di Linda Armano
Oggi si sente spesso dire che il «tempo vola» o che il «tempo è denaro», oppure troviamo modi per «ammazzare il tempo». Queste affermazioni, come molte altre legate ad una certa concezione del tempo, hanno precise origini storiche. Per esempio, la nostra idea di tempo come unità quantizzabile e misurabile, è piuttosto recente e legata all’idea di produttività. Il concetto di «il tempo è denaro» spiega molto bene la concezione di una vita consacrata alla produzione di beni e al guadagno. E il tempo dedicato alla produzione quantificabile dei beni, diventa esso stesso un qualcosa da misurare. Un’importante percezione dello scorrere del tempo e della cadenza della vita umana regolata da quest’ultimo, si ha con l’orologio, il quale è storicamente legato alla creazione della locomotiva e alla nascita della stazione ferroviaria di metà Ottocento.
La locomotiva, nel XIX secolo, cambia la percezione, oltre che dello spazio, anche del tempo. Quest’ultimo a sua volta non è solo legato alla velocità di trasporto del treno, ma anche all’ora segnata dall’orologio per scandire gli orari ferroviari. L’orologio come lo conosciamo noi, nasce infatti in questo periodo per scandire le partenze e gli arrivi. Inoltre, la percezione del tempo, a partire dal XIX secolo, è sorretta da una nuova ideologia che vede nell’ascesa della classe borghese e nell’efficacia del Positivismo una rivoluzione antropologica.
Ovviamente esistono svariate rappresentazioni dell’idea di tempo, diverse tra di loro non solo sincronicamente, ma anche diacronicamente. È noto come, per esempio, il pensiero classico definiva due livelli temporali facendoli interagire. Il primo livello era quello del tempo suggerito dalla percepibilità del movimento: un tempo quindi oggettivo, ciclico, degli anni, delle stagioni, dei ritmi della vegetazione; era il tempo del divenire del mondo, dominato dal caso e dalla mancanza di senso. Il secondo livello postulava invece l’eternità, come astrazione assoluta nella quale si cercava di fermare il tempo, di trovare un senso all’assurdo dell’esistere. Se nel tempo quotidiano trionfava il divenire con il suo avvicendarsi mutevole di nascite, eventi e dissoluzioni, nell’Eterno regnava invece l’immobilità perenne dove l’Essere non mutava. I due livelli temporali corrispondevano a quelli della gerarchia ontologica platonica, ossia quello assoluto della realtà immutabile eterna, le Idee; e quello relativo del divenire del mondo, nel quale si inscrive l’uomo con la sua temporalità. I due livelli temporali, nel pensiero classico, non erano separati.
L’eterno insinuava il dubbio che il relativo temporale fosse solo un inganno o un sogno. Per questa via, al tempo oggettivo del corso degli astri, ossia il tempo come misura del movimento, secondo la definizione di Aristotele1e, si affiancava la consapevolezza del suo versante soggettivo, quello che coincideva nella coscienza umana con il pulsare della vita e con i suoi ritmi variabili. Se, quindi, per Platone il tempo era l’immagine mobile dell’eternità, cioè la traduzione sul piano sensibile dell’atemporalità ideale, per Aristotele il tempo era un aspetto della realtà naturale strettamente connesso alla realtà fisica dello spazio. Per Aristotele infine, se lo spazio era il luogo, cioè la qualità posizionale degli oggetti materiali nel mondo, il tempo era l’ordine misurabile del movimento di questi oggetti.
Queste due visioni della temporalità, il tempo e l’eterno, compaiono a lungo nel percorso della riflessione medievale e moderna occidentale. Nelle Confessiones di Agostino, scritte nel 400 circa d. C., ha inizio quella che si potrebbe definire l’analisi esistenziale del tempo. Con Agostino, anche il tempo assoluto di Dio, l’eternità, fa irruzione nell’esperienza umana e dà senso alla finitezza temporale della vita e della storia. Nelle Confessiones Agostino scrive:
«Se il futuro e passato sono, desidero sapere dove sono. Se ancora non riesco, so tuttavia che, ovunque siano, là non sono né futuro né passato, ma presente. Futuro anche là, il futuro là non esisterebbe ancora; passato anche là, il passato là non esisterebbe più. Quindi ovunque sono, comunque sono, non sono se non presenti. Nel narrare fatti veri del passato, non si estrae già dalla memoria la realtà dei fatti, che sono passati, ma le parole generate dalle loro immagini, quasi orme da essi impresse nel nostro animo al loro passaggio mediante i sensi. Così la mia infanzia, che non è più, è in un tempo passato, che non è più; ma quando la rievoco e ne parlo, vedo la sua immagine nel tempo presente, poiché sussiste ancora nella mia memoria» (Agostino, Confessiones, XI: 18-23).
Agostino non tentava di oggettivare razionalmente il tempo, ma voleva riflettere sul fatto che il passato non è più ed il futuro non è ancora. Il loro essere risultava, per Agostino, annullato nel non-essere. Ontologicamente essi si dissolvevano, ma sopravvivevano nella memoria dell’animo, che era considerata un luogo non collocabile nel mondo, perché non materiale. Ma che cos’è il tempo per Agostino?
«Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa» (Agostino, Confessiones, XI: 20-26).
Il tempo, scisso dall’analisi delle sue componenti di passato, presente e futuro, si dissolveva per Agostino nella dimensione oggettiva del mondo e si risolveva nell’attività dell’animo, che riannodava i segmenti del decorso temporale sul filo teso della sua consapevolezza. Il tempo era quindi per Agostino una dilatazione dell’animo. Per questa via, il tempo veniva perciò a coincidere con la storia della persona.
Nel Seicento, inoltre, il matematico Gottfried Wilhelm Leibniz, pur condividendo in fisica la visione meccanicistica del tempo, concepiva una teoria filosofica della materia nella quale anche il tempo fisico acquistava una dimensione esistenziale. Leibniz ipotizzava una sostanziale continuità di tutta la materia; la differenza fra la materia inanimata e l’essere vivente starebbe stata, per Leibniz, solo nell’assenza di memoria nella materia inanimata. La privazione della memoria comportava necessariamente l’assenza di qualsiasi forma di consapevolezza. La materia sarebbe così stata una mens momentanea che ad ogni istante moriva e rinasceva e non poteva dunque avere alcuna coscienza. Questa suggestiva ipotesi anticipava, in qualche modo, un fondamentale indirizzo della filosofia kantiana.
Tempo e spazio, come mise in evidenza alla fine del XVIII secolo, Immanuel Kant, costituivano delle «intuizioni a priori» universali. La percezione, o meglio l’intuizione, del tempo così come dello spazio, era per Kant la funzione primaria della nostra attività mentale. Senza questa intuizione, non poteva perciò essere possibile per l’intelletto dare forma al pensiero. Il tempo, assieme allo spazio, erano quindi per Kant le dimensioni costitutive di qualunque modo di pensare e il pensiero non sarebbe stato possibile al di fuori del tempo e dello spazio. Con questa dottrina Kant era quindi in forte polemica con le concezioni di spazio e di tempo di Newton definiti dallo scienziato inglese come «gli organi di senso di Dio» e dunque oggettivi e infiniti.
Oggi esistono complesse rappresentazioni del tempo che in questa sede non è possibile né riassumere, né tanto meno tentare di articolare un’analisi complessa. Oggi per esempio i fisici sono addirittura arrivati a sostenere l’idea dell’inesistenza del tempo. Ciò è quanto in fisica è spiegato nella teoria loop quantum gravity. In particolare, quest’ultima descrive come si muovono le cose l’una rispetto all’altra, senza alcuna necessità di parlare di tempo. Dimenticando il tempo, secondo tale teoria, diventa più semplice capire come funziona il mondo a livello fondamentale. Questo non significa che non sia concepito, per la fisica odierna, il tempo nella nostra vita quotidiana; ma, secondo la teoria loop quantum gravity, il tempo non è un concetto utile quando si studiano le strutture più generali del mondo (Rovelli, 2014). Secondo quest’ottica, dunque, il tempo corrisponde al nostro modo di vedere le cose e non fa più parte della struttura fondamentale dell’universo.
Sulle categorizzazioni del tempo
In generale, vivendo nel mondo fisico, gli esseri umani, oltre a sperimentare la diversa collocazione delle cose, hanno anche la percezione della trasformazione delle cose e della loro finitezza. Gli uomini percepiscono, come del resto anche le altre specie animali e vegetali, l’avvicendarsi dei fenomeni quali il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, il sonno e la veglia. La trasformazione delle cose è sperimentata dagli esseri umani sotto forma di ciò che noi chiamiamo tempo (Fabietti, 2015: 129). L’antropologia culturale si è occupata moltissimo di tempo, sviluppando ricerche sulle categorie spazio-temporali. In questa sede è senza dubbio improponibile presentare un quadro riassuntivo delle varie teorie antropologiche riguardanti il tema del tempo, oltre che delle varie ideologie culturali di tempo. Per motivi di spazio, mi limiterò quindi a fare solo alcune considerazioni sulla sua dimensione sociale e culturale del concetto di tempo.
In antropologia, per affrontare il tema del tempo, è interessante soffermarsi su un saggio fondamentale scritto da Emile Durkeim e Marcel Mauss, pubblicato nel 1902 ed intitolato Su alcune forme fondative di classificazione. Nel libro, i due studiosi, sostengono che il tempo, inteso come un fenomeno oggettivo e naturale, è una pura astrazione. Il fondamento delle categorie di tempo è il ritmo della vita sociale. Le attività organizzate in ciò che usiamo chiamare “lo scorrere del tempo” sono un costrutto storico-culturale e il calendario scandisce il ritmo delle attività collettive regolarizzandole. Sin dai primi anni del 1900 quindi l’antropologia cominciò a riflettere sul fatto che il tempo non ha nessun correlato oggettivo. La storia delle scienze sociali parte proprio dall’idea che il tempo sia un costrutto sociale. Questa idea di tempo non è presente solo in antropologia ma essa si ritrova, in generale, anche nelle riflessioni filosofiche della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento.
Sulla scia della dimensione esistenziale e soggettiva del tempo, per esempio, alla fine dell’Ottocento Henri Bergson distinse il concetto di «tempo vissuto» da quello di «tempo interiore». Bergson, pur non negando il metodo scientifico e l’utilità indiscussa della fisica, affermava l’esistenza di una dimensione interiore e spirituale (una sorta di richiamo a Sant’Agostino). Il tempo – sosteneva Bergson – poteva essere inteso in due modi: da un lato il tempo della scienza, misurato con particolari strumenti e caratterizzato da istanti tutti uguali tra di loro. Era, in altre parole, l’idea di tempo, tradotto nel linguaggio della geometria analitica, che poteva essere decomposto in istanti puntuali e percorso nei due sensi della linea temporale. Era il tempo reversibile, ossia quello del movimento del pendolo, che poteva sempre essere letto a rovescio senza incongruenze. Dall’altro lato c’era il tempo vissuto, la cui concezione cambiava in base alla nostra condizione fisiologica e alla nostra coscienza interiore. Il tempo vissuto si contrapponeva al tempo astratto e spazializzato, definito come una collana di perle tutte uguali tra loro, in netta antitesi con il gomitolo del tempo vissuto, nel quale tutti gli istanti, seppur diversi, avevano la medesima importanza.
Parallelamente, alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, gli antropologi cominciarono a considerare due tipi di dimensioni temporali: una dimensione lineare, in cui si collocavano in sequenza determinati eventi; e una dimensione ciclica, in cui sequenze di periodi si ripetevano potenzialmente all’infinito, scandite da eventi ricorsivi di carattere religioso, o attività legate al ciclo dei lavori di sussistenza. Molti sono gli antropologi che hanno raggruppato le categorie native di tempo all’interno di queste due grandi dimensioni. Allo stesso modo però, suddividendo le categorie di tempo all’interno di tali dimensioni, gli antropologi hanno anche associato ad esse due diverse forme di socialità.
Le cosiddette società preindustriali o, come erano definite un tempo, “primitive” sarebbero state, secondo gli antropologi, caratterizzate da una dimensione temporale ciclica; la rappresentazione ciclica del tempo sarebbe stata rispecchiata nella vita collettiva attraverso manifestazioni di carattere religioso o dal ripetersi delle attività di sussistenza. Il tempo sarebbe stato percepito da queste popolazioni come qualitativo, in quanto sarebbe stata assente qualsiasi misura astratta. Ancora oggi, in antropologia, si ritiene che il senso di un tempo non quantizzato, ma carico di significati speciali, sia presente in tutte quelle società che hanno bisogno di rievocare periodicamente l’atto che considerano il fondamento della propria esistenza. Accade per esempio con il Natale di Cristo, con il Capodanno, o con l’idea di una sorta di “ricominciamento” come avviene nel calendario maya e cinese. Ciò avviene in verità in tutte le religioni, tanto che lo studioso di religioni Mircea Eliade considerò queste rappresentazioni come facenti parte di ciò che egli chiamò i “miti dell’eterno ritorno” (Eliade 1975).
L’etnografia è molto ricca di esempi relativi a come le culture prive di “pensiero diacronico” collocano gli eventi nel tempo. Nel 1920, per esempio lo studioso svedese Martin P. Nilsson, pubblicò un libro che ebbe molta influenza sugli antropologi. In esso l’autore sosteneva che nelle cosiddette società “primitive” il tempo era concepito in maniera “puntiforme” e i riferimenti non corrispondevano a frazioni di flusso temporale omogeneo e quantificabile (come per esempio le ore, i minuti ecc.), ma piuttosto ad eventi naturali o sociali, oppure a stati fisiologici. I membri di queste popolazioni usavano, per esempio, categorizzare il tempo affermando “due raccolti fa” per indicare che un determinato avvenimento era successo circa due anni prima, oppure “un sonno” per indicare il giorno precedente.
Ancora oggi vengono prodotte ricerche antropologiche su questo tipo di rappresentazioni temporali. I Tiv della Nigeria, collocano per esempio gli eventi nel tempo facendo riferimento all’organizzazione dei mercati. Un mercato è un ciclo di cinque giorni, durante i quali si svolgono manifestazioni sociali diverse. Se un Tiv sostiene che un determinato evento sia avvenuto “due mercati fa”, egli si riferisce con precisione a un evento accaduto da un minimo di sei a un massimo di dieci giorni prima (Fabietti, 2015: 131). Inoltre, venendo alle scansioni del tempo giornaliero, molte popolazioni del Madagascar rurale utilizzano ancora oggi, come punti di riferimento, la casa. Le case malgasce sono orientate sempre nella stessa maniera, per cui a seconda della parte della casa che è illuminata dal sole nei diversi momenti della giornata, essi possono collocare nel tempo azioni ed eventi (Block, 1971).
Presso molti popoli l’introduzione del cosiddetto tempo lineare e misurabile è stata invece “addomesticata” dalle categorie temporali locali. I Baulé della Costa d’Avorio hanno, per esempio, adottato espressioni come “alle due”, “alle tre” ma, stando agli studi etnografici, essi utilizzano queste espressioni per indicare la corrispondente posizione del sole nel cielo e per rappresentare non tanto dei punti esatti della giornata, quanto piuttosto delle fasce di durata del giorno (Pignato, 1987: 23). In molte società esiste poi una sorta di “doppio regime” temporale. Si tratta di società rurali che sono state inglobate in sistemi statuali a base urbana e commerciale i quali hanno adottato, accanto alle tradizionali forme locali di scansione del tempo, il sistema calendariale degli organismi politico-statuali dominanti. Per esempio, i Baluch, agricoltori del Pakistan meridionale, pensano l’anno in termini di stagioni e il giorno in termini di “fasi” solari (alba, sole alto, tramonto ecc.). Essi hanno anche un sistema di ripartizione delle risorse idriche che si fonda sul calcolo del tempo a scorrimento dell’acqua nei canali artificiali. Tale criterio di calcolo fu quasi sicuramente importato dall’India, quando gli imperatori Moghul sottomisero i Baluchistan nel corso del XVII secolo (Fabietti, 2015: 132). Il computo del tempo era qui reso possibile, fino a non molti anni fa, dall’uso di elementari congegni ad acqua che consentivano di ripartire in frazioni orarie il tempo giornaliero (dall’alba al tramonto e da quest’ultimo all’alba successiva).
Anche nella cultura occidentale, gli antropologi hanno utilizzato, nei loro studi, delle rappresentazioni circolari del tempo riguardo le cosiddette sottoculture. Ancora oggi, per esempio, i folkloristi considerano il calendario popolare europeo, individuando chiaramente la funzione e la posizione delle festività pagane e delle scadenze religiose. In effetti nel calendario popolare europeo non si può fare a meno di notare una sorta di complessa dialettica tra feste liturgiche cristiane e occasioni rituali precristiane. In esso, ad una determinata scadenza nel ciclo dell’anno, corrisponde una determinata rappresentazione simbolica. A livello popolare, per esempio, il Natale è interpretato come festa dell’unità familiare in cui si escludono, anche fisicamente gli estranei. Il Carnevale, che segue direttamente il Natale, si rivela come festa della comunità e prevede che mascherati e spettatori si riversino nelle strade. Concepito come festa dell’abbondanza, del riso e del divertimento, per queste sue caratteristiche si contrappone in modo evidente alla Quaresima, vissuta come periodo di tristezza e di astinenza.
Queste rappresentazioni temporali sono certamente diverse da quelle elaborate in una società, come quella industrializzata, in cui il tempo quantificabile è oggi percepito come un rigido sistema di scansione della vita sociale. Per molti decenni gli antropologi associarono la dimensione lineare del tempo alle società industrializzate moderne ritenute evolute dal punto di vista sociale, tecnologico, morale e cognitivo. Qui il tempo si sarebbe misurato anche attraverso modalità astratte e concepito come un flusso continuo, divisibile, irreversibile, progressivo; il tempo sarebbe stato inoltre percepito come una risorsa. Queste popolazioni erano stimate emancipate da modalità di scansione del tempo arcaico-religiose. Nonostante alcuni elementi di verità, la polarizzazione netta e semplicistica tra queste due dimensioni temporali ha determinato conclusioni profondamente errate. Da un lato perché la distinzione tra attività sacre ed attività profane sarebbe applicabile solo alla società occidentale; ma anche perché associare la ciclicità ai cosiddetti altri e la linearità a noi, è una visione fortemente etnocentrata.
Il filosofo e saggista polacco Krzysztof Pomian sostenne che, per tutto il XIX secolo, filosofi, intellettuali, storici, concepirono il tempo soltanto come lineare, progressivo, cumulativo, di fatto associato al tempo della storia. Sosteneva Pomian che, al contrario, le società all’interno delle quali non si riscontrava apparentemente una successione temporale linearizzata, erano ritenute dagli studiosi società senza storia. Di conseguenza, le popolazioni appartenenti a questo tipo di società erano interpretate come società incapaci di pensare diacronicamente agli eventi.
Anche Lèvi-Strauss, in Il pensiero selvaggio, pubblicato nel 1962, parla, nel penultimo capitolo del libro intitolato “Il tempo ritrovato”, del pensiero dei cosiddetti “primitivi”. Egli affermava che il cosiddetto pensiero totemico e i sistemi di classificazione nativi impedivano la formazione di qualsiasi categorizzazione storica degli eventi della comunità. Da questa concezione Lèvi-Strauss credeva di poter ricavare un’altra fondamentale dicotomia, ossia quella fra le cosiddette “società calde”, che comprendevano i gruppi sociali in possesso del senso diacronico degli eventi e consapevoli dei processi di mutamento, e le “società fredde”, ossia le comunità che ignoravano il divenire e non riuscivano a concettualizzarlo; esse erano inoltre più legate al passato e alla tradizione.
Fino ai primi anni Settanta del Novecento, molti antropologi ritenevano che analizzare significasse schematizzare i concetti in maniera dicotomica. Negli ultimi anni però hanno cominciato a sostenere l’idea di una tensione indissolubile tra una rappresentazione ciclica e lineare del tempo. In altri termini, il tempo non quantificabile, il cosiddetto tempo “qualitativo”, non è certo sconosciuto nella nostra società moderna, pur fortemente fondata su ritmi temporali quantizzati.
In effetti se, per ipotesi, avessimo una dimensione unicamente lineare, e quindi accettassimo un’impostazione fortemente strutturalista come quella suggerita da Durkeim, avremmo una percezione del tempo distorta. Sostiene, per esempio, Francesco Remotti che una concezione solo ed esclusivamente lineare si fonda sull’idea della irrepetibilità degli eventi (Remotti, 1993). In questo modo vi sarebbe un’idea secondo cui gli eventi non si sovrapporrebbero mai, ma si disporrebbero lungo una linea di successione indefinita. La mancanza di ripetibilità degli eventi si tradurrebbe anche nell’impossibilità di qualsiasi forma di previsione, il che farebbe erodere via via la pensabilità stessa del tempo. Il problema dell’idea di una sola dimensione lineare del tempo, non consentirebbe quindi di parlare di tempo se ogni istante del futuro fosse sempre e completamente diverso da ogni istante del passato.
La stessa cosa succederebbe però se noi sostenessimo una concezione esclusivamente ciclica del tempo, sulla scia di quanto affermava Lèvi-Strauss per le società totemiche. In questo caso non sarebbe possibile concepire invece alcun tasso di imprevedibilità degli eventi, cosa peraltro smentita nella vita di tutti i giorni in cui continuamente ci imbattiamo e facciamo esperienza dell’imprevedibilità degli eventi futuri. Se quindi da un lato esistesse esclusivamente una dimensione ciclica del tempo non si potrebbe avere, per esempio, alcuna percezione dei nessi causali degli eventi. E se così fosse non ci sarebbe alcuna distinzione tra passato e futuro, ma vivremmo in un eterno presente, riproducendo in qualche modo, un’opera di Giorgio de Chirico («Ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mia mente», è ciò che affermò de Chirico a proposito della sua opera Enigma di un pomeriggio d’autunno del 1910).
Legata al senso del tempo e alla concettualizzazione delle due rappresentazioni temporali vi è, all’interno degli studi di antropologia culturale, anche la riflessione su che cosa significa “memoria” e come essa possa essere studiata. La memoria rappresenta una griglia interpretativa fondamentale per la nostra esistenza. Il suo processo è in relazione al processo dell’oblio. La possibilità di ricordare dipende dalla capacità di dimenticare e il rapporto tra memoria ed oblio permette l’atto stesso del pensiero. La memoria non è semplicemente un processo soggettivo, intimo, ma è anche un processo collettivo. La relazione tra senso del tempo, costruzione della nostra identità e memoria individuale e sociale, è stato, tra l’altro, uno dei temi più importanti studiati da Henri Bergson il quale parlava di quel prolungamento del proprio passato nel presente che forma ciò che noi siamo. L’idea di memoria di Bergson era radicata nella sua idea di tempo, il quale era direttamente connesso alle condizioni psicologiche di irrequietezza o di calma.
Negli studi di antropologia culturale esiste oggi una forte dimensione di linearità del tempo, definita come linearità primaria. Quest’ultima indica il fatto che gli eventi oggettivi si dispongono su una linea in cui essi si collocano in successione tra di loro. In questo modo gli eventi possono inevitabilmente seguire un percorso ordinato che va dal passato verso il futuro.
Non esistono però ancora riflessioni antropologiche, che riterrei interessanti, su rappresentazioni culturali del tempo in cui esso procede in senso contrario, ossia dal futuro verso il passato. Sono certamente riflessioni che metterebbero al centro la rappresentazione culturale di tempo secondo la fisica occidentale odierna e su un modo di categorizzazione culturale alternativa della linearità degli eventi finora studiati in antropologia. Oggi, infatti i fisici si chiedono, in rapporto all’idea di tempo, perché gli eventi non procedono all’indietro. Per riflettere su questa possibilità occorre tuttavia costruire una particolare concezione culturale, e filosofica, di tempo. In fisica, per esempio, vi è l’idea secondo cui il passato non scompare e il futuro non è inesistente; passato, presente e futuro esistono alla stessa maniera. In altre parole, secondo la fisica odierna ciò che è accaduto e ciò che dovrà accadere esiste già. È sicuramente un’idea di tempo che noi classifichiamo “scientifico” e quindi non calato all’interno della percezione quotidiana umana. Non è certamente l’idea di tempo di Bergson, influenzata dallo stato psichico della persona.
Per spiegare questa rappresentazione di tempo, i fisici usano un esempio assai singolare. Il «fiume temporale» è considerato, in fisica, uno degli esempi migliori per spiegare come sia solo una nostra percezione il fatto che le cose cambiano. Proprio come un film intero esiste già nella pellicola, secondo la fisica odierna esisterebbero già tutti i momenti della nostra vita. La differenza è che però per il film c’è un proiettore che sceglie ed illumina un fotogramma dopo l’altro. Nella fisica invece non ci sono prove della presenza di un qualcosa che sceglie un istante piuttosto che un altro. Noi possiamo creare questa percezione; ma in realtà quello che noi percepiamo come il fiume del tempo potrebbe essere, secondo i fisici, pura illusione. Oggi infatti gli studiosi riflettono sul fatto che, se il tempo, come il fiume congelato, non scorre ed è già tutto creato, può essere possibile viaggiare nel futuro o nel passato. I fisici sostengono che viaggiare nel tempo sarà presto possibile. E per farlo potremo sfruttare, come affermò Einstein, una strana proprietà della gravità, che, come il moto, influenza il tempo rallentandone il passaggio. Più intensa è la forza gravitazionale e più il tempo rallenta. La fisica sostiene infatti che, viaggiando vicino un buco nero, i nostri movimenti apparirebbero rallentati. Si è anche ipotizzato che due ore in orbita attorno ad un buco nero equivarrebbero a circa cinquanta anni sulla Terra. Tornando dall’orbita di un buco nero, sarebbe quindi possibile, per i fisici, viaggiare nel futuro della Terra.
Questa è certamente una rappresentazione di come la scienza occidentale categorizza il tempo e tenta di addomesticarlo. Ma costituisce comunque una forma di senso culturale che noi diamo al dispiegamento degli eventi che andrebbe analizzata anche in antropologia.