Ad oggi, secondo i dati dell’UNHCR risultano essere arrivati sulle coste italiane attraverso la rotta mediterranea, dal 1 dicembre 2016, 158.062 persone contro le 153.842 del 2015. Il Ministero dell’Interno al termine del 2015, nel piano di accoglienza 2016, per la coordinazione nazionale del fenomeno aveva previsto che per l’anno corrente, sarebbe arrivato un numero stimabile intorno alle 170mila unità, una cifra prossima a quella del 2014.
Coerentemente con quanto previsto, sono state attuate le misure riportate nella Roadmap (2015) e ampliati i posti per la seconda accoglienza, ma nonostante questo, la misura più massiccia che viene messa in atto, per far fronte all’aumento degli afflussi di cittadini stranieri sul territorio italiano, è quella di aumentare le strutture temporanee, perpetuando la logica dell’emergenzialità.
«Il percorso di implementazione del sistema SPRAR di questi ultimi anni rappresenta il considerevole sforzo anche economico che l’Italia ha profuso passando dai 3.000 posti nel 2012 ai 9.400 nel 2013, ai 19.600 nel 2014, fino ai 22.000 nel 2015, confermato dall’ultimo avviso pubblico straordinario per conseguire la disponibilità immediata di ulteriori 10.000 posti e quindi raggiungere la capacità complessiva di 32.000 posti nei primi mesi del 2016» (Ministero dell’Interno, 2016: 22)
«Nonostante l’intervenuto ampliamento dei posti disponibili nei centri di prima accoglienza e nella rete SPRAR, l’elevato numero di richiedenti asilo aventi diritto all’accoglienza rende ancora necessario mantenere l’operatività di quelli temporanei attivati dai Prefetti ai sensi dell’art. 11 d.lgs. n. 142/15 (comunemente denominati Centri di Accoglienza Straordinaria – CAS). Il sistema composto da dette strutture ha incrementato la capacità da 35.011 posti al 31 dicembre 2014, a 76.683 posti al 31 dicembre 2015» (Ministero dell’Interno, 2016: 23-24). Già nell’ottobre del 2015 su 99.096 persone destinate ad un posto nell’accoglienza italiana, il 72% viene collocato alle strutture temporanee distribuite nelle diverse regioni (Ministero dell’Interno 2015: 29).
Il Ministero dell’Interno ha stimato per il 2015 un costo totale di 1.162 milioni di euro per il mantenimento del sistema di accoglienza. La spesa totale è ripartita tra i costi delle strutture governative (CARA, CDA, CPSA) e temporanee (948.5 milioni di euro) e quelli relativi ai centri SPRAR (242.5 milioni). La previsione è stata fatta considerando per i primi tipi di strutture 30-35 euro pro-capite giornalieri, mentre per gli SPRAR 35 euro (Ministero dell’interno, ottobre 2015: 52-53).
È evidente che attualmente nel sistema di accoglienza nazionale hanno centralità le strutture temporanee, per numero sul territorio, per la capienza e per i costi che sono sostenuti per il loro mantenimento. Per capire meglio la natura di questi centri tentiamo di ripercorrere quando, come e con quali strumenti legislativi nascono; l’obiettivo per cui si ritiene siano necessari; il canale di urgenza in cui sono pensati e la loro proliferazione sul territorio nazionale. Inoltre tenteremo di individuare le responsabilità degli attori che entrano in gioco nella realizzazione di questo sub-sistema di accoglienza e le conseguenze pratiche che hanno sul territorio, sugli attori locali e, necessariamente, sulla vita degli immigrati che, non avendo posto nel sistema di accoglienza ordinaria, vengono inseriti nel sistema dei centri temporanei.
La zona opaca dei centri temporanei: i Cas (Centri di accoglienza straordinaria)
Nella logica dell’emergenzialità, per far fronte all’ ingente “afflusso di cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale” (Oggetto delle circolari ministeriali che saranno citate in seguito) e all’individuazione di strutture di accoglienza, il Ministero dell’Interno ricorre ad un’operatività rapida ed esemplificata: l’emanazione di atti amministrativi. Il piano straordinario prende avvio nel gennaio 2014, con le circolari ministeriali del 08.01.2014 e del 19.03.2014 con le quali il Ministero dell’Interno dispone alle Prefetture di individuare, sui propri territori di amministrazione, delle strutture da destinare all’ “accoglienza degli stranieri”.
Nelle circolari si spiega brevemente quali servizi dovrebbero essere offerti dagli affidatari: alloggio, vitto, gestione amministrativa degli ospiti, assistenza generica alla persona compresa la mediazione linguistica, l’informazione, l’assistenza alla formalizzazione della richiesta di protezione internazionale, il servizio di pulizia, la fornitura di biancheria e abbigliamento adeguato alle stagioni, prodotti per l’igiene, pocket money (2,50 €) e una tessera di ricarica telefonica all’arrivo. L’importo massimo per la gestione è specificato essere di 30 euro pro-die/pro-capite oltre iva.
La Prefettura, dopo aver valutato tempestivamente se il luogo proposto da pubblici o privati è idoneo e il personale proposto dall’ente gestore è competente, sottoscrive una convenzione con quest’ultimo. Nella circolare di marzo è allegato il modello di convenzione che le Prefetture stipulano con i nuovi gestori di strutture temporanee. L’atto, emulando con tecnica redazionale quella delle leggi, si svolge in articoli e riporta quanto suddetto. All’art. 4, però, si precisa quanto segue: “Il Ministero dell’Interno e la Prefettura – UTG sono esonerati da qualsiasi responsabilità derivante da eventuali danni alle persone ed alle cose che dovessero verificarsi durante l’esecuzione delle prestazioni oggetto della presente convenzione”.
La verità è che «le circolari – contrariamente a quanto spesso si afferma – non sono strumenti che uniformano le prassi amministrative. Al contrario, e specie nel settore dell’immigrazione, esse contribuiscono a creare spazi di discrezionalità». (Gjergji, 2013: 119). Nella realizzazione e creazione di questo sub-sistema di accoglienza, che nasce attraverso molteplici circolari ministeriali, prendono parte il Ministero dell’Interno, le Prefetture e gli attori privati che operano nel sociale, enti locali, anche associati. La cessione dei compiti di gestione dal vertice alla base (Ministero, Prefetture e Enti locali) in una logica di perenne emergenza, trasforma la diffusione delle responsabilità nella sua quasi dissoluzione.
Considerando che l’obiettivo dell’apertura di questi centri è l’individuazione immediata di posti in cui inserire i nuovi arrivi, risulta difficile che la Prefettura individui un servizio di qualità in tempi così rapidi. Anche perché, ad eccezione dei servizi che devono essere necessariamente offerti, spiegati all’interno delle circolari con estrema generalità, in questo tipo di centri non è richiesta per gli operatori alcuna competenza specifica. La formazione che eventualmente viene fornita agli operatori è anch’essa affidata alla discrezione del gestore.
Dunque, il Ministero dell’Interno e la Prefettura si assolvono da qualunque danno sia apportato a beni o persone in caso di un accordo con qualche ente che mal gestisce il centro. Il gestore a sua volta attribuirà ogni responsabilità al Ministero, giustificando anche con i beneficiari dell’accoglienza scelte discrezionali e potenziali mal funzionamenti.
Il piano di assegnazione viene ulteriormente ampliato con le circolari n.14100/127 (aprile 2014 – circa 3500 posti), n. 11225 (settembre 2014 – circa 18 mila nuovi posti) e altre circolari di difficile reperibilità. L’ampliamento dei posti nell’accoglienza, iniziato con atti amministrativi, è inserito nella nostra normativa vigente con il d.lgs n. 142/2015, in cui si esplicano le misure straordinarie di accoglienza. L’art.11 co.1 infatti riporta che “Nel caso in cui è temporaneamente esaurita la disponibilità di posti all’interno delle strutture di cui agli articoli 9 e 14, a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti, l’accoglienza può essere disposta dal Prefetto, sentito il dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, in strutture temporanee, appositamente allestite, previa valutazione delle condizioni di salute del richiedente, anche al fine di accertare la sussistenza di esigenze particolari di accoglienza”.
I centri di permanenza temporanea divengono nella prassi parte strutturale del sistema di accoglienza. Secondo l’art. 11.co 3 (D.Lgs n. 142/2015), la durata di permanenza in questo tipo di strutture dovrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture governative o SPRAR. Nella pratica, però, la permanenza dei richiedenti in queste strutture può anche superare i dodici mesi.
Nonostante i CAS siano la gran parte delle strutture attuali in Italia destinate all’accoglienza, come sostiene la campagna InCAStrati, per questo tipo di centri non esiste alcun tipo di trasparenza né per quanto riguarda la loro ubicazione, né per quanto attiene la gestione, né sui finanziamenti, né sugli affidamenti, né sugli standard di erogazione del servizio previsto dalle convenzioni e capitolati di appalto. Non è un caso forse che all’interno del già nebbioso sistema di accoglienza, queste zone più che opache dei CAS nascano e si proliferino negli ultimi anni attraverso le circolari che non sono fonte di diritto, bensì una zona di «infra-diritto» (Gjergji, 2013: 114), qualcosa che vive e abita negli ambigui interstizi del sistema normativo.
I controlli da parte delle Prefetture possono essere fatti in qualunque momento con i propri mezzi (circolare ministeriale19/03/2014). Di fatto quello che si riscontra è che questo tipo di monitoraggio è attivato dagli uffici territoriali del governo solo in caso di segnalazioni, lasciando così libero arbitrio su decisioni e modalità di gestione agli enti che hanno sottoscritto la convenzione. «La scelta della gestione emergenziale consente spesso di scavalcare regole e procedure ordinarie nell’affidamento dei servizi, rende totalmente opaca la assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici, abbassa il livello dei controlli pubblici sulla realizzazione degli interventi rivolti ai migranti, produce sacche di speculazione privata e terreno fertile per infiltrazioni criminali» (InCAStrati, 2016: 28).
A livello micro, questi tipi di centri si presentano come territori di potenziale conflitto sociale basato sui rapporti di forza e potere stratificati, connessi ai ruoli impersonati nell’accoglienza (richiedenti asilo, operatori, gestori), il cui mantenimento sembra poggiare su una diffusione e polverizzazione estrema delle responsabilità, sul ricatto implicito o esplicito, verbale e non. Questo tipo di convivenza è pervasa da violenza, tensioni e accettazioni, concessioni e resistenze, trasformando questi luoghi in spazi di pacifica e debole convivenza allo stadio appena antecedente lo scoppio di un possibile conflitto.
È da chiedersi allora a cosa serva l’esistenza di questi luoghi. La risposta sembra imprescindibile dal sistema macro socio-economico. La permanenza di questi centri, come molti studi sostengono, assume un ruolo estremamente funzionale al mantenimento del nostro sistema socio-economico. A livello economico locale, la presenza dei centri di accoglienza, in questo momento storico di profonda crisi lavorativa, è funzionale prima di tutto perché fornisce un significativo contributo in termini occupazionali per gli autoctoni. Nei CAS non sono specificati requisiti minimi per le figure lavorative, specialmente per gli operatori sociali. Se allarghiamo lo sguardo le opportunità lavorative tra occupazioni formali e informali si ampliano esponenzialmente. Tra queste occupazioni vediamo: i servizi di catering, i fruitori di servizi socio-sanitari, gli avvocati, i commissari, chi redige contratti fasulli per le residenze fittizie o per finti lavori da portare nelle Commissioni per testimoniare il buon inserimento dell’immigrato nel tessuto sociale e molte altre figure lavorative che ruotano attorno al funzionamento dei Centri di accoglienza. Non a caso è percepibile anche dalla cittadinanza un sentimento contrastante nei confronti della presenza degli immigrati sul proprio territorio. È infatti diffuso tra i locali un sentimento di rigetto, contrastato però dall’idea che comunque lo stesso insediamento dei cittadini stranieri produce lavoro a tutti gli effetti.
Per quanto riguarda gli immigrati, bisognosi, come gli autoctoni, di lavoro, subalterni sostanzialmente e formalmente, sono pressoché obbligati a fare la scelta di inserirsi nei settori produttivi, specialmente quello agricolo ed edile, come forza-lavoro a basso costo, iper-flessibile e iper-adattabile (Castronovo, 2013) e anzi appare chiaro come il sistema di accoglienza dei cittadini stranieri non solo non si sottragga alla logica della svalorizzazione della forza-lavoro straniera, ma contribuisca ad irrobustirne le fondamenta (Gjergji, 2006: 107).
Anche a livello sociale, questi centri sembrano assumere ancora un ruolo funzionale, come scuole di asservimento e di indottrinamento in cui gli immigrati apprendono che ciò che perseguono e necessitano (dall’ottenimento di un’identità formale e sostanziale a qualunque tipo di servizio) non è che una benevola concessione occidentale dovuta al buon comportamento e all’acquisizione di buone prassi. Il buon immigrato è proprio quello invisibile che contribuisce nelle sfere più basse al mantenimento del nostro sistema capitalistico e ringrazia quando ottiene qualunque cosa gli sia concessa perché accetta che di diritto non gli spetta niente. Di fatto, gli attori che con la loro scelta/non scelta di partecipazione al sistema temporaneo dell’accoglienza, contribuiscono direttamente o indirettamente alla sua esistenza, trovano questo tipo di centri funzionali alla loro sopravvivenza.
È appena il caso di precisare che in tutto questo lo Stato ha un’enorme responsabilità, dal momento che i meccanismi adoperati per la creazione del sistema di accoglienza straordinaria sembrano anziché casuali, piuttosto intenzionali e funzionali. Delegando l’operato e lasciando ampia discrezionalità di azione senza alcun monitoraggio agli enti locali, in pratica lo Stato è complice, mallevadore e garante della qualità dei servizi e anche, di conseguenza, del loro eventuale mal funzionamento. Le cooperative che rispondono ai bandi sono potenzialmente imprese ad alto tasso di profitto. Se l’obiettivo dell’operato di questi enti non è quello di fornire un buon servizio e contribuire all’inserimento sociale degli stranieri, ma piuttosto quello del profitto fine a se stesso, l’obiettivo a breve termine diventa il mantenimento delle istituzioni e dei centri che propongono. In questo senso, le cooperative di questo genere non sono altro che risposte distorte e devianti a livello locale a patologie sistemiche come la disoccupazione o i conflitti interetnici, o come la necessità di un ribasso del costo del lavoro per il mantenimento del sistema economico.
Così quando la cronaca ci informa su un caso di cattiva gestione, la colpa non è mai del sistema o delle istituzioni quanto piuttosto la si circoscrive alla località in cui si trovava il centro, alla cooperativa gestionale, ai propri operatori, alla loro scarsa umanità o alla loro totale incompetenza. I riflettori sono puntati a livello locale, generano stupore effimero e superficiale fino a spegnersi nell’idea che è un caso marginale o comunque qualcosa di cui non stupirsi. I riflettori non sono mai rivolti verso l’alto. Invece è il sistema stesso che permette che questo si realizzi e divenga normalizzato perché funzionale al mantenimento di una pace sociale apparente e alla sussistenza della nostra economia, nazionale e internazionale.
Specialmente gli ultimi strati del sistema, operatori e rifugiati, entrambi sottoposti a diversi tipi di ricatto, sono forse quelli che contribuiscono di più al suo mantenimento. Apprendono in questi luoghi il silenzio, l’omertà, la convivenza tradotta in connivenza. Così la criminalità locale copre quella statale da cui parte intenzionalmente la delega alle cooperative complici e poi agli operatori. Gli immigrati – così odiati da quanti vorrebbero la loro espulsione o almeno la loro esclusione da ogni forma di accoglienza – costituiscono paradossalmente un’opportunità unica e funzionale di guadagno per tutti i livelli sistemici. Se queste due categorie sociali, operatori e rifugiati, in una logica strutturale, si guardassero veramente negli occhi e capissero di star giocando nella stessa metà di campo, allora forse la partita potrebbe essere riaperta.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Riferimenti bibliografici
Castronovo A. E., Vivere al confine. Segregazione e lavoro dei richiedenti asilo nel CARA di Mineo in Cusumano A. (a cura di), Dialoghi Mediterranei. Antropologia delle migrazioni , Istituto Euro-arabo, Mazara del Vallo, 2016: 27-36.
Gjergji I., Espulsione, trattenimento, disciplinamento. Il ruolo dei Cpt nella gestione della forza lavoro clandestina “DEP – Deportate, esuli, profughi. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile” n. 5-6 / 2006.
Gjergji I., Circolari amministrative e immigrazione, FrancoAngeli, Milano 2013.
InCAStrati, Iniziative civiche sulla gestione dei centri di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo, Cittadinanzattiva, LasciateCIEntrare, Libera, febbraio 2016.
Ministero dell’Interno, Piano Accoglienza 2016, Tavolo di Coordinamento Nazionale.
Ministero dell’interno, Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia. Aspetti, procedure, problemi, ottobre 2015.
http://data.unhcr.org/mediterranea
http://wwnw.prefettura.it/trapani
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Carolina Galli, laureata in Sviluppo economico, cooperazione internazionale socio-sanitaria e gestione dei conflitti presso l’Università degli studi di Firenze, ha recentemente completato il Master in Immigrazione, fenomeni migratori e trasformazioni sociali presso l’Università Cà Foscari Venezia. Durante gli studi ha conseguito esperienze di volontariato e tirocinio presso il Centro Regionale interculturale “Anelli Mancanti Onlus” (Firenze), “Help refugees in Gaziantep” (Turchia), e presso un Centro di Accoglienza Straordinaria a Mazara del Vallo. Frequenta la laurea magistrale in Lavoro, cittadinanza sociale e interculturalità presso l’Università di Cà Foscari a Venezia.
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