di Leo Di Simone
Quella del 10 ottobre 2021 sarà sicuramente una data storica nel registro della Chiesa cattolica, una data che ne richiama un’altra, di 59 anni prima, l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’11 ottobre 1962. A prima vista sembra ci sia una disparità d’importanza tra i due eventi a partire dall’enorme ed inedita risonanza mediatica che il Concilio provocò a livello mondiale. Il mondo non aveva mai assistito ad uno spettacolo del genere che i primitivi schermi televisivi portarono in tutte le case del mondo. Il Concilio, che comportò una rivoluzione nella vita e nella prassi della Chiesa cattolica, divenendo ad un tempo segno di contraddizione e pietra d’inciampo, fino al presente, nella ridda delle interpretazioni che segnano tutti i grandi eventi che sfuggono alle categorie tese ad afferrarli semplicemente perché le hanno superate in partenza e ne hanno coniate di nuove e più accessibili al tempo che li ha provocati. Il Concilio, che nell’ingenua e pur efficace espressione di papa Giovanni XXIII sarebbe stato la «finestra aperta» per far circolare aria pulita all’interno della Chiesa e che lui focalizzò in una parola magica: «aggiornamento»; senza tuttavia poter prevedere il percorso che quell’aria, quel vento dello Spirito, avrebbe tracciato in maniera inarrestabile e indelebile per gli anni a venire.
A quell’evento straordinario di 59 anni fa, croce e delizia della Chiesa nel “post moderno”, o piuttosto nel “post tutto”, si vuole ricollegare l’apertura del Sinodo mondiale “sulla sinodalità” voluto programmaticamente da papa Francesco e da lui inaugurato il 10 ottobre scorso. Un Sinodo che vuole cioè riflettere sulla sua natura di “metodo” per condurre la Chiesa, per riscoprire e rilanciare il fatto che la natura stessa della Chiesa è sinodale: «Chiesa e Sinodo sono sinonimi», disse papa Francesco rifacendosi ad un padre della Chiesa, Giovanni Crisostomo, per invitare a «capire che la Chiesa non è altro che il “camminare insieme” sui sentieri della storia» di tutto il popolo di Dio, per andare incontro al Salvatore. Il “metodo” è pertanto intrinseco alla sua stessa natura, ed è funzionale allo sviluppo della sua vocazione al cammino, alla strada, all’ ὁδός in quanto “via”; sinodo è camminare sulla strada σύν, “insieme”, mentre il metodo porta sempre μετα-ὁδός al di là della strada, sempre più oltre, verso una utopica escatologica meta.
In verità i media non sono impazziti per l’evento ecclesiale, come era invece accaduto per il Concilio, e lo hanno reso noto al pari di tante altre notizie che hanno come protagonista papa Francesco e la vita della Chiesa. Per dovere di cronaca, adusi alla banalità del cronacare con stereotipi precostituiti. Molta più enfasi gli sarebbe stata data se si fosse trattato di uno scandalo. Se però ci si fosse meglio informati, se si fossero letti con attenzione i documenti che hanno preceduto l’evento, se invece della frettolosa immagine routinaria si fosse inteso il contenuto inaudito di quei preamboli programmatici, ci si sarebbe accorti che in realtà è in ballo uno “scandalo” maggiore; nel senso etimologico dello skàndalon (σκάνδαλον), nel senso greco della “pietra d’inciampo” nella quale ci si imbatte e che fa vacillare costringendo a riassettare il passo; pietra di scandalo che costituisce per un momento una traumatica battuta d’arresto ma in realtà rende più coscienti del cammino che si sta percorrendo e che ancora si deve percorrere.
Nella rivelazione evangelica, in verità, la pietra di scandalo è Cristo stesso, «posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno di contraddizione», come annota Luca (2, 34); per cui Gesù poté ben dire: «Beato è colui che non si scandalizza di me» (Lc 7, 23). Pare, allora, che con il Sinodo annunciato si vogliano recuperare l’entità e la verità di questo “scandalo” originario nel cristianesimo, per troppo tempo occultato sotto le coltri delle sue acculturazioni filosofiche e ideologiche e camuffato nei prodotti della dottrina e della tradizione diffusi nei mercati socio-religiosi dell’Occidente cristiano. Ora, il recupero si rende necessario, se non altro per l’ampiezza dell’operazione sinodale, che ha portata planetaria e pretesa apocalittica, ossia rivelativa, perché estesa e rivolta a uomini e donne «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9).
Ad essere obiettivi, la Chiesa non aveva, fino al presente, completamente fruito delle potenzialità insite alla sua costituzione sinodale, mettendone prudentemente in atto solo una parte e lasciando latenti le componenti più cospicue. L’istituzione del Sinodo dei vescovi è stata voluta da papa Paolo VI oltre mezzo secolo fa, per valorizzare la collegialità episcopale e come tale ha rappresentato una istituzione verticistica e un organismo di partecipazione consultivo per il governo della Chiesa. Papa Francesco ha trasformato radicalmente questa istituzione, scandalizzando non poco i suoi non pochi oppositori, in primis i sostenitori dell’immobilismo. Con la sua Costituzione Apostolica Episcopalis communio, del 2018, l’ha trasformata in un organismo aperto a tutto il popolo di Dio, instaurando un modo di procedere corale per affrontare le innumerevoli sfide del nostro tempo sempre più “post” qualcosa, sempre più accelerato sull’asse cronologico della storia e sempre più ignaro della sua vera destinazione. Dopo anni di stagnazione, di velata e poi aperta restaurazione, di severa e arcigna messa in discussione delle aperture conciliari conseguenti il soffio rigenerante dello Spirito, sembra ora si voglia mettere mano alla fruizione della grande eredità del Vaticano II e del suo ingente patrimonio spirituale e culturale.
Dopo decenni di immobilismo conservatore e tradizionalista che hanno mummificato le “novità evangeliche” emergenti dai documenti conciliari, trasformandole in reliquie da venerare formalmente con ossequio e rinchiudere rapidamente negli armadi di pavide quanto inattuali deliberazioni autoritarie, sembra crescente, almeno nella base ecclesiale e nelle sue avanguardie più vigili delle Chiese terzomondiali, la voglia di una Chiesa sempre più universale, corrispondente alla sua vastità cattolica, variegata nelle sue policrome sfaccettature continentali e desiderosa di riascoltare il vigore e l’entusiasmo dei pronunciamenti programmatici di papa Giovanni XXIII, quantomeno per ridare senso a quella parola magica che allora sapeva tanto di generico: “aggiornamento”. E per sintonizzarsi con lo spirito del Vangelo e praticare una nuova apertura al mondo di “oggi”. Una Chiesa che si aggiorni all’oggi, per un nuovo dialogo al posto dei monologhi ufficiali, per andare avanti camminando insieme, insieme all’umanità intera di cui i cristiani non sono membra separate.
Quando al Concilio si disse che la Chiesa è popolo di Dio in cammino, sulla scorta dell’immagine dell’Esodo biblico verso la terra promessa, si riconobbe apertamente che il senso dell’essere cristiani consiste nel camminare e che questo camminare non è un cammino a sé, fatto isolatamente, per strade separate, ma è un cammino che avviene dentro il comune cammino dell’umanità, in sincronia e sintonia con essa. È un’immagine senza dubbio pregnante che corrisponde al bisogno di rinnovamento della fede che attraversa il mondo cristiano, per cui rinnovamento non significa alterazione o tradimento (come può avvenite invece nell’ermeneutica della tradizione, per l’ambiguità stessa del tradere) ma rivivificazione di un’immagine ormai resasi illeggibile, sepolta sotto il velame della polvere culturale e cronologica. Ma è anche vero, però, che c’è una parte di questo popolo che non vuole camminare, che rimpiange i tempi dello stazionamento come gli ebrei le famose «cipolle d’Egitto»; si rimpiangono i tempi della sicurezza, quando tutto era così scontato, così chiaro, così dogmatico, così univoco, nell’insegnamento, nelle istituzioni, nella predicazione, nel catechismo della “dottrina”, nelle direttive, nella morale privata e pubblica. Ora, entrati in zona di insicurezza, in quest’epoca nuova, molti rimpiangono quei tempi, e si affannano come Sisifo per rimetterli in auge sul monte, ma invano; per via delle discrasie dell’oggi, e senza rendersi conto che essere cristiani significa riscoprire continuamente la necessità del cammino, dell’andare avanti, sempre più oltre.
Sinodo potrà voler dire, nel concreto della sua attuazione, partecipazione della Chiesa o, in maniera più auspicabile, delle Chiese cristiane, alla comune tribolazione dell’umanità. Ciò deve comportare la promozione di una profonda saldatura tra l’esperienza dei cristiani e l’esperienza collettiva globale, senza fare della religione una specie di zona di sicurezza. Gesù non è entrato in zona di sicurezza ma ha vissuto nell’insicurezza più radicale, non avendo «dove posare il capo» (Mt 8, 20), uomo tra gli uomini. L’ha abbandonata abbandonando la sicurezza della divinità, così come teologizza poeticamente Paolo nell’inno di Filippesi 2, per assumere la contingenza servile della carne mortale, in una kenosis (dal verbo kenóo, rendo vuoto) scandalosa per ogni ontologia metafisica. Ed è in ragione di questa kenosis che il Sinodo dovrà segnare una transizione epocale nella storia del cristianesimo, una decostruzione della storia sacra per recuperare la pregnanza dell’evento cristiano che risiede nello scandalo dell’incarnazione.
Una nuova cesura della storia parallela all’altra che ha segnato due millenni fa l’inizio dell’epoca cristiana, stante il fatto che si sostiene, scandalosamente, che «Il cristianesimo non esiste ancora». È la tesi provocatoria del teologo domenicano francese Dominique Collin, che rivisitando Søren Kierkegaard chiosa la sua tesi che «il cristianesimo del Nuovo Testamento non esiste assolutamente», perché Kierkegaard riteneva che un cristianesimo senza Vangelo fosse solo un simulacro inventato dai cristiani stessi per non dover conformare la loro vita alla parola di Cristo. Questa tesi obbliga il cristiano a pensare contro se stesso, ad interrogarsi sul significato del cristianesimo e sul rapporto che ciascuno intrattiene col Vangelo [1].
Anche questa è una posizione che andrà valutata dal Sinodo e potrà, ancora, voler dire uscire fuori anche dalla confortevole casa paterna, e intraprendere un viaggio di cui solo Dio conosce l’itinerario. Se il Sinodo non sarà come il viaggio di Abramo che «partì senza sapere dove andava» (Ebr 11, 8), il rischio sarà quello di girare intorno alle consuete certezze, riformulando con parole nuove petizioni di principio, reiterando il circuitare l’identico in un circolo vizioso, dove il cercare coinciderà col ritenere dell’aver già trovato, e le domande saranno funzionali alle risposte già acquisite nel bagaglio di una tradizione chiusa in se stessa, custode delle ceneri del passato quando il suo compito è quello di rinfocolare il fuoco dello Spirito.
Uscire dalla casa paterna, dalla terra culturale, questa è la sfida implicita del Sinodo. Si tratta di un’immagine cara alla retorica religiosa convenzionale, ma dalla quale non abbiamo saputo trarre le debite conseguenze. Ci siamo invece rifugiati nella casa di Dio, nella Chiesa madre, nei recinti del sacro, nella potenza delle istituzioni sacrali, ideali luoghi di sicurezza che hanno confortato i nostri istinti inconsci, per darci una gratifica psicologica: chi è nella Chiesa non ha paura, ha la verità in tasca, ha la risposta per tutte le domande e le soluzioni per tutti i problemi. Questa illusione ha potuto rimanere accesa fino a non molto tempo fa e lo stesso Concilio ne ha registrato gli influssi negativi e subìto l’azione frenante. Adesso questa cattura psicologica non ha più senso e va radicalmente spezzata con la stessa azione radicale con cui il fiondarsi del Dio kenotico ha infranto il cerchio cronologico dell’eterno ritorno dell’uguale per aprirci alla sua novità kairotica. Πεπλήρωται ὁ καιρòς è l’affermazione di Gesù al suo esordio: «il tempo si è colmato» (Mc 1, 15); ma non il krónos nel suo scorrere, bensì il kairós come opportunità da afferrare.
Il nodo gordiano che il Sinodo sarà chiamato a sciogliere, dunque, è di natura squisitamente teologica, di fondazione teologica, anche se tale questione non viene esplicitata nei documenti preparatori. La questione è latente alla prospettiva universale di interlocuzione, e dovrà essere trattata in assetto interculturale che contempla diverse visioni del mondo e di Dio. È la direzione del cammino tracciata dal Concilio stesso. Come acutamente osserva Alberto Melloni riferendosi all’attualità di quell’evento, «Il Concilio rimane la misura anche nella postmodernità, proprio perché la svolta che ha impresso nella Chiesa nella sua globalità, non è venuta da un bisogno di ammodernare la Chiesa nella modernizzazione del mondo, ma dalla consapevolezza preparata dai grandi movimenti e intuita dall’episcopato che la comunione planetaria, la sacramentalità dell’altro, erano voci che dicevano il Vangelo alla Chiesa, le permettevano di entrare realmente – e non solo in linea speculativa – nel dinamismo con cui essa è chiamata a diventare ciò che è. Un dinamismo non finito, perché è il dinamismo stesso della cattolicità»[2].
Il lasso di tempo epocale che ci separa dai pronunciamenti non sbilanciati in avanti del Concilio deve risolversi adesso nell’impegno della chiarificazione delle questioni importanti lasciate sonnecchiare nelle stanze dei dicasteri vaticani; pensiamo alla questione ecumenica, al dialogo interreligioso, al rapporto fede-ragione e al dialogo con la scienza. Questioni tutte affrontate, fino al presente, esclusivamente a partire dall’impostazione onto-teologica della teologia cattolica romana, che dichiara l’assolutezza di tale posizione pregiudicante la corretta visione, lo sviluppo e la maturazione del messaggio cristiano scaturito invece da una luce rivelativa nel kairós di un tempo nuovo. In estrema sintesi la questione si pone nel credere o in un Dio ontologico o in un Dio kenotico; in un Dio sempre più legato ad una metafisica di tipo oggettivistico da cui scaturiscono pretese autoritarie di imposizioni di leggi e princìpi di carattere naturale, normativi per tutti, o nel Dio “gettatosi” nella vicenda umana che ha condiviso quella “gettatezza” dell’esserci di heideggeriana memoria, giusto per rammentare una questione che ha interessato molto la filosofia del XX secolo ma senza far appassionare più di tanto la cristianità alla proposizione ermeneutica, che nell’oggi si impone come criterio critico e orizzonte di un dialogo interculturale e intercontinentale con altre fedi ed altre visioni del mondo e di Dio.
Nell’idea programmatica del Sinodo l’ermeneutica è vista come momento decisivo di un processo che inizia con l’incontrare, prosegue con l’ascoltare, termina col discernere. Ed il discernimento è decisivo per il cambiamento, per collocarsi in posizione salvifica:
«L’incontro e l’ascolto reciproco non sono qualcosa di fine a se stesso, che lascia le cose come stanno. Al contrario, quando entriamo in dialogo, ci mettiamo in discussione, in cammino, e alla fine non siamo gli stessi di prima, siamo cambiati […] In questi giorni Gesù ci chiama, come fece con l’uomo ricco del Vangelo, a svuotarci, a liberarci di ciò che è mondano, e anche delle nostre chiusure e dei nostri modelli pastorali ripetitivi; a interrogarci su cosa ci vuole dire Dio in questo tempo e verso quale direzione vuole condurci»[3].
Se il papa mette in gioco l’ermeneutica bisogna approfittarne per sciogliere il nodo gordiano della “teologia ufficiale” del cattolicesimo romano; chiamando in soccorso la filosofia che ha saputo enunciare spunti di profezia pur pronunciandoli fuori dall’accampamento. Fuori dalle porte della Chiesa c’è anche un mondo del pensiero che seriamente impegna la sua riflessione sull’uomo, sul mondo, sulla questione di Dio, sulla nostra vita e sulla nostra morte… Un mondo con cui vale la pena dialogare, animato com’è, anch’esso, da desiderio di verità, bontà, giustizia, bellezza… Le sue domande devono essere prese sul serio e non possono essere eluse in nome di un preteso possesso della verità. L’annuncio interlocutorio del cristianesimo, oggi, deve tener conto dell’oltrepassamento di quella metafisica che ha comportato la proclamazione della «morte di Dio» da parte di Nietzsche; e non nel senso che Dio non esiste, il che avrebbe implicato una ulteriore affermazione metafisica sul senso del reale, ma nel senso che la filosofia ha preso atto di non poter affermare con certezza il fondamento ultimo; e proprio perché il Dio-fondamento ultimo non è più filosoficamente sostenibile, «per ciò stesso è di nuovo possibile credere in Dio».
È questa la tesi apparentemente paradossale del filosofo Gianni Vattimo: è possibile credere in Dio ma «non nel Dio della metafisica e della scolastica medievale, che comunque non è il Dio della Bibbia, cioè del libro che proprio la metafisica razionalistica e assolutistica moderna aveva a poco a poco dissolto e negato»[4]. Per Vattimo non è assurdo sostenere che la morte di Dio annunciata da Nietzsche sia «in molti sensi la morte di Cristo sulla croce narrata dai Vangeli»; e richiama l’interpretazione di Wilhelm Dilthey secondo il quale è proprio «l’avvento del cristianesimo che rende possibile la progressiva dissoluzione della metafisica, dissoluzione che nella sua prospettiva culminerà in Kant, ma che è anche il nichilismo di Nietzsche e la fine della metafisica di Heidegger». La conseguenza di ciò è un evento determinante: «Il cristianesimo introduce nel mondo il principio dell’interiorità, in base a cui la realtà “oggettiva” perderà via via il suo peso determinante»[5], sfiduciando ogni dottrina che pretende di valere assolutamente e definitivamente come descrizione vera delle strutture dell’essere. È la situazione stessa già denunciata da Gesù nella sua diuturna disputa con scribi e farisei, i detentori dell’ideologia teologica e i custodi della “tradizione”:
«Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini. E aggiungeva: “Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione”» (Mc 7, 6-8).
In ragione di ciò Heidegger ha parlato della storia del cristianesimo come «fraintendimento metafisico» del senso originario del messaggio neotestamentario, e considerando come peccato originario del cristianesimo l’essersi gettato tra le braccia della filosofia greca. Heidegger nel corso delle sue lezioni di fenomenologia della religione si occupò di Paolo, Agostino, Lutero, Kierkegaard; entrando nel respiro della religiosità protocristiana la definì «l’attimo indisponibile della grazia» davanti a cui le cattedrali della metafisica e della teologia, che vogliono rendere la fede resistente al tempo, crollano in se stesse [6]. Constatiamo che questa posizione, accanto a tante altre simili, abbia permeato il clima filosofico e teologico del XX secolo a noi limitrofo: anche Karl Barth ha alzato la mano per annunciare una teologia della crisi, del Dio della cultura che è andato in crisi insieme al patrimonio di verità della Chiesa, invitando la Chiesa a sabotare tutte le vie di fuga verso costruzioni metafisiche consolatorie e irreali. Dio non è un concetto, e «qualunque cosa l’uomo dica di Dio è l’uomo che lo dice».
Non è questo il luogo per illustrare nel dettaglio lo sviluppo e l’ampiezza di quel clima filosofico che pur nella diversità degli atteggiamenti e delle posizioni ha decostruito attraverso un puntuale processo ermeneutico non solo l’ostinazione della Chiesa a restare legata ai contenuti di una cultura metafisica che, pur nobile e antica, non ha titoli per essere considerata la verità eterna; ma è stata decostruita anche la pretesa della scienza ad autoproclamarsi fonte di verità incontrovertibile. Da questo punto di vista l’ermeneutica sembra davvero essere, come dice Vattimo, «lo sviluppo e la maturazione del messaggio cristiano»[7], di Dio che si spoglia di tutti i suoi attributi metafisici e della sua sovrana trascendenza.
C’è però una plausibile ragione che spiega l’attaccamento della Chiesa alla metafisica naturale, alla concezione essenzialista, a ciò che in termini pratici ha provocato e provoca l’impossibilità di concepire il ministero ordinato al femminile, data altra “vocazione naturale” della donna; o la negazione, nonostante la realtà sussista nella stessa Chiesa cattolica, del sacerdozio uxorato; così come è stata data legittimazione ad un potere monarchico assoluto, essendo la monarchia di “diritto divino”; o l’imposizione di una castità innaturale ed indesiderata per le persone non eterosessuali che professano la fede cristiana; o la sessuazione di Dio come padre e non come madre; così come tutte le dispute sulle problematiche della bioetica condotte anch’esse con la pretesa di parlare in nome dell’umanità e non solo a nome di una istituzione religiosa che non tutti sono tenuti ad accettare.
Tale atteggiamento può essere fatto risalire alle origini del cristianesimo costantiniano, quando Eusebio di Cesarea, cappellano di corte di Costantino, collocò l’imperatore all’interno della sua concezione trinitaria monarchica che vedeva il Padre al vertice della piramide e subordinato a lui il Figlio, con l’imperatore come fratello che così acquisiva una metafisica autorità divina. La sua posizione era evidentemente eretica rispetto all’ortodossia trinitaria nicena, anch’essa costruita su base onto-teologica, ma risultò utile ad una costituzione monarchica e gerarchica della Chiesa, poggiante su un indiscusso principio d’autorità, sull’autoritarismo che ha attraversato la storia della Chiesa ed anche la storia della cultura occidentale, fino all’assolutismo dell’attuale iniquo sistema finanziario che si sente autorizzato a decidere per tutti noi, sollecitando dalla politica leggi ingiuste che collocano i poveri in un disegno metafisico che “per natura” li ha resi tali. È sbalorditivo scoprire che i teoremi e i postulati finanziari hanno origine nella metafisica.
Pur osannando princìpi democratici ideali viviamo sotto la dittatura di un regime autoritario spietato. Mentre l’autoritarismo si difende trincerandosi dietro il meccanismo vittimario, come ha ben spiegato René Girard [8], «perché la vittima è sempre colpevole e la folla individua sempre un vero sovversivo». Il sovversivo è tale perché è straniero, è diverso, non allineato, non omologato. Il processo, la condanna e la morte di Gesù sono lo specchio di tale concezione criptata nell’alveo del dominio che cerca di trovarsi ragioni di tutela della sua “integerrimità” che discende dai “princìpi primi” ai quali vuole restare assimilato. Inquisizione, caccia alle streghe, roghi, potere temporale dei papi, guerre di religione, persecuzione degli ebrei, condanna del “modernismo” sono stati gli esiti della metafisica come «scienza dell’essere in quanto essere» e dunque «l’identificazione dell’esistenza cristiana con l’esistenza filosofica pensata alla maniera classica» per cui «è solo assimilandosi ad essa, sulla linea Platone-Plotino – ironizza Vattimo – che l’uomo realizza davvero la propria umanità»[9].
Oggi il Sinodo deve tener conto che questi meccanismi sono stati smascherati e distrutti dalla stessa filosofia “aggiornatasi” alla contemporaneità vitale e culturale, e che l’approccio alla verità, tranne nei pelaghi dove la concezione metafisica è degenerata nei fondamentalismi, è più colloquiale che cerebrale e si fonda sulla ricerca di un accordo intersoggettivo, come costruzione del consenso nel dia-logo, o come affermava Gadamer «come costruzione sempre in corso di comunità»[10], in una «fusione di orizzonti che non ha nessun insuperabile limite oggettivo» come quello della razza, della lingua, del sesso, delle appartenenze “naturali”[11]. Il linguaggio stesso del filosofare è quello dell’esistenza, dell’esperienza vitale fino al limite della sofferenza, dell’angoscia, del grido, del trauma della storia, perché è da Thauma che è nata la filosofia, dal timore per il mondo, dal timore per il divenire del mondo, quindi dalla terrificante scoperta che ogni cosa nasce e muore, quindi “diviene”. Paura esistenziale che, inevitabilmente, spinge al dominio, ovvero a voler imporre un ordine alle cose grandi o piccole di questo mondo e ai pensieri stessi, come rimedio all’inafferrabilità ineffabile della verità.
La metafisica è stata la via di fuga nell’ineluttabile, nella necessità naturale come riflesso del “celeste” da cui promana un “vero” inflessibile e fatalistico. La ricerca esistenziale, dal suo canto, atterrita dal Niente non oggettivo in quanto non-ente, si è messa sulle tracce del filo che collega all’evidenza del vero rintracciandolo nella stessa drammaticità antropologica della solitudine e della “gettatezza” di Heidegger. Troppo bassa è apparsa questa ricerca dalla specola dell’arroccamento metafisico ed è stata appellata spregiativamente “nichilismo”, quando la scoperta importante di questa ricerca sta nell’aver compreso che il nihil che atterrisce è il ne-ilum, la mancanza di filo, il non collegamento con le direzioni fondamentali dell’esistenza, il non avere un appiglio. Che fare? Non resta che de-siderare, stando sotto le stelle ad attendere che qualcuno venga, “dalle stelle”; non essendo altro, il desiderio, che l’aspirazione della finitudine umana all’infinito:
«Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)»[12].
Il criptico quanto celebre passo dell’ultimo Heidegger, l’azzardo del nome di Dio, non autorizza a chiedere di capire se alludesse al Dio cristiano; sicuramente non al Dio metafisico nell’impossibilità del suo apparire. Ma il riferimento all’attesa di un Dio che appare e al tramonto antropico per la sua assenza può riferirsi al colmarsi dell’attesa nel kairós, nella speranza del suo rendersi evidente e vero, tendendo a lui come a una meta. A questo riferirsi heideggeriano non può non collegarsi il silenzio di Gesù sulla verità alla domanda arrogante di Pilato sulla verità (Gv 18, 38: Τί ἐστιν ἀλήθεια). Se Pilato si aspettava una definizione metafisica della verità, com’era plausibile, Gesù non poteva dargliela. La cecità della pretesa metafisica impedì a Pilato di vedersela innanzi, non loquace ma evidente, “incarnata”, nell’evidenza drammatica della condizione antropica causata dalla “volontà di potenza” alleatasi col fanatismo religioso: Pilato e Caifa. Nell’apparire di Gesù, “dell’ultimo Dio”, compare l’essenza più recondita della “nientità” dell’essere, il Deus absconditus nella visibilità indicativa di “ecce homo”; la verità che non può essere attinta da un sapere concettuale, senza carne, ma solo in un cammino sapienziale che comporta una svolta di “conversione”, il meta-nous che richiede una conoscenza partecipativa. La verità non può essere accostata dall’esterno ma bisogna esservi dentro.
Gesù tace perché il voler parlare della verità non è la verità. Il dialogo è muto perché ha luogo «tra valori inconciliabili»: per Pilato «vera è la proposizione che si conforma, secondo necessità con l’ente o col fatto da giudicare, che costringe all’assenso grazie a tale sua adeguatezza. L’apparire del Vero non libera ma piuttosto obbliga. La verità che è Gesù, invece, libera perché dona vita, vera vita, vita eterna». Con questa esegesi dell’episodio giovanneo Massimo Cacciari vede superato lo stesso stallo del desiderio heideggeriano per cui è vero l’esporsi alla svelatezza dell’ente lasciandosi coinvolgere; e sottolinea «la luce della Novitas cristiana» costituita dal nesso tra verità e libertà, «la libertà che non ci appartiene in quanto ci viene donata dalla luce della Verità che si manifesta in un vir qui adest». A partire dall’Evento cristiano, dal quale siamo «inarrestabilmente attratti» non possiamo non concepire la Verità che «come energia che trasforma, converte, rinnova; potenza che libera e fa rinascere». Ed è rivoluzionario il fatto, conclude Cacciari, che «questa potenza viene proclamata immanente all’essenza dell’esserci, ed è essa soltanto, alla fine, il… salvatore»[13].
A cosa servono tutte le considerazioni filosofiche messe qui sul tappeto nella stessa considerazione del Sinodo? All’apertura delle porte? Sicuramente sì! Ma apertura non per fare entrare nella Chiesa i popoli che stanno «nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Lc 1, 79), e semmai per uscire e camminare con essi, per contemplare la luce promanante dal quel «vir qui adest», per andargli incontro e riconoscerlo come il logos del dialogo che, abbandonato il suo assetto metafisico, intrattiene con noi una discussione che deve convincerci non di verità astratta, ma dell’unica cosa che qualifica Dio non metafisicamente, come testimonia l’apostolo Giovanni: «Dio è amore» (1Gv, 4, 8: ὅτι ὁ θεòς ἀγάπη ἐστίν). L’amore che sostanzia l’atto di fede cristiano che non si può costituire in un insieme di formule ripetute meccanicamente e tratte dai moduli ontologici della filosofia greca; l’amore che è gioia per il ritrovamento del filo perduto e inaspettatamente venutoci incontro per rendersi afferrabile in quanto kairós. Fede come corda, così come suggerisce l’etimo latino di fides, legame e religio che ci ri-collega alla verità dell’essere, ci ri-con-giunge come un simbolo. Il simbolo che nella cultura greca era la metà di un coccio rotto, la tessera hospitalis, che nella ricongiunzione, anche a distanza di molto tempo, comportava il riconoscimento dell’altro. Per Gadamer il simbolo è «qualcosa per cui si riconosce qualcuno come vecchio amico», ciò che nel Simposio platonico viene chiamato «simbolo dell’uomo» (σύμβολον τοῦ ἄνθρωπϋ); il fatto che l’uomo sia come un frammento in cerca di ricongiunzione. Ed è proprio questo l’amore, l’attesa di qualcuno, dell’altra parte del frammento, che venga a colmare la felicità avverantesi nell’incontro [14].
Solo l’amore come Carità, che è «vivere per- Altri» come ben lo ha delineato Emmanuel Levinas, altro profeta fuori dall’accampamento, può aiutarci ad uscire dall’attuale condizione umana. Nell’ordine della Carità il servire è più che il comandare, perché l’Altro è principio, fine e centro. Andare verso Altri conduce a scoprire dentro di sé la dimensione più autentica del proprio essere. Fare qualcosa per Altri per Levinas è «essere spirito», spirito come fatto concreto e non uno studio “teoretico” o filologico della parola, e soprattutto della parola rivelata [15]. Rilevando questa fattualità dello spirito non è difficile identificarla con quella spada a doppio taglio di cui parla la Scrittura (Eb 4,12) utile a sciogliere, con un taglio netto, il nodo gordiano di una teologia prigioniera di se stessa.
Una teologia che non ha consentito alla Chiesa di dare concretamente la sua vita per-Altri perché ha voluto legare anche la rivelazione cristiana a una metafisica naturale. Non tutte le conseguenze antimetafisiche del cristianesimo sono state esplicitate, in quanto si è voluto opporre alla portata storico-culturale della tradizione biblica una realtà naturale sussistente indipendentemente da essa e a cui la rivelazione biblica si dovrebbe piegare, quando essa appare, invece, asimmetrica e originale. La rivelazione biblica non ci spiega la natura delle cose, la natura di Dio o le leggi naturali che regolano l’universo. «La sola verità che la Scrittura ci rivela, quella che, nel corso del tempo, non può subire nessuna demitizzazione – giacché non è un enunciato sperimentale, logico, metafisico, ma è un appello pratico – è la verità dell’amore, della caritas» [16].
Il Sinodo dalle porte aperte dovrà considerare che l’uscita della Chiesa per camminare con l’umanità dovrà avvenire dismettendo il suo sontuoso abito metafisico, il cui ingombro non le ha consentito di incontrare Altri da sé, e assumere l’abito caritativo che pur possiede nel guardaroba della sua vera tradizione. Lo Spirito le rammenta che dovrà lasciare il suo antico paludamento per intraprendere il suo viaggio, per accingersi finalmente all’uscita: «Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre» (Sl 44, 10). La sposa cantata dal salmista sta per intraprendere una vita nuova, sta andando incontro al suo sposo con l’abito nuziale dell’amore e nulla sarà più come prima. È dunque necessario che la Chiesa esca da sé, che sia “fuori di sé”, come Gesù individuato dai suoi: «è fuori di sé», ἐξέστη (Mc 3,21). Chiesa in uscita, dalle porte aperte, fuori di sé, che dovrà incontrare altre teologie cristiane che grazie allo Spirito sono sorte in continenti e culture diverse; dovrà ascoltarle, accoglierle come doni del logos nella reciprocità del dialogo, comprenderne le ragioni, l’impegno, la necessità, le finalità. Abbandonare la casa del padre significherà abbandonare l’eurocentrismo che l’ha caratterizzata istituzionalmente, osteggiando e sconfessando, giudicando e condannando le profezie all’esterno e all’interno di sé. L’uscita dalle porte aperte del Sinodo la metterà a contatto con le diversità che non le sono estranee nella carità, ma fanno parte del suo vero sé, quello che non ha finora voluto guardare con attenzione, presa dal suo “io” orgoglioso e autosufficiente. E queste diversità dovrà scoprirle come la sua vera ricchezza, il suo vero ornamento nuziale. Il futuro della Chiesa è la profezia, costantemente protesa a distruggere gli idoli che sempre sorgono tra il trono e l’altare.
L’incontro con i popoli e le loro religioni non dovrà accadere a livello istituzionale; dovrà essere interumano e terapeutico, perché dovrà guarire, nel mondo, la ferita che il suo approccio coloniale ed eurocentrico ha provocato nelle relazioni interculturali, che esigono rispetto per l’altra cultura, spazi di libertà per ciascuna, con impegni che escludono l’isolamento reciproco e la ricerca dei modi di una convivialità comune in cui ci si arricchisce reciprocamente. Nel passato, ciò che veniva chiamata evangelizzazione ha avuto pretesa di civilizzazione, facendo apparire per cristiano ciò che è stata la cifra della schizofrenia culturale europea, anch’essa originata da un dualismo metafisico: da una parte il divino, dall’altra l’umano, la materia contro lo spirito e il corpo contro l’anima, soggetto contro oggetto, uomo contro donna, cattolici contro protestanti, civili occidentali contro il resto del mondo. Si è trattato di una colonizzazione senza amore, dettata poi dal puro calcolo, perché l’amore vuole conoscere ciò che ama, gli si fa prossimo.
Un vero dialogo interculturale si dovrà impegnare a conoscere i simboli delle altre culture, per capire come le culture vedono se stesse. E sarà necessario riferirsi al dinamismo, anch’esso costitutivo, del rapporto tra logos e mythos che sta all’origine dell’avventura filosofica greca, prima dell’invenzione della grande metafisica e ancora presente in Platone. L’uomo non è solo ragione, né mera irrazionalità; la relazione tra l’ambito razionale e dei concetti e quello del mito, che rappresenta l’orizzonte della comprensione umana, il senso della verità, è fondamentale per quel rinvenimento simbolico che nel mito del Simposio platonico è l’amore come ricomposizione e armonia. Il simbolo rompe l’epistemologia moderna, cartesiana o aristotelica che sia, di soggetto-oggetto. È nella ricomposizione che ci si ritrova, altrimenti si è scissi, in lotta con se stessi e con gli altri, nella frustrazione della mancanza, dell’assenza, dell’incompletezza che inducono al dominio.
Questo Sinodo, camminando nel mondo e con i popoli di questo mondo, dovrà farsi catalizzatore di pace e di giustizia, riconoscendo, insieme agli altri, che l’Altro da incontrare e da servire à la nostra ricchezza, un altro soggetto e non un oggetto della nostra ricerca. Ciò vale anche per Dio, quando ne facciamo un oggetto da indagare curiosamente, invece che l’interlocutore della nostra indigenza. Deve crearsi una interdipendenza tra le culture e le religioni, che per molti aspetti sono vicendevolmente collegate ma con diversi gradi di indipendenza e libertà. Ciò che maggiormente le accomuna, al di là delle visioni dogmatiche e delle semiotiche cultuali è il riconoscimento che c’è qualcosa nell’uomo che trascende la mera umanità, che viene dalle stelle, e – per continuare la metafora del de-siderae con il con-siderare (riunire le stelle) – che tale trascendenza rivela la condizione sovraculturale dell’umanità stessa. Chi non desidera e considera ciò ha con ciò stesso provocato la rottura dia-bolica del simbolo e attentato delittuosamente alla crescita della pace e della giustizia in favore di quello stato di disumanità che connota tristemente la nostra società planetaria.
Lo si può considerare un atto simbolico quello compiuto da papa Francesco alla vigilia dell’apertura del Sinodo. Più importante del documento preparatorio, più dell’omelia alla messa; significativo di un impegno già preso e divenuto subito atto. «Lo sguardo dell’interdipendenza e della condivisione, il motore dell’amore e la vocazione al rispetto». Sono queste tre realtà antropologiche le tre linee guida che Papa Francesco ha lasciato nel cuore dei partecipanti all’Incontro «Fede e scienza: verso COP26», promosso dalle Ambasciate di Gran Bretagna e d’Italia presso la Santa Sede insieme alla Santa Sede, che si è tenuto in Vaticano, nell’Aula della Benedizione, e che ha visto riuniti religiosi e scienziati provenienti da tutto il mondo il 4 ottobre scorso. «Lo sguardo dell’interdipendenza e della condivisione», ha detto il papa, mostra che «tutto è collegato, nel mondo tutto è intimamente connesso». Non solo la scienza, ma anche le fedi e le tradizioni spirituali «mettono in luce questa connessione esistente tra tutti noi e con il resto del creato». Per questo «va sollecitato continuamente dal motore dell’amore, un amore che si estende a tutti, oltre le frontiere culturali, politiche e sociali; un amore che integra, anche e soprattutto a beneficio degli ultimi, i quali spesso sono coloro che ci insegnano a superare le barriere dell’egoismo e a infrangere le pareti dell’io». Quanto alla «vocazione al rispetto», del creato, del prossimo, rispetto di se stessi e del Creatore, ha concluso il papa, va vissuto «in maniera empatica e attiva nel voler conoscere l’altro ed entrare in dialogo con lui per camminare insieme in questo viaggio comune» [17].
Durante l’incontro è stato firmato un Appello rivolto ai partecipanti alla 26.ma Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – COP26, prevista a Glasgow, in Scozia, dal 31 ottobre al 12 novembre 2021. Il 9 ottobre mattina, vigilia dell’evento sinodale, l’Appello è stato consegnato ai parlamentari italiani ed europei riuniti a Roma per i giorni 8 e 9 ottobre, in preparazione alla Conferenza di Glasgow sul clima, e che papa Francesco ha ricevuto in Vaticano. Anche a loro ha rivolto un messaggio di auspicio, invitandoli alla responsabilità e alla solidarietà, dichiarando che le religioni, dal canto loro, si sono impegnate fortemente a lavorare «nel campo dell’azione e dell’esempio». L’appello ai governi è stato molto deciso: «adottino pratiche di uso sostenibile della terra preservando le foreste e la biodiversità; favoriscano sistemi alimentari rispettosi dell’ambiente e delle culture locali; portino avanti la lotta contro la fame e la malnutrizione; sostengano stili di vita, di consumo e di produzione sostenibili»[18]. Non ha detto cose nuove, le sue encicliche hanno abbondantemente sviscerato tali tematiche, ma adesso questi grandi e gravi problemi devono diventare patrimonio di tutti. Sono denunce che devono trafiggere il cuore del potere planetario.
All’inizio del discorso il papa aveva esordito dicendo: «C’è un cammino da intraprendere…» e probabilmente pensava tra sé al cammino del Sinodo cui avrebbe dato il via il giorno successivo, provando un brivido alla schiena e non riuscendo ad immaginare dove arriverà questo Sinodo e che cosa diventerà per la Chiesa e per il mondo. Cosa diventerà per il cattolicesimo come religione della Parola: «In principio era il Verbo» esordisce il Prologo di Giovanni, il Logos che è anche senso della parola. E il senso della parola, a differenza del concetto, non è univoco, perché la ricchezza della parola sta nella sua polisemia. Noi ci siamo calati in un’unica forma di pensiero, abbiamo la mania tutta occidentale, aristotelica e cartesiana della precisazione, dell’individuazione, della determinazione, per cui abbiamo dovuto spaccare, separare, distinguere, e ancora ci fissiamo sul particolare mentre ci diciamo “cattolici” trascurando l’universale. Ma il cattolicesimo, se davvero vuole essere “cattolico”, cioè universale, non può ridursi ad una dottrina, sempre limitata ai postulati che le danno fondamento e senso. Non possiamo confrontarci con le altre religioni e confessioni cristiane per concetti, per teologumeni, ma solo per esperienze. Bisogna passare all’ortoprassi, al cristianesimo come esperienza di vita che può confrontarsi con altre esperienze di vita vissuta, con la pratica dell’amore agapico che è il cuore pulsante dell’esperienza cristiana, la sua vera fondazione. Questa non è solo una delle questioni irrisolte del Concilio, è la più importante. Se il Sinodo non la terrà in considerazione avrà segnato con ciò stesso il suo fallimento.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] Cfr. D. Collin, Il cristianesimo non esiste ancora, Queriniana, Brescia 2020.
[2] A. Melloni, in A. Melloni e G. Ruggeri (a cura di), Chi ha paura del Vaticano II?, Carocci, Roma 2009: 132.
[3] Omelia di papa Francesco per l’apertura del Sinodo, Basilica di San Pietro, Domenica, 10 ottobre 2021.
[4] S. Zabala (a cura di), in G. Vattimo e R. Rorty, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, Garzanti, Milano 2005: 22.
[5] Ivi: 50.
[6] Cfr. R. Safranski, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, Teadue, Bergamo 2001: 136.
[7] G. Vattimo, in S. Zabala (a cura di), cit.: 50.
[8] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 19924.
[9] G. Vattimo, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002:123.
[10] L’incompatibilità tra la tecnica dogmatica “dominatrice” e l’esperienza di fede ecclesiale è esplicitata nel suo scritto Ermenétique et théologie, in Revue des Sciences Religieuses 51 (1977).
[11] Cfr. G. Vattimo, in S. Zabala (a cura di), cit.: 54.
[12] M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con ‘lo Spiegel’, Guanda, Parma 1987: 136.
[13] A. Torno (a cura di), Ponzio Pilato. Che cos’è la verità? Con un intervento di Massimo Cacciari, Bompiani, Milano 2007: 30-31.
[14] Cfr. H. G. Gadamer, L’attualità del bello, Marietti, Genova 1996: 34.
[15] Cfr. G. De Gennaro, Emmanuel Levinas profeta della modernità, Macond Libri, Roma 2001: 52-55.
[16] G. Vattimo, in S. Zabala (a cura di), cit.: 54.
[17] https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/10/04/0627/01342.html
[18] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-10/papa-francesco-discorso-parlamentari-italia-cop26-clima-ecologia.html
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).
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