quella che Giuseppe Colitti, nel suo Il tamburo del diavolo [13], fa del Vallo di Diano, facendo emergere dalla memoria condizioni di vita, mentalità e cultura di quegli abitanti.

Accanto ai percorsi importantissimi del sale, c’erano in queste zone anche quelli della fede, delle rogazioni, delle questue rituali del Maggio, o Calendimaggio, e quelli infine dei vari Carnevali. Sulle stesse strade passavano anche i pontremolesi, coloro che andavano a vendere libri dovunque e che possiamo considerare come i primi librai, all’inizio ambulanti e poi stanziali, che esponevano la loro merce preziosa sulla bancarella, da dove ha preso nome, nel 1952, il famoso premio letterario.

Nel IV itinerario la Tarpino ci parla di territori distanti fra loro (l’area tra basso Piemonte e la Liguria, i paesi antistanti il medio Adriatico, il Sud della Calabria e la zona del Cosentino), ma accomunati dal fatto che essi si trovano ai margini di zone più importanti o almeno più conosciute e soprattutto perché in essi sono ancora visibili le tracce di un “abitare imperfetto”. Con questa espressione, l’Autrice si riferisce alle case di terra, abitazioni poverissime, ma dalla tecnica costruttiva che può insegnarci ancora oggi come si possano costruire edifici senza recare danni all’ambiente, con poca spesa, utilizzando gli scarti naturali, come argilla, paglia, ramaglia varia, ecc.

E qui la Tarpino collega passato e presente, mondo contadino e mondo industriale, tecniche elementari, come impastare l’argilla e la paglia, con la tecnologia moderna. Si parla oggi di “architettura ecosostenibile, ed ecco che il passato può suggerire come fare. Ecco che il futuro può essere costruito sul passato, come dovrebbe essere. La memoria si sposa con l’ecologia: il paesaggio, fragile, diventa visibile attraverso la memoria di chi l’ha vissuto.

Mentre Arminio dialoga nel presente con i paesi trascurati e con i loro abitanti, Teti, Colitti e Tarpino, animati da una profonda pietas per un volgo scomparso che nome non ha, (chiedo scusa per la parafrasi manzoniana che però mi sembra appropriata), disseppelliscono, riportano alla luce civiltà che, nonostante la vicinanza temporale, sono state dimenticate. Anche lo stile narrativo della Tarpino ha la funzione di ridare l’anima a persone e a manufatti ormai considerati macerie e residui del passato, come si può leggere a pag. 147:

«Scrutando dalla piccola feritoia si distingue una grossa trave (caduta dalla copertura forse), dietro s’intravvede un ingombro più scuro, la sagoma imponente di un vero e proprio focolare con ancora le fascine di legna in grembo, e a lato, tra macchie di terra a vista che si aprono tra le pennellate dell’intonaco a calce, i piani declinanti di un’antica dispensa; all’opposto si osservano le porte scardinate di un armadio come esploso in tante schegge di legno».

Il linguaggio narrativo, dal tono dotto e a volte poetico della Tarpino, il suo continuo uso di citazioni di studiosi, di storici, di storici dell’arte, di scrittori hanno la funzione di nobilitare gli oggetti di cui parla (case di campagna, villaggi, paesaggi, montagne ardue, ecc.; e poi la vita di pastori, contadini poveri, ecc.). Tutto ciò che per millenni è stato considerato povero, triviale, di nessun valore nella narrazione della Tarpino assurge a monumento unico, a testimonianza storica e culturale di importanza eccelsa, come stesse parlando di Roma o di Firenze e dei loro monumenti. È il risarcimento storico-culturale dovuto ad un mondo che forse non siamo riusciti a difendere a sufficienza.

Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Note
[1] Per il momento le popolazioni vittime del sisma vivacemente protestano la loro ferrea volontà di rimanere nei rispettivi paesi di origine. Ci auguriamo che ciò possa avvenire presto e nel migliore dei modi possibile.
[2] V. Teti, Il senso dei luoghi, Donzelli, Roma 2004.
[3] E. Curti, Nuovi moti verso le terre, (15.11.2016), in «Giornale delle Fondazioni. com», periodico telematico.
[4] F. Arminio è, tra l’altro, autore di molti volumi, come Viaggio nel cratere, 2003; Vento forte tra Lacedonia e Candela, Laterza, Bari 2008; Terracarne, Mondadori, Milano 2011; ha pubblicato anche libri di poesia.
[5] La grazia della fragilità, in «Facciamo Comune insieme», pubblicazione online, 17 dicembre 2016.
[6] Un paese emigrato e terremotato, in «Doppiozero.com», rivista telematica, 13 gennaio 2017.
[7]. Questa citazione e le altre che seguono sono tratte da F. Arminio, La questione dei paesi, in «Comune-Info» (pubblicazione telematica) del 21 settembre 2016.
[8] E. Curti, cit.
[9] Z. Bauman, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Laterza, Bari-Roma 2009.
[10] Intervento di un partecipante ad un incontro a Colle della Croce nel 1990, riportato in E. Gosso e P.P. Viazzo, La zangola e il pianoforte: confini religiosi e confini sociali nelle Valli Valdesi, in «Bollettino della Società di Studi Valdesi» n. 206, Claudiana Torino 2010: 65.
[11] ibidem: 55.
[12] Molti sono a proposito gli studi di P.P. Viazzo tra cui segnaliamo: Frontiere e confini: prospettive antropologiche, in Confini e frontiere nell’età moderna. F. Angeli MI 2007: 21-44; La mobilità nelle frontiere alpine, in Migrazioni, Storia d’Italia,. Annali, vol.24, Einaudi, Torino 2009; Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi, Roma, Carocci, 2001.
[13] G. Colitti, Il tamburo del diavolo, prefazione di A. Portelli, Donzelli, Roma 2012.

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Mariano Fresta, già docente presso il Liceo classico di Montepulciano, ha collaborato con Pietro Clemente, nella Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare (canti e proverbi), di alimentazione, di allestimenti museali (Tepotratos-Monticchiello), di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983 ; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000 ; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Tutti i suoi lavori si possono leggere in http//marianofresta.altervista.org

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