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Il Taʽziye-xwāni iraniano e la “Dimostranza” di San Ciro a Marineo

 Kārvān. Qom, 1 agosto 2022 [3 muḥarram 1444] (ph. Salvatore Amenta)


Kārvān, Qom, 1 agosto 2022 [3 muḥarram 1444] (ph. Salvatore Amenta)

di Salvatore Amenta 

L’Islam, come ogni religione, ha una dimensione esteriore e una interiore, la legge e la via. Nella bilancia tra essoterismo ed esoterismo, lo sciismo, come il taṣawwuf, lascia pendere l’ago verso il secondo (Nasr, 2015, 147-175). Se l’ortoprassi è di per sé sufficiente alla salvezza [1], essa non rende la fede completa. Il taʽziye è la manifestazione esteriore di una verità profonda.

Il taʽziye-xwāni (o šabih-xwāni) rientra, senza dubbio alcuno, tra le manifestazioni più vistose, e dunque di superficie, dell’Islam sciita. Unica forma di dramma serio sviluppatasi in seno all’Islam (Chelkowski, 2009), per le caratteristiche di cui sopra e per la facilità con cui ha impressionato i viaggiatori europei, il taʽziye, così come, in generale, i riti collettivi che concorrono a delineare quella che Bausani chiama la «festa di Husain» (Bausani, 2017: 426 e ss.), è stato abbondantemente e ampiamente descritto nella letteratura scientifica europea e americana e continua a suscitare interesse, per quanto poco noto al grande pubblico.

A metà del secolo scorso, Bahram Beyzaì, nel suo Namāyeš dar Irān, diede di questo genere teatrale la descrizione di uno spettacolo in pericolo critico di estinzione (Beyzaì, 2020: 206-207) [2]. La lettura del volume Taʻziyeh: Ritual and Drama in Iran, a cura di Peter J. Chelkowski, del decennio successivo, lasciava scorgere uno scenario non dissimile, e a essi si accompagna la più recente opera con intenti sistematori di Willem Floor, The History of Theater in Iran, che ha il pregio di riportare, in prospettiva diacronica, una vasta selezione di testimonianze dirette, antiche e moderne.

dimostranzaAltra espressione del sentimento devozionale, la “dimostranza” tenuta in onore di San Ciro nel paese di Marineo, di cui è patrono, è un dramma sacro itinerante che, storicamente a cadenza irregolare, si svolge per le vie del centro abitato. Un confronto tra le due manifestazioni, di primo acchito azzardato, mette in luce, invece, delle convergenze nelle modalità rappresentative di certo interesse, similarità che si ritiene potrebbero derivare, se non da una linea di sviluppo affine, da una medesima dimensione sociale.

La prima parte di questo contributo delineerà dunque l’evoluzione del taʽziye-xwāni a partire dai riti collettivi del mese di muḥarram, nel cui seno si situa la nascita e, prima che se ne affrancasse, la ragion d’essere, facendo ricorso alle fonti in lingua araba. Si affronterà altresì l’origine della devozione popolare nei confronti di San Ciro in Marineo. Nella seconda parte si opererà invece un confronto, che si spera fruttuoso, tra alcune delle caratteristiche del taʽziye e della “Dimostranza”, evidenziandone i punti d’incontro. 

 Taʽziye-ye Ḥażrat-e ʽAbbās, l’imam Ḥusayn interloquisce con ʽAbbās in presenza delle donne della Casa. Qom, 7 luglio 2022 (7 ḏū al-ḥiǧǧa 1443) ph. Savatore Amenta).


Taʽziye-ye Ḥażrat-e ʽAbbās, l’imam Ḥusayn interloquisce con ʽAbbās in presenza delle donne della Casa, Qom, 7 luglio 2022 [7 ḏū al-ḥigga 1443] (ph. Salvatore Amenta)

Delle origini del taʽziye 

Sulle origini del taʽziye si è scritto lungamente. La letteratura è quasi all’unanimità concorde nell’affermare l’origine autoctona di questo genere teatrale [3], ponendola al termine di un lento processo di incubazione e trasformazione durato sette secoli in seno ai riti collettivi di cordoglio in ricordo del martirio dell’imam Ḥusayn a Karbalā’ nell’anno 61 dall’Egira (680 d.C.).

Il primo a far cenno a tali manifestazioni è lo storico Ibn Kaṯīr (1300 circa – 1373) nell’opera Al-Bidāya wa al-nihāya, nella quale riporta che nell’anno 352H (963) il «tutore» del califfo, il «principe» (amīr al-umarā’) buyide Muʽizz al-Dawla Aḥmad ibn Buwayh (Būyah), diede ordine che durante i primi dieci giorni del mese di muḥarram, nella capitale Baghdad, «delle prèfiche vagassero per la città, e si impiantassero dei padiglioni per i culti funebri in nome di Husain […], che i bazar fossero chiusi e il popolo indossasse abiti neri per le recitazioni in onore del Principe dei Martiri […] alle quali era obbligato a presenziare» (Bausani, 2017: 462). Scrive Ibn Kaṯīr: 

«Ṯumma daḫalat sanat iṯnatayn wa ḫamsīn wa ṯalāṯimi’a. Fī ʽāšir al-muḥarram min hāḏā al-sana amara Muʽizz al-Dawla ibn Buwayh qabbaḥahu Allāh an tuġlaqa al-aswāq wa an yalbasa al-nisā’ al-musūḥ min al-šaʽr wa an yaḫruǧna fī al-aswāq ḥāsirāt min wuǧūhi-hinna, nāširāt šuʽūri-hinna wa yalṭimna wuǧūha-hunna yanuḥna ʽalā al-Ḥusayn ibn ʽAlī ibn Abī Ṭālib, wa lam yumkin Ahl al-sunna maʽn ḏālika li-kaṯrat al-Šīʽa wa ḏ̣uhūri-him, wa kawn al-Sulṭān maʽa-hum» (Ibn Kaṯīr, 1426, IV, 117) [4]. 

Completa dunque il quadro facendo seguire la descrizione dei primi, gioiosi, festeggiamenti pubblici di ʽĪd al-Ġadīr, definiti dall’autore «bidʽa šanīʽa ḏ̣āhira munkara» («un’innovazione manifesta, orrenda e detestabile»): 

«Fī ʽašar ḏī al-ḥiǧǧa min-hā amara Muʽizz al-Dawla ibn Buwayh bi-iḏ̣hār al-zīna fī Baġdād wa an tuftaḥa al-aswāq bi-al-layl kamā fī al-aʽyād, wa an tuḍraba al-dabādib wa al-būqāt, wa an tušʽala al-nīrān fī abwāb al-umarā’ wa ʽinda al-šurṭ, fariḥan bi-ʽĪd Ġadīr – Ġadīr Ḫumm – fa-kāna waqtan ʽaǧīban mašhūdan, wa bidʽa šanīʽa ḏ̣āhira munkara» (Ibn Kaṯīr, 1426, IV, 117) [5]. 

Per l’anno successivo, il 353H (964), non manca di segnalare la pronta reazione dei sunniti di Baghdad: 

«Ṯumma daḫalat sanat ṯalāṯ wa ḫamsīn wa ṯalāṯimi’a. Fī ʽāšir al-muḥarram min-hā ʽamilat al-Rāfiḍa ʽazā’ al-Ḥusayn kamā taqaddama fī al-sana al-māḍiyya fa-iqtatala al-Rawāfiḍ wa Ahl al-sunna fī hāḏā al-yawm qitālan šadīdan, wa untuhibat al-amwāl» (Ibn Kaṯīr, 1426, IV, 126) [6]. 

Curiosa e degna di nota – e con quest’ultima citazione ci si congederà da Ibn Kaṯīr, nonostante egli continui quasi anno per anno, fino al termine del periodo buyide (447H/1055), a riportare tali avvenimenti [7] – anche la piega quasi teatrale presa, nell’anno 363H (974), dalla risposta sunnita alle processioni di ʽĀšūrā’: 

«Ṯumma daḫalat sanat ṯalāṯ wa sittīn wa ṯalāṯimi’a. Fī-hā fī ʽĀšūrā’ ʽumilat al-bidʽa al-šanʽā’ ʽalā ʽādat al-Rawāfiḍ, wa waqaʽat fitna ʽaḏ̣īma bi-Baġdād bayna Ahl al-sunna wa al-Rawāfiḍ, kilā al-farīqayn qalīl ʽaql aw ʽadīmuhu, baʽīd ʽan al-sadād, wa ḏālika an ǧamāʽa min Ahl al-sunna arkabū imra’a wa sammū-hā ʽĀ’iša, wa tasammā baʽḍu-hum Ṭalḥa, wa baʽḍu-hum bi-al-Zubayr, wa qālū: nuqātilu aṣḥāb ʽAlī, fa-qutila bi-sabab ḏālika min al-farīqayn ḫalq kaṯīr, wa ʽāṯa al-ʽAyyārūn fī al-balad fasādan, wa nuhibat al-amwāl, ṯumma aḫaḏa ǧamāʽa min-hum fa-qatalū wa ṣalubū fa-sakanat al-fitna» (Ibn Kaṯīr, 1426, IV, 147-148) [8]. 
Rowże-xwāni. Qom, 9 luglio 2022 (9 ḏū al-ḥiǧǧa 1443). Foto dell’autore.

Rowże-xwāni, Qom, 9 luglio 2022 [9 ḏū al-ḥigga 1443](ph. Salvatore Amenta)

Studiosi del calibro di Bausani (Bausani, 2017: 419-421) e Yarshater (Yarshater, 1979: 88-94) hanno messo in relazione queste manifestazioni con antichi rituali pubblici di cordoglio precedenti alla riforma operata dallo zoroastrismo, diffusi, in particolar modo, nell’Asia centrale iranica (Khorasan, Tansoxiana, Sogdiana, Corasmia) [9], che nelle regioni di Samarcanda (almeno sino al VII secolo [10]) e di Bukhara (X secolo [11]) sarebbero sopravvissuti alla propagazione dell’Islam. Nello specifico, gli studi rimandano al ciclo di Siyāvoš. Se non esistono documenti provanti che tale materiale mitico possa aver influenzato gli aspetti della cultualità sciita in questione, in assenza altresì di prove in senso contrario, ciò non è del tutto da escludere, per quanto qualsiasi tipo di affermazione non possa discostarsi dall’alveo della congetturalità.

Tenendo conto di ciò, dunque, sembrerebbe che il taʽziye-xwāni in quanto forma teatrale, o rituale teatralizzato, abbia avuto origine a partire dalle processioni (daste) di commemorazione del terzo imam. L’evoluzione parallela rispetto a quanto accaduto nella storia del teatro occidentale è senza dubbio affascinante. Sarebbe facile e immediato scomodare la Poetica dello Stagirita [12], ma è più stuzzicante constatare quanto tale processo si accosti a ciò che è avvenuto nel comune di Marineo, in provincia di Palermo, in tempi recenti e in una terra avvezza, da almeno un secolo, alla drammatizzazione [13], secondo quanto documentato da Pitrè (Pitrè, 1979: 131-139).

Dimostranza di Marineo, anni 30

Dimostranza di Marineo, anni 30

Riporta Pitrè che la festa di San Ciro, martire e patrono di Marineo, era caratterizzata da tre momenti, quello delle due processioni, del carro, e – ed è qui elemento di interesse – della “dimostranza”: «Dimustranzi erano anche quelle [processioni [14]] che si facevano in Marineo in onore del patrono principale S. Ciro martire, che ricorre la penultima Domenica di Agosto. Si rappresentava, come è solito, la vita del santo: e persone che furono presenti agli ultimi spettacoli [15] affermano che i personaggi a quando a quando parlavano» (Pitrè, 1980: 98).

La “Dimostranza”, nata come mera processione nel XVII secolo, avrebbe visto introdotti nella seconda metà del XVIII secolo i primi dialoghi, in un momento comunque successivo a quello in cui la processione conobbe la presenza di tableaux vivants e figuranti (Benanti, Spataro, 1985: 93; La Spina, 1976: 19). Ebbe in quel momento avvio il processo di differenziazione tra i due riti, processione e “dimostranza”, che sussistono tuttora separati.

Anche per il taʽziye il passaggio dalla raffigurazione alla rappresentazione, con la comparsa del dialogo, sarebbe avvenuto all’interno della cornice delle processioni, secondo quanto ipotizza Chelkowski, che ne ricostruisce le fasi: il taʽziye-xwāni, in quanto forma di teatro rituale, dovrebbe aver avuto origine dalla fusione dei riti ambulatoriali (daste, kārvān) e di quelli stazionari (in primis il rowże-xwāni, lamentazione pubblica, lettura o recitazione, spesso salmodiata, sulla vita e, soprattutto, la morte dei martiri della «Gente della Casa») (Chelkowski, 2009). Tra il XVI e il XVIII secolo, l’aumento del numero di partecipanti in costume, figuranti personaggi ed episodi della battaglia di Karbalā’ in cui l’Imam andò incontrò al martirio, favorì o ispirò l’inserzione all’interno delle processioni di tableaux vivants collocati su carri e piattaforme dotate di ruote. Se ne trova una descrizione in un resoconto della prima metà del secolo XVIII: 

«Outstanding in the large public processions are the big theatrically arranged wagons showing scenes of his [dell’imam Ḥusayn] life and his deeds, his battles and his death. These wagons are often pulled about accompanied by people, in armor, flags, and emblems of war of victory, depicting some of Hussein’s deeds. For example, a wagon representing the death of Hussein has a deck-like cover coated with sand to represent the arid battlefield. Underneath people are lying thrusting their heads, arms and hands through holes in the cover so they will lie on the sand above to appear as dismembered limbs sprinkled with blood or red paint and colored with deathly pallor so as to look most natural. Hussein, pallid and bloody, is lying on the other wagon. […] After a while, the men under the cover release their bonds, two at a time, so that they can “fly to Medina” to announce Hussein’s death to his sister» (Chelkowski, 2009). 
Bazar addobbato a lutto. Qom, 30 luglio 2022 (1 muḥarram 1444). Foto dell’autore.

Bazar addobbato a lutto, Qom, 30 luglio 2022 [1 muḥarram 1444] (ph. Salvatore Amenta)

I tableaux vivants (performance e non ancora teatro, secondo la terminologia moderna) si sarebbero ulteriormente evoluti in quello che Chelkowski chiama «processional taʽzia» [16] e, in seguito, sul finire del XVIII secolo, nel taʽziye vero e proprio, allorquando «the costumed marchers of the dasta began to recite the stories of the rowże-xwāni. The story lines of the rowże-xwāni were converted into the dramatic texts of the taʽzia. The movement of parade was changed into the motions of the actors; the parade costumes became stage costumes» (Chelkowski, 2009). In quest’ottica, la “dimostranza” risulta più affine, piuttosto che al taʽziye-xwāni tout court. al taʽziye-kārvāni descritto nella testimonianza precedente o – soprattutto – al taʽziye-dowre, il «taʽziye a rotazione», in cui diversi gruppi, indipendenti l’uno dall’altro, si alternavano su più saku (podio, palco rialzato), passando al saku successivo una volta terminata la rappresentazione del proprio episodio e a intervalli tali da permettere al pubblico di assistere all’intera storia senza spostamenti (Beyzaì, 2022: 179).

In entrambi i casi, è stato determinante un incentivo dall’alto. È noto il modo in cui operò la monarchia safavide sin dalla sua affermazione, nel 1501, incentivando la diffusione dello sciismo di tipo imamita, da un lato, incrementando la presenza di quḍāt e ʽulamāʼ, fatti venire dal Ǧabal ʽĀmil, nel Libano, e promuovendo la produzione di opere panegiristico-agiografiche in lode degli alidi; per diffondere la nuova fede tra la popolazione, attraverso la capillarizzazione dell’opera di predicatori e rowże-xwānān, nonché la spettacolarizzazione dei riti di muḥarram, in massimo modo nella capitale Isfahan. Il tutto, verosimilmente, in chiave anti-ottomana.

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La Dimostranza a Marineo, anni 70

Nel caso di Marineo, la concessione della reliquia del teschio di San Ciro da parte di papa Alessandro VII dietro petizione del marchese Girolamo Pilo Bologni, nell’aprile del 1665, giunta a destinazione il 20 agosto, pose il problema di far conoscere alla popolazione la vita del medico alessandrino, appena proclamato patrono e protettore della cittadina [17], il che dovrebbe rendere plausibile l’ipotesi che pone l’inizio delle manifestazioni in quello stesso anno di arrivo (Benanti, Spataro, 1985: 93).  Il nome della “dimostranza” sarebbe perciò legato allo scopo stesso dello spettacolo, quello di «dimostrare» ai marinesi la vita del santo al fine di agevolarne la sostituzione in qualità di patrono al precedente protettore del paese, San Giorgio: «un espediente didattico, semplice e immediato, che promuovesse il culto di San Ciro coinvolgendo tutti i fedeli alla sua esperienza umana» (Benanti, Di Sclafani, Spataro, 1997: 21). 

La Dimostranza a Marineo, anni 80

La Dimostranza a Marineo, anni 80

Taʽziye e “Dimostranza” a confronto: i luoghi della rappresentazione 

Fulchignoni ha già messo in correlazione lo spazio rappresentativo prevalentemente circolare dei drammi sacri e dei misteri europei e il saku (o, per sineddoche, taxt, in particolar modo nei takiye temporanei) del taʽziye (Fulchignoni, 1979: 131-136). In entrambi i casi, si tratta (o trattava) spesso di un ampio spazio pubblico con al centro una piattaforma circolare rialzata rispetto al livello stradale in modo da accrescere la visibilità degli attori, con gli spettatori che si raccolgono numerosi intorno ad essa.

Rey-Flaud, a proposito del teatro europeo, ha evidenziato come la forma «accerchiante» dello spazio drammatico costituisse uno spazio «per una forma drammatica magica, nella quale tutti i partecipanti comunicavano nella ricerca di un disegno così totale da sfidare le definizioni e mettere in discussione il teatro stesso. In tal modo il Cerchio dei Misteri ricreerebbe il Cerchio Magico» nel tentativo di ricomporre le disarmonie «di un mondo intero che si volgeva verso le età che lo fondavano e i miti che lo garantivano» (Alonge, Perrelli, 2019: 52).

Al centro del luogo prescelto, che può trattarsi sia dell’interno di un edificio apposito (takiye) o prestatosi per l’occasione (ḥoseyniye e spazi affini), sia di un’area pubblica, lo spazio scenico tipico di un taʽziye prevede il summenzionato saku, di forma circolare o poligonale, circondato a sua volta da un anello che funge da corridoio per gli spostamenti e da scena secondaria, per i combattimenti e, se a disposizione degli organizzatori, per il passaggio di animali. Ulteriori scene minori dal particolare valore simbolico (come, ad esempio, la tomba del Profeta in alcuni taʽziye del martirio di Fāṭeme Zahrā), se previste dalla fabula, si collocano ai margini dell’anello appena descritto. La proliferazione dei luoghi deputati nel taʽziye, tuttavia, non conobbe le dimensioni di quanto avvenuto nel teatro medioevale (Alonge, Perrelli, 2019: 45-46).

L’erezione di takiye stabili per le rappresentazioni conobbe grande diffusione in particolare nel secolo XIX. Al tempo della monarchia qājār (1796-1925), due terzi dei villaggi iraniani erano dotati di takiye stabili o temporanei, le città, in media, di quattro takiye stabili, mentre la sola Tehran ne annoverava quasi trenta (Beyzaì, 2022: 179) [18].

La natura itinerante della “dimostranza” e gli spostamenti di attori e, all’occorrenza, del pubblico che essa comporta rendono poco praticabile la costruzione di simili piattaforme a ogni stazione. La disposizione degli spettatori non è tuttavia dissimile da quella del taʽziye, prevedendo che si lasci al centro uno spazio adeguato alla rappresentazione, nei limiti della conformazione del luogo scelto per la sosta, che funge da scena, e gli astanti in circolo intorno agli attori [19]. Finestre e balconi delle abitazioni prospicienti lo spiazzo fungevano, a Marineo come in Iran, da luogo privilegiato di osservazione per gli spettatori di rilievo.

Nei secoli, i luoghi selezionati per la messa in scena dei quadri (o scene, circa venti ma di numero variabile, aumentati nel corso delle rappresentazioni) della “dimostranza” sono mutati con il variare dell’assetto urbanistico della cittadina e delle scelte degli organizzatori, ma ricalcando nella gran parte dei casi il medesimo percorso seguito dalla processione. Nemmeno il numero delle stazioni si è mantenuto fisso con gli anni, e, come se ciò non bastasse, secondo quanto scrive Francesco Sanfilippo, corrispondente da Marineo per il Corriere dell’Isola nel 1894, gli attori tendevano a dare avvio alla rappresentazione ovunque vi fosse un numero cospicuo di spettatori e non soltanto una volta giunti negli spazi designati. 

Taʽziye-ye Ḥażrat-e Qāsem, il giovane Qāsem. Qom, 5 agosto 2022 (7 muḥarram 1444). Foto dell’autore.

Taʽziye-ye Ḥażrat-e Qāsem, il giovane Qāsem, Qom, 5 agosto 2022 [7 muḥarram 1444] (ph. Salvatore Amenta)

Gli attori 

«La motivazione principale degli addetti ai lavori dei taʽzié era la convinzione di poter ottenere la benedizione divina, fondata su un grande sentimento di fede. I primi attori della storia del taʽzié furono tutti dilettanti e pur ricevendo dei doni in cambio delle loro prestazioni non erano mai loro stessi a pretenderli» (Beyzaì, 2022: 198). Del resto, il testo stesso di un taʽziye recita: 

Adamo          Che ingiustizia è questa? Dio è grande!
                     Ho un’altra domanda da farti: dimmi tu il vero!
Gabriele      Qual mai oggetto ti viene acconcio ora?
Adamo          Husain perché soffrirà tale ingiustizia?
Gabriele      Sappilo, è per la difesa degli sciiti.
Adamo          E Dio, qual generoso dono gli darà in cambio?
Gabriele      Intercessore della comunità diventerà domani.
Adamo          E quale comunità è questa, o luce dei miei occhi?
Gabriele      Qualsiasi persona che abbia pianto sul mio Husain!
Adamo          Ah, com’è bello il loro stato, la loro sorte!
Gabriele      Staranno tranquilli nel giardino di Rizvân.
Adamo          Quale dono, dimmi, darà loro Dio?
Gabriele      Il Paradiso eterno sarà la loro ricompensa
(Bausani, 2017: 448-449). 

Tutti gli attori, sia per i ruoli maschili che per quelli femminili, sono uomini [20]. Essi vengono selezionati anche per il loro aspetto, che deve confarsi al ruolo e alle aspettative del pubblico. Così, per esempio, Floor, citando Ṣadr-ol-Ašrāf: 

«The person playing Imam Hoseyn had to be a perfect man […] with an average beard, nice face, good-voiced, and his clothes and appearance had to be luminous and his voice and gestures had to suggest strength of spirit, courage, and bravery so that the injustice done to him to be obvious. His Brother ʽAbbas, also courageous, had to be a man of 20-30 years, very strong, handsome, well-limbed, sweet-voiced, chain-mailed on a strong horse and his bravery and courage compared with his older brother should be obvious, while a dried water skin should be on his back. ʽAli Akbar had to be about 18 years good looking, with a nice voice and he had to be grief-stricken and be able to project the ill-luck that befell his family» (Floor, 2005: 165). 

O Beyzaì, citando ʽAbdollāh Mostowfi: 

«Il shabìh dell’Imam deve essere di bell’aspetto, avere la barba lunga quattro dita e un’altezza media. ʽAbbâs ha la barba riccioluta, è alto con spalle larghe e fisico ben proporzionato. ʽAli Akbàr […] un giovane sui diciotto anni, Qâsem […] il viso simile ad ʽAlì Akbàr, ma più giovane di lui» (Beyzaì, 2022: 200). 
Daste. Qom, 8 agosto 2022 (10 muḥarram 1444). Foto dell’autore.

Daste, Qom, 8 agosto 2022 [10 muḥarram 1444] (ph. Salvatore Amenta)

Non si farà qui questione dello stile recitativo, per il quale si rimanda alle opere in bibliografia. A questo proposito, ci si limiterà a dire che, allorquando il genere acquistò una sua valenza, si avvertì il bisogno di un innalzamento della figura dell’attore, in virtù di un diverso peso dato alle abilità performative, venendosi a creare una tradizione artistica disgiunta da quella popolare, più spontanea e naïve.

Parimenti, la “dimostranza” di San Ciro «Non dentro i teatri, né da artisti drammatici si esegue, ma sulle pubbliche vie e sulle piazze da artigiani, da operai e da altra gente quasi sempre priva di istruzione, in abiti e costumi appropriati» (Pitrè, 1979: 136). In origine, tuttavia, a organizzare e prender parte alla sacra rappresentazione, a Marineo, sarebbero stati i ceti più abbienti. Sul finire del XIX secolo, «li jurnateri» esigettero e ottennero dai «civili» il diritto a prender parte ai riti, provocando l’allargamento del bacino dei partecipanti attivi con il conseguente coinvolgimento dei ceti popolari (Benanti, Di Sclafani, Spataro, 1997: 12). Ciò avrebbe comportato altresì mutamenti linguistici nel testo della stessa “dimostranza” e nei costumi.

In questa direzione anche Sanfilippo, che, basandosi su fonti orali, si sente sufficientemente sicuro nell’affermare che 

«Quei tempi [quelli delle prime “dimostranze”] però ch’erano più oscuri e l’istruzione meno larga, essa veniva rappresentata dalle persone più rispettabili del paese e da per sé pigliava una certa serietà; oggi invece che il progresso è latente, non ci concorrono che i contadini e gli operai, per istroppiare lingua, modi, usi, tutto, pur di vestirsi con l’imbuto in testa e la durlindana a lato e farsi ammirare dalle amorose» (Benanti, Spataro, 1985: 99). 

Gli abiti di scena 

Scrive Pitrè: 

«Una prima banda musicale apre il corteggio, che parte dalla strada del convento: e tu vedi muover lentamente, misuratamente pedoni e cavalieri, vecchi e fanciulli, soldati ed eremiti, angeli, demonî, virtù e vizî personificati, ed agitare elmi, cimieri, pennacchi e bracciali ed anelli e vesti fiammeggianti di ogni colore e di ogni stoffa. Se i costumi romani di venti secoli addietro si confondono coi costumi spagnuoli del Seicento ciò non importa. Importa bensì che si abbiano comparse, le quali si discostino dal vestire d’oggidì, e soprattutto che si ammirino tuniche, pallii, armature, spadoni, alabarde e tutto ciò che possa richiamare a tempi lontani ed a cose diverse dalle presenti. L’occhio è la finestra del cuore e della fantasia, e l’uno e l’altra sapranno, per essa, ravvicinare, interpretare, creare quel che manca o che si indovina appena» (Pitrè, 1979: 137-138). 
La Dimostranza a Marineo

La Dimostranza a Marineo

Emergono dunque due tendenze, quella all’alterità, data dai costumi romani, ma anche «arabi» o «egiziani», e quella al rispecchiamento degli spettatori nei personaggi attraverso l’utilizzo di abiti spagnoli, secenteschi, ossia contemporanei al sorgere delle rappresentazioni. Al tempo in cui scriveva Pitrè, anche i costumi spagnoli, conservatisi nell’uso senza che venissero sostituti man mano da abiti più familiari agli occhi degli osservatori coevi, dovevano costituire ormai un anacronismo, distante dalle intenzioni dei primi direttori e attori. Per tale motivo, Benanti, Di Sclafani e Spataro possono affermare che ciò «rappresenta una delle peculiarità della Dimostranza, sicuramente retaggio della tradizione, allorquando per fare emergere negli spettatori una determinata sensazione, si preferiva ricorrere, con l’uso di certi costumi, ad immagini o situazioni consuete, quotidiane, così da rendere palese il senso della narrazione» (Benanti, Di Sclafani, Spataro, 1997: 18). Così era un tempo possibile ammirare San Ciro che «come tutti i taumaturghi veste con zimmarra, cappello a cilindro e canna d’America col pomo d’argento», o un decurione romano vestito come un maresciallo di Francia (Benanti, Spataro, 1985: 113 e 116).

Il medesimo meccanismo viene sfruttato dal taʽziye, sebbene ciò avvenga oggi meno di frequente rispetto al secolo scorso. Il realismo veniva privilegiato a scapito dell’accuratezza storica, che non rientrava tra i parametri di scelta dei costumi: questi andavano bene purché fossero arabeggianti, o, meglio, rispecchiassero il modo in cui il pubblico pensava che gli abiti degli arabi del VII secolo dovessero sembrare. Lo scopo di tale fattura d’abiti era ed è quello di aiutare lo spettatore a riconoscere il ruolo interpretato dagli attori [21], e da ciò deriva anche la differenziazione cromatica tra owliyā, i protagonisti, in verde, e gli ašqiyā, gli antagonisti, in rosso (Chelkowski, 2009).

Flagellanti. Qom, 30 luglio 2022 (1 muḥarram 1443). Foto dell’autore.

Flagellanti, Qom, 30 luglio 2022 [1 muḥarram 1444] (ph. Salvatore Amenta)

Ancora a metà del secolo scorso poteva accadere che, per far sì che chi interpretava un ambasciatore «europeo» fosse immediatamente riconoscibile, non vi fosse scrupolo alcuno che impedisse al taʽziye-gardān, il direttore del taʽziye, di fornire all’attore il cappotto di foggia occidentale indossato dagli ambasciatori britannici o francesi in Iran, o l’uniforme in dotazione nell’esercito dei Paesi menzionati, affinché l’attore venisse subito percepito dal pubblico come europeo [22], oppure, forse su influsso dei film hollywoodiani, di far indossare agli ašqiyā degli occhiali da sole, così come in epoca pahlavi (1925-1979), spesso, le giacche dell’esercito iraniano potevano essere utilizzate per sostituire le cotte di maglia dei guerrieri, essendo queste di difficile reperibilità (Chelkowski, 2009).

Determinante, inoltre, è la fantasia popolare, che può trovare sfogo nello sfoggio di decorazioni di vario tipo, accessori e monili (Beyzaì, 2022: 202), ma è altresì possibile che si assista al fenomeno opposto, con solo un velo un po’ inusuale a indicare un santo, o un pugnale un nemico, lasciando che l’immaginazione supplisca all’umiltà dei preparativi.

Oggi la tendenza, sia per il taʽziye che per la “dimostranza”, è quella di acquistare o noleggiare i vestiti da utilizzare piuttosto che crearne di appositi in seno alla comunità, fattore che allontana entrambi dal rito, sulla via della fissazione come genere teatrale. In Iran esistono attività che si occupano del commercio di costumi per il taʽziye, uniformando gli abiti in tutto il territorio della Repubblica Islamica, sclerotizzandoli nella pratica e nell’immaginario e rendendoli insensibili al mutamento dei tempi, e si segnala la nascita di siti internet e pagine sui principali social network dedicati alla vendita di questi, e pure i marinesi sono oggi soliti prenderne in affitto o in prestito presso ditte specializzate o enti e compagnie teatrali (Benanti, Di Sclafani, Spataro, 1997: 19). 

Taʽziye-ye Ḥażrat-e Ḥorr. Qom, 06 agosto 2022 (08 muḥarram 1444). Foto dell’autore.

Taʽziye-ye Ḥażrat-e Ḥorr, Qom, 06 agosto 2022 [08 muḥarram 1444] (ph. Salvatore Amenta)

Gli oggetti di scena 

Anche gli oggetti utilizzati nel taʽziye hanno un forte valore simbolico: sulla scena, un recipiente colmo d’acqua può rappresentare l’Eufrate, qualche ramo diventare un palmeto, e lo stesso saku spoglio la piana deserta di Karbalā’ (Chelkowski, 2009). Vengono altresì utilizzati strumenti privi di tale valore nella loro funzione abituale, come dei bicchieri e delle comuni sedie. Questi oggetti vengono normalmente trasportati sulla scena da coloro, tra gli stessi attori, che non sono in quel momento all’opera [23].

Negli spettacoli che godevano del patrocinio della corte, invece, gli oggetti di scena riflettevano la posizione del mecenate e «The historical situation was re-created in terms of contemporary splendor» (Chelkowski, 2009). In alcuni casi, ciò condusse sino all’ideazione e impiego di artifici e macchine teatrali (Beyzaì, 2022: 205).

Per ovvi motivi, la natura itinerante della “dimostranza” di San Ciro non ha consentito lo sviluppo di scenografia fissa. Al di là dei comuni strumenti scenici (per fare un solo esempio, i libri del giovane Ciro), le testimonianze, tuttavia, segnalano la presenza di oggetti di foggia amatoriale, utili agli sviluppi della trama, nella cui creazione sembra aver avuto un ruolo una tendenza all’astrazione, al simbolo, benché sottomessa al realismo necessario alla riuscita della rappresentazione.

Sanfilippo, testimone oculare dell’edizione del 1894, descrive: il «fascetto di stoppia con in punta un brandello di carta rossa, per significare che la stoppia è accesa e che questa alimenti il fuoco della caldaia» di cartone che San Ciro si trascina dietro, senza fondo così che possa tranquillamente camminare e al tempo stesso continuare a sottoporsi al supplizio (Benanti, Spataro, 1985: 126); una «casetta ambulante» dotata di finestra ferrata, rappresentazione delle carceri (Benanti, Spataro, 1985: 120); la grotta di legno mobile presso cui il Santo si ritira (Benanti, Spataro, 1985: 117); i canestri di frutta portati in corteo dagli angeli nei momenti finali della “dimostranza”, che sarebbero, secondo Sanfilippo, figurazione del paradiso terrestre presso cui il Santo, dopo la morte, si trova (Benanti, Spataro, 1985: 132). 

Taʽziye-ye Ḥażrat-e ʽAbbās, il martirio di ʽAbbās. Qom, 30 giugno 2022 (30 ḏū al-qaʽda 1443). Foto dell’autore.

Taʽziye-ye Ḥażrat-e ʽAbbās, il martirio di ʽAbbās, Qom, 30 giugno 2022 [30 ḏū al-qaʽda 1443] (ph. Salvatore Amenta)

La direzione della rappresentazione 

«A taʽzia director is a “man for all seasons” […] he acts as the producer, stage manager, prompter, PR man, and financial director for the company» (Chelkowski, 2009). Il direttore del taʽziye è chiamato taʽziye-gardān, šabih-gardān o, genericamente, ostād, «maestro». Beyzaì riferisce che una simile figura di guida nacque abbastanza presto, quando fu avvertito il bisogno di un coordinamento all’interno delle processioni, in una fase in cui i riti, tra cui il taʽziye, erano ancora prevalentemente itineranti. Tale figura veniva chiamata sardam-dār (Beyzaì, 2022: 205).

Oltre all’organizzazione dello spettacolo, di cui si occupa, il direttore del taʽziye ha il compito di guidare gli attori durante le prove (sempre che ve ne sia il tempo e sia possibile effettuarle) e, soprattutto, nel corso delle rappresentazioni, dirigere i musicisti e vigilare sui comportamenti del pubblico, e nel fare ciò non è affatto strano o inusuale vederlo comparire sulla scena, parlare direttamente con gli attori, dare una sistemata ai loro abiti e rivolgersi direttamente agli spettatori per invitarli a mantenere un comportamento rispettoso nei confronti dell’Imam. Spesso si occupa anche di raccogliere le offerte e consegnarle agli attori – ma sarebbe più corretto dire ai personaggi della storia sacra che questi si trovano a impersonare – a cui sono indirizzate, appuntandole loro sulle vesti.

La fama di Mirzā Moḥammad Bāqer, taʽziye-gardān di corte nella Tehran di inizio ‘900, che per la sua abilità si guadagnò il titolo di moʽin ol-bokā, «fonte del pianto» [24], fu tale che questo stesso soprannome divenne, per antonomasia, sinonimo di direttore di taʽziye (Chelkowski, 2009). Di lui scrive Mostowfi: 

«Moʽin al-bokâ adempiva con grande maestria al proprio dovere. I suoi ordini, impartiti a più di cento persone, fra attori e musicisti e altri elementi coinvolti nello spettacolo, venivano immediatamente eseguiti. Il figlio di Moʽin al-bokâ, famoso a sua volta come Nâzèm al-bokâ [«coordinatore del pianto»], lo assisteva come aiuto-regista. Egli comandava gli attori con i gesti delle mani e i musicisti con un bastone chiamato metrâq in maniera estremamente elegante. E se capitava che qualcuno fra il pubblico – tanto nella platea quanto nei palchi – parlasse a voce troppo alta, egli con altrettanta calma ed eleganza lo invitava con un rispettoso cenno al silenzio» (Beyzaì, 2022: 189). 

Se nei grandi centri, come Tehran, vi era una struttura organizzativa ben delineata, nei villaggi l’assunzione del ruolo di taʽziye-gardān, similmente a quanto avviene per gli attori, era ed è ancora dettata dalla devozione. A Solṭānābād, nel 1935, il direttore del taʽziye era il barbiere della cittadina (Floor, 2005: 162).

Passando alla “dimostranza”, ci si affida un’ultima volta a Pitrè: 

«Quattrocento personaggi vi agiscono, diretti da un sacerdote, che può considerarsi il factotum dell’opera, duca, signore e maestro del piccolo esercito di artisti improvvisati. Il parroco ed altri sacerdoti da parecchie dozzine di anni in qua si sono succeduti con impareggiabile fervore nell’opera pietosamente patriottica» (Pitrè, 1979: 137). 

Sanfilippo, che ricorda anche i nomi dei direttori succedutisi nel corso dei secoli, dà un quadro più colorito degli oneri del ruolo: 

«Per quanto ne ricordi io il fautore, l’artista, il direttore di scena e maestro di musica, l’omnibus umano insomma, che impartiva ordini del come si doveva camminare e recitare, era un prevosto: il padre Oliva, buon’anima sua. […] Morto il padre Oliva, lo surrogò il padre don Antonio Scarpulla, uomo eminentemente pietoso, bonario come un agnello, artista e poeta nato, che si lambiccava il cervello a pittare le diverse frasi di S. Ciro con un accento dolce dolce. Fabbricava pur quasi tutte le poesie da mettere in bocca ai personaggi; ed aveva un bell’estro. Ci consumava tre mesi (da maggio ad agosto) a creare soggetti, ad azzeccare le parti; a provare i cori […]. Morto quest’ultimo, colui che prese le redini […] fu il presente signor maestro Francesco Pernice […]. Trattandosi di «Dimostranza», il Pernice è un uomo che non par più quello. Gusto, udito, odorato, intelletto, tutto mette a buon pro per amor di far bene […]. Egli si picca di poesia in tutti i generi […]; coltiva la musica pei cori, crea i gonfaloni con le scritture, costruisce le caldaie di cartone, le carceri, le casette, le grotte, i monti di legno; e poi divide le parti bene e sa scegliere a puntino i personaggi […]. Morte e vita, vita e morte di San Ciro: ecco il compendio della sua vita» (Benanti, Spataro, 1985: 100-101). 

3d8e6698-4a4c-4fa0-9ee3-4af315715764Qualsiasi commento è superfluo: a leggere questi estratti sembrerebbe quasi che le descrizioni del taʽziye-gardān e del direttore della “dimostranza” siano intercambiabili. Il Pernice immortalato da Sanfilippo è un uomo «che si spolmona, che si scalmana per mettere in ordine tutti», per la buona riuscita dello spettacolo sacro: «Mette a posto un villano barbuto che, intento a contemplare l’innamorata, sta fermo come un palo e non pensa più che ha un dovere da compiere; suggerisce a memoria qualche verso dimenticato ad un timido verecondo che si confonde, e gli fa fare la figura; aggiusta un quadro plastico […]; prova l’orchestra; dirige i cori; dispone ed ordina tutti nei propri posti» (Benanti, Spataro, 1985: 103-104), ma fa anche uso della sua autorità per sedare eventuali litigi tra attori (ivi: 124) o tra attori e astanti (ivi: 129) e richiamare tutti all’ordine e all’ordinario svolgimento della “dimostranza”. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note 
[1] «Abu Abdullah Giabir figlio di Abdullah al-Ansari (DCL) riporta: Un uomo chiese al Messaggero di Dio (SLPBD): Secondo te, se compio le preghiere prescritte, digiuno nel mese di Ramadan, rispetto ciò che è lecito ed evito ciò che è illecito e non aggiungo altro, entrerò in Paradiso? Egli rispose: «Sì». Hadith riferito da Muslim.» (An-Nawawi, 2002: 84).
[2] Trenta anni prima, Henri Massé aveva presentato nella stessa maniera la quasi totalità delle cerimonie commemorative di cordoglio per l’imam Ḥusayn (Massé, 1938, I: 122-136).
[3] Rappresenta un’eccezione quasi isolata M.J. Mahjub, con il suo saggio The Effect of European Theatre and the Influence of Its Theatrical Methods Upon Taʽziyeh (Mahjub, 1979: 137-153). Mahjub riconduce il taʽziye, di cui propone inoltre di postdatare le prime apparizioni, al risultato degli influssi e scambi tra oriente e occidente – ipotizzando una filiazione dai misteria cristiani –, che avrebbero quindi contribuito a dar forma non solo al teatro moderno, di derivazione europea, ma anche alle rappresentazioni di tipo religioso («is it possible that no one went to the West?»).
[4] «On the tenth of Muharram of this year [A.H. 352], Muʽizz ad-Dawlah Ibn Buwayh, may God disgrace him, ordered that the markets be closed, and that the women should wear coarse woolen hair cloth, and that they should go into the markets with their faces uncovered/unveiled and their disheveled, beating their faces and wailing over Hussein ibn Ali ibn Abi Talib. The people of the Sunna could not prevent this spectacle because of the Shiʽa’s large number and their increasing power […], and because the Sultan was on their side» (Mazzaoui, 1979: 228-237).
[5] «On the tenth day of Dhu al-Hijjah of this year [i.e., A.H. 352], Muʽizz ad-Dawlah Ibn Buwayh ordered that Baghdad should be decorated and the markets be opened at night as during the holidays; and that the drums be beaten and the bugles sounded, and fires lit at the entries to the houses of army commanders […] and the police […], in happy commemoration of the Feast of Ghadir – i.e., Ghadir Khumm. It was a strange and memorable/well-attended […] occasion, and an ugly, flagrant, and reprehensible innovation» (Mazzaoui, 1979: 228-237).
[6] «On the tenth of Muharram of this year [A.H. 353], the Shiʽa community […] celebrated the Taʽziyeh», qui da intendersi secondo l’originario significato in lingua araba («consolazione, condoglianza, cordoglio») e non come rappresentazione drammatica, «of Hussein as they did the year before. The Shiʽites and the Sunnites fought violently among each other on this day, and property was looted» (Mazzaoui, 1979: 228-237).
[7] Commenti non privi di riprovazione morale per l’accaduto, similmente a quanto annota in ricordo del mese di muḥarram del 354H (965): «Hāḏā takalluf lā ḥāǧa ilayhi fī al-Islām, wa law kāna hāḏā amran maḥmūdan li-fiʽli-hi ḫayr al-qurūn wa ṣadr hāḏihi al-umma wa ḫayratu-hā wa hum ūlū bi-hi “law kāna ḫayran mā sabaqū-nā ilay-hi”» (Ibn Kaṯīr, 1426, IV, 126). «This [celebration of Ashura] is a hypocritical religiousity which is not condoned in Islam. If this occasion had been praiseworty, the people of earlier centuries and the leaders and best [people] of this community […] would have observed it – surely they are more entitled to it» (Mazzaoui, 1979: 228-237). Ibn Kaṯīr non risparmia neppure i propri «correligionari», biasimandoli per essersi abbassati al livello dei Rawāfiḍ, come si legge nella citazione successiva.
[8] «In this year [i.e., A.H. 363] on Ashura, the despicable innovation was celebrated according to the custom of the Shiʽa […]. A great riot broke out in Baghdad between the Sunnies and the Shiʽites […]: both factions being small of mind or are totally mindless, and are far from level-headed. For a group of the Sunnites placed a woman [on a horse/camel?] calling her Aʽishah, while one of them took the name of Talhah and another that of az-Zubayr, and set out to fight the followers of Ali. As a result of that large numbers of both factions were killed» (Mazzaoui, 1979: 228-237). In seguito gli ʽAyyārūn devastarono la città e saccheggiarono le proprietà. Presero un gruppo di manifestanti e agirono duramente, uccidendoli. Allora la rivolta si placò.
[9] Allo stesso modo, sono stati tracciati parallelismi con misteri simili riguardanti la morte (e talvolta la resurrezione) di un dio in Anatolia, Egitto, Mesopotamia (Bausani, 2017: 419-421; Yarshater, 1979: 88-94).
[10] «Ma che nell’Asia centrale iranica si celebrassero misteri di morte d’un Dio ci è confermato dalla testimonianza di un viaggiatore cinese, Wei Tsû, del VII sec. […]. «La gente di Samarcanda» egli scrive «dice che il “figlio divino” è morto al settimo mese […] e si sono perdute le sue ossa. Quando comincia questo mese i servi del Dio si vestono di vesti nere, si danno colpi e piangono. […] Al settimo giorno la festa ha fine»» (Bausani, 2017: 420-421).
[11] «Lo storico persiano Narshakhî […] afferma: «I Magi (mazdei) di Bukhârâ tengono quel luogo (dove fu seppellito Siyâvush) particolarmente caro e ogni anno ognuno sacrifica a lui un gallo prima del sorgere del sole del primo dì dell’anno (Naurûz). Gli abitanti di Bukhârâ posseggono lamentazioni a proposito dell’uccisione di Siyâvush, come è noto in tutte le regioni, e i cantori ne hanno fatto canti e li recitano, e son chiamati “il pianto dei Magi”, pur essendo passati più di tremila anni da questo avvenimento»» (Bausani, 2017: 420).
[12] «Derivava la sua origine dall’improvvisazione, non solo la tragedia, ma anche la commedia: quella dai corifei che intonavano il ditirambo, e questa da chi guidava le processioni falliche che ancor oggi in varie città sono rimaste nell’uso; e poi a poco a poco si accrebbe, perché i poeti coltivavano ciò che in essa appariva spontaneo; così, dopo essere passata attraverso vari mutamenti, la tragedia si arrestò perché aveva raggiunto la propria natura» (Aristotele, 1974: 15). Si fa a ogni modo presente che, sebbene sprovvisto fino a tempi recenti di un teatro tragico, l’altopiano iranico ha tuttavia saputo produrre nel corso dei secoli forme varie e diversificate di teatro comico e farsesco, sia prima che dopo la conquista islamica (Floor, 2005, pass.).
[13] In Sicilia, la prima rappresentazione di un mistero ebbe luogo nel 1562 (Pitrè, 1980: 4).
[14] Processioni, sì, ma «si sa che quando la processione prendea tutto il carattere drammatico, i vari gruppi salivano, in un luogo designato, sopra un palcoscenico, e uno per volta venivano rappresentando la loro parte» (Pitrè, 1980: 81).
[15] Il volume di Pitrè – di cui l’edizione consultata è una ristampa anastatica – è comparso nel 1881.
[16] «Today, the processional taʽzias known as taʽzia-kāravāni consist of a train of huge flatbed trucks pulled by tractors, on which sequential episodes of the play (majles) of the taʽzia are performed» (Chelkowski, 2009).
[17] L’elezione venne ratificata, attraverso un atto notarile, in data 27 settembre 1665 (La Spina, 1976: 15).
[18] Per una panoramica su tale evoluzione si rimanda a Floor (Floor, 2005: 132-149).
[19] Sanfilippo: «Ogni recita s’attira una calca di persone che, o per sentire, o per fare la satira, o per gustare le mosse e le parole o per commuoversi, s’attorniano agli attori, i quali rimangono incerchiati in un piccolo vuoto come i giocolieri da piazza» (Benanti, Spataro, 1985: 108).
[20] Le uniche eccezioni sono costituite dagli spettacoli per sole donne e da casi isolati, come quello della città di Bushehr (Vanzan, 2015: 306-327).
[21] «Together with the nature of their voices […] the costumes sent subliminal messages to the audience, so that even without the plot it know the lay-of-the-land and who’s-who» (Floor, 2005: 167).
[22] Non era infrequente, anzi, che venisse chiesto agli stranieri di stanza in Iran, in particolar modo ai diplomatici, di prestare dei capi da utilizzare durante le rappresentazioni (Floor, 2005: 169).
[23] Com’è pure possibile osservare uno di questi attori servire il tè a quanti in quel momento stanno recitando, senza distinzione alcuna tra carnefici e vittime.
[24] O, secondo una diversa interpretazione, «misuratore del pianto» (Beyzaì, 2022: 187). 
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Salvatore Amenta, laureando del Corso di Laurea Magistrale in Lingue Moderne e Traduzione per le Relazioni Internazionali presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo, dove ha avuto modo di approfondire, in particolare, discipline dell’Area degli Studi Arabi e Islamici (Lingua e Letteratura Araba, Storia dei Paesi Islamici). Dopo avere frequentato un Corso di Lingua Traduzione e Cultura Persiana (2021) e un Seminario di Lingua e Cultura Persiana organizzati dal Dipartimento di Scienze Umanistiche, ha avuto occasione di recarsi in Iran, presso Al-Mustafa International University di Qom (giugno-agosto 2022), per approfondire lo studio della lingua persiana (fārsi) ed effettuare ricerche ai fini della stesura della tesi di laurea, che ha come argomento gli sviluppi recenti del taʽziye-xwāni nella città di Qom.

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