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Il teatro evangelizzatore dei Francescani nella Nueva Espaňa

Protomartiri Francescani in Coimbra

Protomartiri Francescani nella chiesa di Coimbra

di Giovanni Isgrò 

Il 1523 è l’anno dell’approdo dei primi 12 frati francescani in México, con licenza dell’imperatore Carlo V, cui seguiranno altri in osservanza della Bolla Pontificia di Adriano VI. Il fenomeno missionario francescano fu motivato dalla necessità di una cristianizzazione globale di fronte alla paura dell’approssimarsi della fine del mondo diffusa nel Medioevo nell’Europa occidentale. In questo scenario apocalittico gli indios furono considerati gli ultimi pagani da redimere e da chiamare alla conversione e alla penitenza salvifiche. Dal canto suo il re di Spagna, estendendo anche al mondo americano la promozione dell’opera di divulgazione del cristianesimo già avviata nella penisola iberica nei confronti delle comunità islamiche, puntava a garantire legittimità alla conquista attraverso l’azione moralizzatrice ed evangelizzatrice messa in atto dalla Chiesa.

In questo ambiguo sovrapporsi di strategia politica ed azione edificante, nel quale si inserirono fenomeni di sfruttamento e di nuova gerarchizzazione in un continuo intrecciarsi di interessi di indios integrati nel sistema coloniale e di comenderos senza scrupoli, c’è il grande lavoro di comunicazione messo in atto dai missionari. Un percorso, questo, segnato dalla preoccupazione costante di recuperare il mondo culturale indigeno, per effettuare il quale fu cura degli evangelizzatori, laddove necessario, separare gli indios dagli spagnoli, la cui influenza poteva risultare nociva ad una vera conversione [1].

3Per costruire i pilastri della fede cristiana bisognava al tempo stesso estirpare alcune consuetudini fondamentali nella religione preispanica. Fra queste, l’idolatria e la poligamia, alle quali si aggiungeva il grave peso dell’alcolismo e dell’abuso sessuale. Insieme alla necessità di apprendere le lingue locali [2], i missionari si resero conto che per far sentire il peso della minaccia delle pene eterne come deterrente dai peccaminosi retaggi della cultura autoctona, bisognava puntare sul visivo. Le arti figurative, dunque, come il teatro, diventarono in questo modo strumenti funzionali al raggiungimento di un obiettivo storico-sociale oltre che religioso. Fu proprio questa forma di militanza teatrale con le sue articolazioni creative a segnare profondamente il solco rispetto alle forme coeve della cultura occidentale, essendo l’actio preteatrale e quella teatrale tout court spesso collegate alla liturgia e animate da tecniche di persuasione basate in parte sul doppio del meraviglioso di ispirazione miracolistica, in parte sul metodo del sincretismo. Quest’ultimo, in particolare, consentì di utilizzare al meglio quanto preesisteva sul piano della cultura della spettacolarità urbana, sia nel senso della concezione dello spazio scenico che delle forme della messinscena e degli apparati festivi. Al tempo stesso, permise di mettere in atto una sorta metamorfosi in grado di restituire alle masse, anche con la sovrapposizione e l’adattamento di alcuni elementi importati dalla cultura occidentale e con la costante presenza della simbologia cristiana, il messaggio salvifico legato alla figura di Cristo Redentore.

61ajepo7fl-_ac_uf10001000_ql80_In questo senso l’eliminazione delle scene cruente dei sacrifici umani e la sostituzione dei simulacri e dei simboli delle divinità autoctone con le immagini della Madonna e dei santi, e soprattutto l’immagine luminosa e solare del SS. Sacramento, furono le componenti fondamentali di un impianto drammaturgico assolutamente originale che mise in atto una nuova idea di teatro, come del resto suggeriva l’ambiente del Nuovo Mondo. Fu così che mentre coevamente nell’Occidente europeo ci si orientava verso la separatezza della scena, fosse essa legata all’ideologia della corte e delle accademie o, da lì a poco, al profitto dei comici dell’arte, mentre le atmosfere tardomedievali delle pratiche confraternali sforavano nelle esibizioni quartierali delle corporazioni di commercianti e artigiani fra invenzioni e ingegni come testimonianza dell’evoluzione delle artes mechanicae, il teatro degli evangelizzatori metteva in atto un processo inedito di conversione “a vista” di intere città. 

Questo fu appunto il senso dell’applicazione di una tecnica unita ad una ideologia. Ci si può chiedere come fosse possibile che tutto questo potesse nascere e realizzarsi nello spazio di pochi decenni, peraltro in un territorio sconfinato e sconosciuto ai nostri monaci. La risposta riguarda due dimensioni tra loro interrelate che hanno come ispirazione comune il concetto di liturgia, sia nel senso della simbologia dello spazio che in quello dell’azione intesa come rito⁄relazione e non come rappresentazione e basata sull’interpretazione tout court.

4Al tempo stesso bisogna tener conto di una sorta di predisposizione per così dire “spirituale” del popolo indigeno, dovuta ad una cultura particolarmente incline all’idea del sovrannaturale accompagnata dal sentimento della dilatazione dello spazio e dell’immanenza divina. In questo senso la festa religiosa preispanica non era riflesso della vita, ma la vita stessa. Su questa convergenza di base con la cultura cristiana gli evangelizzatori misero in atto la loro opera a partire dalla sacralizzazione del territorio nel quale si trovarono ad operare. Al di là degli edifici del culto cristiano sorti in sostituzione dei templi dell’idolatria e indicati come riferimento e rifugio salvifico, lo spazio della comunicazione con le masse e della persuasione collettiva quotidiana non poté non trasferirsi all’esterno. Qui il popolo si trovò immerso in un sistema fisso di percorsi e indicatori sacri che riproposero l’immanenza dei simboli cristiani. Proprio da essa derivò l’idea dei primi evangelizzatori, ripresa da quelli successivi, di attuare nello spazio urbano la convocazione del nuovo popolo di Dio come in una vera e propria liturgia.

La chiamata collettiva della comunità fu così l’attuazione di una varietà di actiones che riattualizzavano, come all’interno del tempio, l’efficacia degli eventi cardini della fede cristiana. Da qui, come meglio si vedrà più avanti, la contiguità del cortile antistante la facciata della chiesa con la piazza maggiore e la funzione della capilla apierta: una sorta di grande nicchia realizzata sulla parete del frontespizio stesso della chiesa a mo’ di “teatrino”, su una quota superiore a quella occupata dal popolo accorso ad assistere alla sacra celebrazione.

6Bisogna riconoscere, d’altro canto, che certe somiglianze delle consuetudini culturali indigene con alcuni sacramenti cristiani ne favorivano la divulgazione, determinando di fatto una sorta di relazione massiva col gesto sacramentale del sacerdote. La confessione indigena differiva da quella cristiana perché si realizzava una sola volta nella vita e ci si confessava per non ricevere la pena della morte. Inoltre una forma di battesimo si faceva in epoca preispanica bagnando il bambino in presenza del fuoco. I neonati di sesso maschile in quella occasione tenevano una piccola rotella nella mano sinistra e una freccia nella mano destra; mentre alle bambine si dava una scopa. Tutto ciò al fine di cacciare i nemici dell’anima [3]. Analogie si evidenziano inoltre tra l’Eucarestia e la cerimonia indigena in onore di Hcutzlopochtili nella festa chiamata “Panquetzaliztli”, che consisteva nel disfare una massa di bietole le cui parti si credeva fossero corpo del Dio. Il Dio principale della regione Na-huatl, Titlacahuan, del resto, presentava caratteristiche che agli occhi degli indigeni sembravano accostabili a quelle del Dio cristiano. Era considerato creatore del cielo e della terra ed era ritenuto invisibile.

Se da un lato i padri evangelizzatori poggiarono su queste analogie percorsi di trasformazione e di adattamento che portassero alla progressiva conversione, dall’altro affrontarono con decisione il problema delle diversità profonde. Una differenza sostanziale che risultò argomento efficace di conversione fu l’interpretazione del ruolo dei demoni. Rispetto alla cultura preispanica, per la quale erano semplicemente entità divine non maligne, l’identificazione cristiana del demonio con il male fece sì che i missionari francescani proponessero una configurazione del peccato attraverso una rappresentazione visiva molto spettacolare. Su un altro piano, l’abolizione di sacrifici cruenti in un’ambientazione orrida e putrida propria dei culti autoctoni a favore della solare luminosità dell’ostensorio condotto processionalmente nella festa del Corpus Christi riscosse notevole favore presso gli indigeni, mentre la croce, espressione massima della presenza divina purificatrice attraverso la sofferenza e simbolo onnipresente nelle strade, negli slarghi, nelle piazze dell’urbe, segnò inequivocabilmente la sacralità dello spazio della vita terrena, trasformando l’intero impianto urbanistico-architettonico in un grande luogo scenico della fede collettiva.

L’effimero della festa urbana corrispose così, come si diceva all’inizio, all’esaltazione della natura, ossia del Creato. Il godimento e la meraviglia degli occhi non furono fini a sé stessi, ma realtà viva. Gli stessi archi trionfali introdotti dai conquistadores per sottolineare il senso della gerarchia secondo il concetto del trionfo (laico) della tradizione europea furono adattati all’idea dello spazio totale con l’impressionante loro moltiplicarsi nelle strade e nelle piazze.

00000007Sulla verticale che va dalla soglia più alta della festa determinata dalla presenza dell’Eucarestia a quella del dramma apocalittico del Giudizio Universale si misura tutto il senso del teatro messo in atto dai padri evangelizzatori; un teatro che nacque nel contesto stesso della festa e che fece parte, sotto la forma degli autos, della celebrazione devota. Il teatro evangelizzatore, in quanto promotore di fede ed elemento centrale dell’esistenza, fu riportato così alla sua ragione primordiale di espressione rituale. E proprio per la sua contiguità con la liturgia fino alla soglia della compresenza con l’amministrazione del sacramento del battesimo, si misura la sua diversità rispetto ai codici europei.

La festa del 1525 organizzata nella chiesa di San Francisco in México per l’introduzione del sacramento dell’Eucarestia come occasione di conversione fu il primo stadio di festa ancora senza teatro, nel corso della quale si registrò una richiesta massiva di battesimo [4]. In quella circostanza, descrive Jerónimo de Mendieta, si visse il senso edificante dell’evento sostenuto da musiche, danze, invenciones e perfino dalla presenza dei primi archi trionfali [5]. Progressivamente i padri francescani, pur non respingendo i gesti spontanei di devozione degli indios via via convertiti, come avveniva per l’accoglienza dei doni offerti nel giorno di Pasqua, affidavano alla rappresentazione visiva la catechesi cristiana. Fu così che all’interno delle chiese, oltre a retabli, sculture e tele dipinte, grandi affreschi come giganteschi fondali scenici meravigliavano gli indios con raffigurazioni di Cristo, della Vergine, dei santi, oltre che con catturanti scene bibliche e narrazioni della storia dell’ordine francescano. Il Theatrum Ecclesiae offriva in questo modo in forma statica ciò che nel corso degli anni Trenta sarebbe stato rappresentato all’esterno.

Iniziatore di questa forma di pittura e maestro di tanti altri frati scenografi del sacro fu frate Pedro de Gante, uno dei primi francescani sbarcati nella Nueva España. Molti di essi ricorsero a lenzuoli che venivano srotolati manualmente a vista dei devoti durante i sermoni. Apparivano in questo modo davanti agli occhi degli indios i santi sacramenti, il paradiso, il purgatorio, l’inferno, ecc. [6]. Nel 1529 fra Jacobo de Tastera, appena giunto in México, non conoscendo ancora la lingua locale, utilizzava llienzos pintados in cui erano raffigurati «todos los misterios de nuestra santa fè catolica». Si serviva di una sorta di interprete locale, «un indio hábil que en su lengua les declarava a los de más todo lo que el siervo de Dios decía»[7]. Per essere più sicuro di trasmettere il proprio pensiero, su altri lenzuoli padre Jacobo riproduceva un sistema grafico, mnemonicos iconograficos, già in uso nella cultura indigena. Come i nostri cantastorie, alcuni frati ricorrevano a diversi lenzuoli, su ciascuno dei quali erano raffigurati rispettivamente i princìpi della fede, i 10 comandamenti, i 7 sacramenti, ecc.; sicché di volta in volta con una canna venivano indicate le immagini che si riferivano all’argomento della predicazione [8].

9Padre Luis Caldera, noto predicatore nella provincia di Jalisco, integrò la tecnica dei lenzuoli dipinti con altre invenzioni, spesso improvvisate alla buona, di chiara ispirazione teatrale. Per rappresentare le pene infernali realizzò nel patio della chiesa una buca simile ad un forno che usciva dal pavimento. All’interno di essa sistemò cani, gatti e altri animali che al contatto col fuoco alimentato all’interno della buca emettevano spaventosi lamenti simili ad ululati che intimorivano gli indios, al fine di convincerli ad evitare le offese a Dio Padre [9]. Gli esperimenti catechetici dei padri missionari a poco a poco portarono all’attuazione di una vera e propria pratica scenica a carattere didattico che nei primi anni si ispirò alla cultura medievale della messinscena di provenienza europea, destinata, come si vedrà fra poco, ad intrecciarsi con gli elementi della cultura indigena, al punto che questi ultimi finirono per avere un ruolo primario sul piano della spettacolarità adattata all’argomento cristiano. Testimonianza esemplare di questa prima fase del teatro evangelizzatore fu la rappresentazione de El judicio final di padre Andrés de Olmos, avvenuta nel 1533 in lingua na-huatl [10].

L’opera, come racconta fra Jerónimo de Mendieta, fu rappresentata a Tlatelolco nel territorio di Città di México presso il convento di San Francisco, luogo di raccolta di caciques di Texococo, Huejotzingo, Clatelolco, Chalco e di altre regioni circostanti, e sede di una scuola diretta da fra Pedro de Gante. Spazio scenico fu il grande patio del convento. Dovette trattarsi pertanto di una dimostrazione catechetica in un contesto ufficiale che ebbe luogo presso la Capilla (apierta) di San José [11]. Argomento centrale dell’opera, il cui tema è tratto dai Vangeli che si leggono nell’ultima domenica di Pentecoste (Lc 21, 25-33) e nella prima di Avvento (Mt 25, 31-46), fu la rilevanza della punizione e l’intransigenza di Cristo nei confronti del peccatore con diretto riferimento al problema della bigamia, assai diffuso, come si è detto, presso quella popolazione. Per mettere in atto in maniera diretta e inequivocabile la narrazione della terribile sorte spettante a coloro che disobbediscono al volere di nostro Signore, i frati francescani ricorsero ad una serie di brevi quadri che si susseguivano in ordine logico [12]. Non si trattava di un modello drammatico, bensì di un testo religioso; una sorta di sermone dialogato, proiezione scenica di alcuni passi della dottrina cristiana che si insegnava nei conventi.

10-2I missionari in grado di recitare in lingua indigena ricoprirono così i ruoli più impegnativi sia sotto il profilo catechetico, in particolare le personificazioni di idee e qualità astratte come il Tempo, la Penitenza, la Chiesa, la Morte, peraltro assolutamente estranei al preesistente teatro na-huatl, sia dal punto di vista interpretativo, come fu per la scena della confessione di Lucia al sacerdote, vera e propria trasposizione dal vero; exemplum diretto della pratica ecclesiale. In questo caso, infatti, la marcata, spaventevole rilevanza del peccato richiedeva particolari doti drammatiche che in quei primi anni i frati stessi preferirono non affidare agli indios, soprattutto perché non ancora pienamente consapevoli del messaggio salvifico che si voleva dare. Agli indios furono invece attribuiti ruoli figuranti (i vivi, i demoni) che, secondo Las Casas, che giudicò l’evento come «cosa jamás vista», raggiunsero il numero di 800 unità [13]. È probabile che anche ad un indio fosse attribuito il ruolo di san Michele, certamente non impegnativo sul piano dell’interpretazione evangelizzatrice, ma al quale si richiedeva prestanza di immagine e capacità di suonare la tromba.

L’impatto visivo era affidato ad una messinscena schematica, essendo lo scenario tripartito con la configurazione del cielo, della terra e dell’inferno disposti su tre piani sovrapposti. L’assetto “primitivo” dell’impianto scenotecnico affidato al gigantismo della struttura, assolutamente priva di ingegni propri delle artes mechanicae (argani, carrucole, botole, ingranaggi diversi) già in uso nel continente europeo, era caratterizzato da semplici scale attraverso le quali avvenivano l’ascesa e la discesa dei personaggi così distribuiti: Cristo e san Michele, in cielo; Lucia, il confessore, l’Anticristo, i vivi e i morti, in terra; i demoni e gli altri condannati, nell’inferno. Cortine e siparietti consentivano le apparizioni⁄sparizioni (se abrirá el ciel – I e V quadro; aparecerán los vivos – IV quadro; se cerrerán el cielo, la tierra y el infierno – VI quadro), mentre sicura presa spettacolare avevano gli scoppi dei fuochi artificiali (tronerá la polvara) che rafforzavano le sequenze più importanti, come l’apparizione di Gesù Cristo, la cacciata dei peccatori nell’inferno, la punizione di Lucia. Né mancavano gli strumenti “terribili” (corda e asta con spine di metallo infuocato) che dovevano essere adoperati dai demoni per la preparazione del castigo, provocando angoscia tra gli spettatori.

La parola espressa dai demoni ora con toni minacciosi e inquietanti negli ordini per l’esecuzione della pena e nella descrizione di quanto di terribile stava per accadere o che era già accaduto fuori scena, ora ferma e inappellabile nella formulazione dei giudizi di Gesù Cristo, ma anche accesa dal fuoco della fede che induce alla preghiera e al pentimento, fu essa stessa strumento fondamentale del teatro evangelizzatore, direttamente proveniente dalla tecnica della predicazione e ben al di fuori dal mestiere attorale. E perché non rimanessero dubbi sulle motivazioni edificanti e non teatrali tout court dell’evento, a conclusione della rappresentazione un sacerdote entrava in scena rivolgendosi agli spettatori dicendo loro che tutto quello che di spaventoso avevano visto rispondeva a verità, perché era scritto nei libri sacri. Li invitava pertanto ad evitare di subire la medesima sorte.

11Se la pittura costituì, insieme al teatro, lo strumento centrale del processo di conversione, la musica, ma anche la danza, furono componenti spettacolari che favorirono fortemente il processo di mediazione fra cultura e attitudini preesistenti nel mondo degli indios e la sovrapposizione di quella di provenienza occidentale; e anche in questo caso l’espressione musicale o⁄e coreutica, subito inserita negli spettacoli delle feste devozionali e più direttamente nel teatro degli autos, si coniugò con la celebrazione liturgica. La danza, a sua volta, strettamente legata alla musica, partecipava al processo di adattamento della cultura preispanica all’ambito della festa cristiana. Riferendosi alle celebrazioni della Pasqua, notava ancora padre Motolinía che esponenti autorevoli della comunità degli indios nella notte precedente la Pasqua di resurrezione danzavano e cantavano canti che i frati avevano prodotto nella loro lingua; mentre lo stesso giorno di Pasqua Motolinía registrava «mucho regocijo de danzas y bailes» [14]. Il bisogno da parte degli indios di partecipare attivamente al rito costituisce la condizione di base per l’attuazione di una teatralità su scala urbana che va ben oltre gli ambiti architettonici della chiesa. Lo testimonia il fatto che «los patios son muy grandes y muy gentiles, porque la gente es mucha, y no caben en las iglesia, y por eso tienen su capilla fuera en los patios, porque todos oigan misa todos los domingos y fiestas, y las iglesias sirven para entre semana» [15].

La spettacolarità visiva corredata da musiche e danze delle feste di Pasqua del 1536 annunciò il grande evento della festa del Corpus Christi del 1538; testimonianza esemplare del teatro e dello spettacolo evangelizzatore della prima stagione cristiana nel Nuovo Mondo, nel quale la dominante medievale occidentale registrata nell’esperimento teatrale del Judicio final del 1533 fu superata dalla pratica scenografica indigena come elemento fondante di una nuova forma di espressione teatrale. La peculiarità innovativa di questo evento festivo consistette nella complessa integrazione di elementi autoctoni con simboli e apparati della cultura festiva ispanica, oltre che dall’inserimento di rappresentazioni teatrali nel tempo stesso della festa. Si giunse così alla realizzazione di uno scenario urbano a spazio totale nel quale il fenomeno del sincretismo supportò il processo di metamorfosi espressiva legato alla missione catechetica dei frati francescani. Spontaneamente il popolo indigeno tutto, con centinaia di croci fissate in forma apotropaica e penitenziale al tempo stesso, vessilli e tele dipinte e migliaia di candele, esprimeva la nuova anima cristiana col proprio habitus festivo depurato da eccessi incompatibili con la morale della nuova religione, mentre venivano accolti elementi tipici della festa urbana occidentale a loro volta modificati o⁄e adattati al contesto culturale autoctono.

13Significativo in questo senso fu, ad esempio, l’uso di elementi naturali (piante, fiori, animali) e di piumaggi al posto di stoffe damascate e broccati o di macchine festive riproducenti “al vero” pezzi di paesaggio al posto di invenzioni scenotecniche in uso nelle feste ispaniche; mentre l’elemento centrale della festa urbana europea, ossia l’arco trionfale, evidentemente accolto con favore dal gusto locale al punto da essere proposto in un numero straordinario di esemplari, fu trasformato da simbolo della gloria imperiale di memoria classico-romana in elemento di festosità americana e dalle misure gigantesche, proporzionali all’ampiezza delle piazze e delle strade delle città del Nuovo Mondo.

Poste queste componenti della festa devota, ciò che più di ogni altra fece la differenza rispetto alla cultura europea fu la piantazione scenica dell’urbe. Essa fu concepita infatti in modo che gli assi viari deputati all’evolvere della processione fossero attrezzati, così da apparire come interminabili percorsi di una ideale chiesa a tre navate en plein air. Dieci giganteschi archi presentavano un arco al centro di circa 20 piedi, sotto il quale passavano il SS. Sacramento, i ministri e i rappresentanti dell’apparato istituzionale, mentre sotto gli archi minori laterali procedeva la massa dei devoti. Altri 1068 archi ad un solo fornice erano distribuiti inoltre lungo tutto l’itinerario del corteo. Interamente coperti di rose e fiori intrecciati in elaborate composizioni riproponevano, in assetto scenografico, la lussureggiante natura locale e al tempo stesso l’abilità decorativa degli indios destinata ad esaltare la liturgia dell’adorazione del Santissimo in un mélange di sensorialità visiva e olfattiva che comunicava agli astanti la prossima apparizione di Gesù Salvatore attraverso il passaggio dell’ostia consacrata, intanto che «muchas maneras de danzas» traducevano a loro volta in giubilo devozionale attitudini e costumanze provenienti da ritualità preispaniche.

Le vare recanti i santi che sfilavano in processione erano adornate di piumaggi e lamelle d’oro. Nel loro andamento ritmico cadenzato dalle musiche e dalle danze si collocavano all’interno dell’azione itinerante come una sorta di teatro di figura. Il piazzato scenico urbano era completato da cappelle provvisorie con altari e retablos da dove uscivano, al passaggio del Sacramento, «muchos cantores cantando y bailando» e da macchine fisse distribuite lungo il percorso. Veri e propri paesaggi naturali al vivo, trasformavano lo spazio urbano in pezzi di montagne e di boschi animati da uccelli di vario colore che svolazzavano da un punto all’altro del dispositivo scenico, mentre personaggi nel ruolo di cacciatori mimavano l’azione della caccia.

Fra Motolinía, in quegli anni guardiano del convento di Tlaxcala, coordinò tutto lo scenario della festa per il quale gli indios dimostrarono grande capacità ed esperienza legate alla loro antica tradizione festiva. Strettamente collegata all’atmosfera della festa del Corpus Christi, quella immediatamente successiva dedicata alla celebrazione della nascita di san Giovanni diede spazio ad un vero e proprio esperimento teatrale. Il venerdì 21 giugno, il giorno dopo le celebrazioni del Corpus, e in attesa di quelle di San Giovanni del 24 giugno, furono inscenati su quattro palcoscenici diversi alzati nel patio della cattedrale, rispettivamente: la Anunciación del nacimiento del Bautista, la Anunciación a la Virgen, la Visitación (a santa Elisabetta), quest’ultimo recitato prima della santa messa, e infine, dopo la cerimonia, il Nacimiento del precursor. Tutti, della durata di un’ora, terminavano con un canto. Si trattò di un innesto “teatrale” che non lasciò intravedere soluzione di continuità con la liturgia riguardante la celebrazione della vita del Santo, al punto che al posto della sequenza “scenica” della circoncisione, nell’auto della Natività fu celebrato il battesimo di un bambino indigeno come se si fosse in chiesa [16].

13La tecnica medievale del sacro rappresentare di provenienza ispanica proposta a Tlaxcala dai padri francescani con i diversi luoghi deputati distribuiti nello spazio del patio non tardò ad essere a sua volta assorbita e metabolizzata dalla cultura indigena. La tappa intermedia di questo percorso fu la rappresentazione di un auto dal titolo El misterio religioso de la Asunción messo in scena dai frati francescani il 15 agosto di quello stesso anno alla presenza del padre generale del loro Ordine, fra Alonso Ponce. In quella occasione si registrò la partecipazione attiva di numerosi indigeni. Come testimonia il padre domenicano Las Casas, che ebbe modo di assistere alla rappresentazione, i ruoli degli apostoli e della Vergine furono interpretati con grande maestria e devozione da indios. Notevole fu anche il contributo indigeno nel canto (tre cappelle di cantori) e nella musica (soprattutto flauti), mentre una folla oceanica di 80 mila spettatori riempiva uno dei più grandi patii di Tlaxcala. Fu un vero e proprio spettacolo di relazione basato sulla condivisione comune del messaggio cristiano, ma anche sul riconoscimento dell’importanza della partecipazione artistica degli indios nei confronti della quale la massa devota adesso poteva rispecchiarsi [17]. Emblematico in questo senso fu il successo riscontrato presso gli indios dalla rappresentazione dell’adorazione dei Re Magi, in quanto, come testimonia Motolinía, «la fiesta de los reyes la recocijan mucho, porque les parece propia fiesta suya».

Sul piano della messinscena, l’introduzione di elementi tipici della tradizione messicana nel teatro degli autos si verificò appena un anno dopo, il mercoledì di Pasqua del 1539, quando nella stessa Tlaxcala presso la piazza in prossimità della porta dell’ospedale si rappresentò l’auto Adan y Eva. Secondo la descrizione di Motolinía [18], in uno dei due giganteschi palchi alzati per l’occasione la messinscena del paradiso terrestre fu una vera e propria mostra delle bellezze naturali del México integrata da elementi artificiali secondo tecniche costruttive e di animazione tipiche del teatro na-huatl. Insieme ad alberi da frutta e fiori veri se ne ammiravano altri finti, realizzati con piume e lamelle d’oro. Sugli alberi stazionavano inoltre diverse varietà di uccelli (soprattutto pappagalli), parte dei quali anch’essi artificiali. Allo stesso modo, insieme a conigli e lepri, si muovevano nello spazio scenico giovani perfomer indios che, indossando pelli di altri animali, giocavano e burlavano Adamo ed Eva. Particolarmente curato era anche il funzionamento meccanico di quattro fiumi biblici, ciascuno dei quali era contrassegnato da cartelli riproducenti i loro nomi: Phiron, Gheron, Tigris ed Euphrates. Al centro era alzato l’albero della Vita, oltre a quelli del Bene, del Male e della Scienza. Attorno al paradiso, muovendosi su tre grandi rocce, un giovane indio travestito da leone fingeva di sbranare un cervo vero, riscuotendo grande successo presso il pubblico per questa performance. E non mancavano una grande sierra e poi galli e galline grandi come i pavoni di Castiglia.

Stante l’esuberante bellezza di questa sorta di installazione “paradisiaca”, con tutte le perduranze interpretative e costruttive degli indios legate al culto delle divinità del mondo preispanico, i francescani innestarono le sequenze della “tentazione” e del peccato che furono interpretate non appena la processione del Corpus Christi giunse in prossimità del luogo scenico. L’arrivo della corte celeste con Dio Padre accompagnato da molti angeli si ispirava alla maestosità cerimoniale della cultura occidentale. I due aspetti edificanti, quello penitenziale dei due peccatori e quello solare di Dio Padre sommo giudice, ben si coniugarono con il lavoro inscenatore e performativo degli indios, anche per quanto riguarda l’allestimento del secondo luogo deputato, quello raffigurante il “mondo” contrapposto al paradiso terrestre. Esso appariva pieno di cardi, spine e serpi. Giunti lì, gli angeli mostrarono ad Adamo come lavorare e coltivare la terra e ad Eva come filare e cucire le vesti per marito e figli. L’uso della lingua indigena, l’interpretazione degli indios e il canto accompagnato dall’organo suscitarono molta emozione fra il popolo spettatore; in particolare la punizione di Adamo ed Eva e il trasferimento fra le brutture del mondo anche in questo caso furono elementi fondamentali del processo di evangelizzazione.

Bisogna riconoscere, tuttavia, che a questa cultura festiva si agganciavano interessi del potere laico, fosse esso quello della monarchia ispanica rappresentato dai suoi vicerè, fosse quello della classe dominante costituito dai colonizzatori e dai loro discendenti: ma anche dagli amerindi della nobiltà locale, il cui consenso veniva catturato dall’essere essi onorati nella qualità di vassalli di prestigio dell’imperatore di tutte le Spagne. In quanto tali, del resto, i fanciulli di questa sfera sociale venivano ammessi nelle scuole superiori per apprendere le forme d’arte collegate alla cultura occidentale ed eventualmente per formarsi al sacerdozio. Al tempo stesso, il popolo chiamato ad essere collaboratore attivo del processo evangelizzatore doveva riconoscere il ruolo dei colonizzatori come strumento necessario per l’attuazione della nuova evangelizzazione e del loro riscatto dal peccato e dagli errori della preesistente religione. Su questa ambiguità fra senso spirituale della missione cristiana e interessi materiali dei colonizzatori e del riassetto della classe dominante, maturarono i processi della nuova era del mondo americano ispanizzato, che risultano particolarmente evidenti laddove i fenomeni celebrativi assunsero proporzioni vastissime, ossia nelle grandi città. Qui l’idea della festa cristiana non mancò di determinare forme di teatro urbano di estensione inimmaginabile per la sfera europea, almeno fino a quando la storia del vecchio continente non venne travolta da eventi di grande coinvolgimento di massa, come fu per la rivoluzione francese o per la rivoluzione sovietica [19].

112Fu così che le due maggiori città della Nueva España, México e Tlaxcala, già nel 1539 diventarono scenari esemplari di teatro festivo urbano con le spettacolari rappresentazioni de La conquista de Rodas e de La conquista de Jerusalén. Per quest’ultima opera l’occasione celebrativa dei festeggiamenti per la pace fra l’imperatore Carlo V e il re di Francia si intrecciò con la festa del Corpus Christi, al punto da contestualizzarsi in essa; e si legarono al tempo stesso alla rinascenza urbanistico-architettonica di Tlaxcala destinata a diventare città di rappresentanza del potere ispanico in competizione con la Città di México. Avvenne in questo modo che la costruzione della struttura effimera raffigurante Gerusalemme si sovrappose alla edificazione in corso dei grandi edifici contigui al palazzo municipale, prospiciente la grandiosa plaza mayor, integrata da cinque alte torri riccamente adornate di fiori, offrendo alle migliaia di spettatori lo spettacolo straordinario di un impianto scenico provvisorio inusuale per la cultura indigena che fu concepito in concorrenza con quello realizzato mesi prima nella Città di México per La conquista de Rodas.

Ciò che maggiormente fece la differenza rispetto alle consuetudini festive della popolazione locale fu la “regia” e la gestione politica dello spettacolo, per il quale furono impegnati migliaia di figuranti distribuiti nei diversi schieramenti: esercito spagnolo, esercito delle province della Nuova Spagna, mori di Tunisi con gli eserciti alleati della Galilea, della Giudea, della Samaria, di Damasco e della Siria. Si trattava di una vera e propria panoramica dei territori del dominio ispanico. Per l’Europa sfilavano per la battaglia: Castiglia, Leon, Toledo, Galizia, Granada, Navarra, e poi Germania, Roma, Italia. Per la Nueva España entrarono in campo con gli stendardi reali e le armi del vicere Don Antonio Mendoza: Huaxtecas, Zampaltecas, Mixtecas, Colhuaques, e le Capitanie del Perù, di Santo Domingo e di Cuba; e ancora Tarascas e Cuaulitemaltecas.

L’esercito della Nuova Spagna, vestito alla spagnola con tamburi e pifari in assoluto ordine secondo la disciplina militare europea era preceduto da uomini di rango chiamati “Teuhpipiltin”, vestiti di ricchi piumaggi. Nell’insieme lo spettacolo aveva pertanto le caratteristiche di una parata dimostrativa della potenza spagnola, fatta di cortei paratattici che entravano nella plaza mayor disponendosi negli spazi loro destinati ai due lati di “Gerusalemme”, all’interno della quale erano schierati ben visibili i mori “infedeli”. La visione statica frontale degli eserciti e dei loro condottieri pronti per la battaglia veniva integrata dalla struttura raffigurante la “Santa Fe” posta al centro della piazza e dal grandioso palco addobbato all’europea, sul quale prendevano posto le massime autorità della Chiesa presenti in México.

La sede imperiale era collocata invece al di fuori della piazza, mentre, una volta fatto l’ingresso trionfale con grande pompa nella piazza grande insieme al re di Francia e al re d’Inghilterra, Carlo V prendeva posto accanto alla Santa Fede. Iniziava quindi l’azione muta, articolata in sei scontri fra cristiani e mori intervallati da dispacci doppi (comunicazione e risposta) che venivano letti al pubblico, attraverso i quali i personaggi principali dialogavano fra loro (ad esempio il Capitano Generale con l’Imperatore, l’Imperatore con il Papa, ecc., fino ai dispacci fra il Sultano e l’Imperatore).

Nell’ultima parte dell’azione entravano in campo Santiago (patrono della Spagna) su un cavallo bianco e sant’Ippolito (patrono della Nuova Spagna) su un cavallo nero a difesa dei cristiani, mentre l’apparizione dell’arcangelo Michele poneva fine al conflitto convincendo il Sultano a rivolgere segnali di pace verso l’Imperatore. A questo punto l’Imperatore si avviava verso la porta di Gerusalemme dove stava ad attenderlo il Sultano. Giunti davanti al simbolo del SS. Sacramento della festa del Corpus Christi in corso, i due capi, del mondo cristiano e di quello musulmano, venivano accolti dal “Papa”, intanto che molti adulti chiedevano di essere battezzati.

La regolarità dell’evoluzione delle diverse fasi dell’azione, nonostante qualche incertezza iniziale dovuta alla difficoltà incontrata dagli eserciti a farsi largo nella piazza gremita da una folla immensa, prima di prendere posto nei loro luoghi deputati opportunamente protetti da steccati dipinti, testimoniò l’esperienza organizzativa di Motolinía che curò tutta la messinscena, e le capacità “registiche” di un anonimo francescano, nel ruolo anche di direttore delle comparse, che dovette avvalersi della collaborazione del comando militare spagnolo. Dalle truppe iberiche di stanza in quel viceregno, oltre agli indios locali fu prelevata del resto parte dei figuranti che parteciparono ai cortei militari e agli scontri scenici, nei quali proprio gli indios si distinsero per efficacia interpretativa (ai frati spettò invece il ruolo figurante dei personaggi della Chiesa), e fu la stessa tecnica militare della comunicazione a distanza attraverso i dispacci a rispondere all’esigenza di informare il pubblico sull’evoluzione dell’azione. E non si risparmiarono gli spari di batterie, anch’esse a dimostrazione della potenza di fuoco dell’esercito conquistatore, mentre ad un certo punto dell’azione l’incendio di una casa di paglia alzata fra le torri arricchì le suggestioni di una sorta di set cinematografico en plein air.

Nel complesso l’evento in sé, pertanto, rispose allo stile europeo di una messinscena regolata dai meccanismi di potere della monarchia dominante. Anche in questo caso, tuttavia, tale forma di teatro, amplificata su scala urbana al di sopra degli standard del vecchio continente, non poté non integrarsi nel sistema della grande festa religiosa. Particolarmente curati furono gli addobbi urbani. Lungo le strade si ripeté la combinazione dei grandi archi trionfali (in numero di dieci) e degli archi a tre ordini (1.400) cui si aggiunsero cappelle con altari e retablos. La novità, invece, consistette nella funzione assunta da tre imponenti montagne effimere raffigurate al naturale che, al di là dell’impatto visivo, furono attrezzate e articolate per consentire le diverse azioni dei rispettivi autos. Anche in questo caso le grandi piazze della città garantirono particolare risalto agli scenari edificanti e alle proporzioni “gigantesche” delle montagne di scena. La dimensione della struttura montuosa consentiva di rafforzare così l’effetto scenico di Lucifero che compariva dall’alto. Al tempo stesso, l’argomento della tentazione era un efficace adattamento alla realtà paesaggistica ed economica di quel territorio, consistendo esso nel mostrare a Gesù le bellezze e le ricchezze della Nuova Spagna, ma anche la potenza militare della Castiglia dominante, la ricchezza delle mercanzie di provenienza ispanica e la vastità dei domini imperiali insieme ai luoghi più significativi del mondo conosciuto, da Roma a Gerusalemme. Pur di fronte al riconoscimento del valore di quel territorio, e della potenza della monarchia conquistatrice, tuttavia, la spettacolare caduta del demonio di fronte al diniego di Gesù Cristo e il canto di un nutrito coro di angeli non dovevano lasciare dubbi sulla grandezza di Gesù, vero riferimento e certezza per gli uomini del mondo.

Il secondo atto confermò la tecnica dell’adattamento alla realtà topica sul piano dei contenuti oltre che dell’azione. L’opera, che doveva rappresentare, anch’essa su un monte, san Francesco che parla agli uccelli, da un lato mostrava la straordinaria varietà di volatili di quel territorio che sembravano chiedere la benedizione del santo, dall’altro metteva in scena una bestia feroce, evidentemente finta, che attraverso l’interpretazione mimica del figurante che ne indossava la pelle mostrava di accogliere il rimprovero di san Francesco per il suo violento operato e la conseguente obbedienza esemplare per tutti gli uomini, e in particolare per gli spettatori di quel momento.

Da questo punto di vista l’azione fu accompagnata da veri e propri sermoni diretti dal frate francescano che interpretava Francesco d’Assisi e che si estese ad una plateale condanna dei vizi di quegli indigeni, in particolare quello dell’incontinenza nel bere. Fu così che san Francesco, di fronte al persistere dell’atteggiamento sconsiderato di un ubriaco, chiamò i demoni dello “spaventoso inferno” che stava vicino a lui. L’azione a quel punto divenne spettacolarmente terribile, con l’uscita di numerosi diavoli che trascinavano nella bocca dell’inferno stesso i renitenti tra effetti di fuoco, voci e grida di peccatori, intanto che san Francesco continuava il suo sermone. A conclusione di esso, la processione del SS. Sacramento riprendeva il suo percorso fino al luogo dove avveniva la breve rappresentazione del terzo auto, El Sacrificio de Abrahan, prima del rientro in chiesa.

L’articolazione della festa del Corpus Christi a Tlaxcala, con l’inglobamento dello spettacolo celebrativo della pace fra l’imperatore Carlo e il re di Francia, fu la testimonianza più alta del livello raggiunto dallo spettacolo di ispirazione devozionale, nonostante la presenza della componente politica legata agli interessi della monarchia dominante. Bisogna però precisare che l’attuazione di questo inglobamento fu preceduta da una fiesta de alegrias avvenuta alcuni mesi prima (febbraio 1539), anch’essa riguardante i festeggiamenti per la pace di Nizza del 1538, per la quale le due componenti, quella precolombiana e quella europea, si intrecciarono dando vita ad una forma di spettacolo originale che sembrò annunciare interessanti sviluppi che avrebbero portato al cosiddetto barocco americano.

coverLa differenza fra l’idea di spettacolo legata all’identità spirituale e alla storia degli indios, nonostante l’inglobamento in una sfera celebrativa “alta”, e l’idea di una rappresentazione artatamente costruita secondo tecniche importate dall’Europa come proiezione della propaganda politica promossa dalla monarchia dominante, fu evidente rispetto alla rappresentazione de La Conquista de Rodas, messa in scena il secondo giorno dei festeggiamenti. Per l’occasione l’immagine ideale della città di Rodi, come testimonia Díaz de Castillo [20], presentava edifici e torri alti quanto le architetture della plaza mayor, mentre sulla quota terra quattro grandi macchine mobili in forma di navi a vela navigavano come se fossero nell’acqua. La scena si animava con gli spari di artiglieria e con gli attacchi sferrati dagli spagnoli a cavallo e a piedi contro i turchi.

Questa forma di messinscena, oltre ad ispirare, come abbiamo detto, la rappresentazione della conquista di Gerusalemme dello stesso anno a Tlaxcala, pur senza la presenza delle navi, dovette costituire una sorta di exemplum per la rappresentazione kolossal La Batalla de Lepanto che ebbe luogo nel 1572 [21]. Per l’occasione fu alzato un gigantesco edificio in legno protetto da una muraglia rettangolare dotata di quattro alte torri. L’azione aveva inizio con l’avanzata delle navi che davano luogo alla battaglia prima dell’assalto dei cavalieri e dei fanti. E anche in questo caso non mancò l’aggancio all’evento religioso. Nonostante la notizia della vittoria di Lepanto fosse giunta in México all’inizio del 1572, si attese la festa in onore di Santiago, il 25 luglio, per mettere in scena questo grande spettacolo urbano.

codiceAnche per la messinscena de La Batalla de Lepanto, come era accaduto per le rappresentazioni ispirate alla presa di Rodi e alla conquista di Gerusalemme, si trattò di eventi dimostrativi della potenza delle armate della monarchia dominante contro il nemico “infedele” e della legittimità del dominio coloniale. Il successo dei cristiani nella battaglia di Lepanto, in particolare, per la vasta risonanza che ebbe e per la spettacolarità che derivava dalla rappresentazione di quell’evento, non mancò di stimolare imponenti festeggiamenti anche in altre città del continente americano ispanizzato, come avvenne a Cuzco dove si inscenò un vero e proprio «combate de galeras de fuego», mentre si ripeté la tecnica di alzare da un lato della plaza mayor «un castillo de nuevo canteado y almenado» [22]. In quella occasione lo spettacolare evento servì ad esaltare le caratteristiche della plaza mayor che, già concepita in età precoloniale come luogo di incontro della collettività del territorio, era stata adeguata all’idea della spazialità scenica urbana della monarchia ispanica. 

In un clima di progressiva assunzione di ruoli di responsabilità da parte della società locale laica, comunque concordati con gli evangelizzatori, va inquadrato l’inserimento dell’autorità comunale nella organizzazione della festa devota, in particolare di quella del Corpus Christi. È quanto si rileva dagli Atti del Cabildo nel periodo compreso fra il 1547 e il 1567 [23]. Da essi si evince che sotto il coordinamento di Diego Ramírez, corregidor per sua maestà nella provincia di Tlaxcala, il Cabildo della città nel 1550 si occupava di addobbi urbani, balli e pantomime [24], mentre nel 1555 si faceva carico anche dei costumi e delle maschere per la messinscena di una rappresentazione teatrale, verisimilmente sul tema del Giudizio Universale, in cui comparivano angeli e demoni [25].

Su un altro piano l’azione evangelizzatrice sviluppatasi nelle città più importanti del México ad opera dei francescani non poté non stimolare sentimenti di emulazione da parte degli abitanti dei centri minori, dove pure i francescani estesero la loro opera missionaria. Fu così che l’espansione macroterritoriale dell’azione evangelizzatrice finì per determinare una sorta di assorbimento del messaggio salvifico nato in area europea, fino a determinare le condizioni per una naturale simbiosi fra la spiritualità cristiana e il mondo indigeno che ne divenne nuovo, originale interprete.

25Sembrò in questo modo che una forma di teatro con una modalità totalmente estranea alla cultura scenica consolidata in Europa, individualista e accademica, fosse possibile; ossia quella di una effettiva, totale e autentica “popolarizzazione” della scena fatta di identità di massa, dove l’attore, il danzatore, il musico, o più in generale il performer, piuttosto che vivere di vita professionistica autonoma, entravano a far parte di un unico tessuto antropologicamente individuabile, che sembrava potersi congiungere con la tensione evangelizzatrice promossa dai missionari. Senonché questa prospettiva ideale fu spesso distorta nella concretezza da libere interpretazioni ed eccessi ai quali si abbandonarono gli indios, affrancati dal rigore di regole individuabili nelle realtà conventuali dei centri maggiori.

È quanto poté constatare personalmente fra Alonso Ponce quando nella seconda metà degli anni Ottanta del Cinquecento, ebbe modo di visitare numerosi centri minori della sua giurisdizione. Ad Acamabaro il 15 ottobre 1586 assistette alla rappresentazione di alcuni autos in forma di quadri della vita reale: una sorta di teatralizzazione dei mestieri con gli artigiani veri in scena. Come dire: una anticipazione plurisecolare dell’utopia teatrale di Mejerchol’d. Fu così che scene mute con suoni di martelli (di falegnami, di fabbri, ecc.) e di altri strumenti di lavoro legati all’economia locale espressi ad arte al ritmo della musica si avvicendavano accompagnati da balli e canti, mentre il popolo, vestito a festa, si univa a questa esibizione nel patio del convento addobbato con venti grandi archi infiorati, sotto ciascuno dei quali era alzato un altare [26].

Meno di un mese dopo, il 9 novembre 1586, il popolo di San Jerónimo partecipò ad un’altra invenzione scenica legata a tradizioni popolari preispaniche inserite nella rappresentazione dedicata a san Pietro. In occasione dell’arrivo di padre Ponce ci fu l’intervento di un indio in veste di buffone (recuperato dalla tradizione teatrale na-huatl) che dialogava con il pubblico, seguito da danze, in una delle quali si esibì un indio raffigurante la Morte, e ancora un nero dal parlare sciocco, mentre in un luogo a sé deputato adorno di rami un vecchio indio interpretò il ruolo di san Pietro con una grande chiave in una mano e una rete nell’altra; né mancarono in un altro sito addobbato al naturale le statue di san Pietro e di sant’Andrea e l’effetto spettacolare dei pesci pescati nelle acque della laguna: tutte invenzioni del popolo indigeno realizzate d’intesa con i frati francescani.

26Nel complesso si può dire che gli indios dei centri minori, meno acculturati alla dominante colonizzatrice, interpretarono il senso della festa devota come evento nel quale poter trasferire la propria cultura e la propria identità. Per questa ragione sembrò che la tensione edificante e moralizzatrice della prima stagione evangelizzatrice rischiasse di venire adulterata dallo straripare della fantasia espressiva delle tradizioni indigene. A favorire il declino del teatro degli evangelizzatori francescani contribuiva intanto XVI l’azione del Santo Uffizio che, soprattutto sul finire del secolo, si produsse in una vera persecuzione censoria nei confronti dei comediantes, riservandosi «el conocimiento y castigo de los excesos que se cometieren».

Esiste d’altro canto un’altra causa di debolezza che giocava a sfavore degli Ordini mendicanti rispetto alla stagione eroica degli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento. Essa era dovuta, oltre che al ricambio generazionale degli indigeni rispetto al primo Cinquecento che avevano vissuto positivamente l’ondata della novità evangelizzatrice, anche alle terribili epidemie, soprattutto di peste, che devastarono le popolazioni degli indios, seminando pessimismo e malcontento. Inoltre, alla fine del Cinquecento, era aumentato il numero degli spagnoli, dei creoli, dei meticci, dei neri e dei mulatti: tutti gruppi di diversa provenienza non legati, come ha già notato Horcasitas, all’opera dei missionari [27].

In questo contesto di generale decadenza si videro le cerimonie nei patii e nelle chiese non più affollate come in passato, mentre le capillas apiertas cadevano in disuso. Le scuole di pittura murale cessavano di esistere o si ridussero fino a scomparire quasi del tutto; come pure l’attività intellettuale di cronisti e letterati sia missionari che indigeni. Si spense l’entusiasmo e l’attività febbrile di studenti Nahuas, che tanto avevano contribuito all’opera di traduzione di testi spagnoli e latini e che si erano cimentati nella scrittura di nuovi testi teatrali nella lingua indigena. E c’è un altro aspetto non secondario che spinse Filippo II a contrastare il perdurare della totale integrazione del sentimento ritualista indigeno con il cerimonialismo della fede cattolica. Esso consisteva proprio nello straordinario impegno ed entusiasmo preparatorio dei grandi spettacoli urbani, sia nel campo della messinscena che dell’apprendimento dei testi e delle musiche, oltre che delle danze e di tutta l’orchestrazione della rappresentazione, che secondo il monarca sottraeva per parecchi giorni gli indios alle occupazioni produttive.

Giudicati responsabili di questo manque lavorativo, gli Ordini mendicanti videro così venir meno la possibilità di dar vita a rappresentazioni drammatiche, e con essa quella di garantire un’evoluzione al teatro religioso e popolare indoispanico legato alle origini primitive della cultura na-huatl. Da qui semmai prese avvio, secondo alcuni studiosi, una sorta di involuzione verso il folklorismo [28]. Di questo furono consapevoli gli stessi francescani; e questa fu la critica rivolta dall’ordine dei gesuiti che subentrarono ai francescani, realizzando nel proseguo il teatro di evangelizzazione. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] La difesa dei valori positivi dell’identità indigena non in contrasto con la morale cristiana fu uno dei punti di attrito con i princìpi della monarchia dominante, orientata peraltro ad imporre anche nelle rappresentazioni del teatro sacro l’uso della lingua castigliana. Allo stesso modo i francescani, sin dal loro arrivo nel Nuovo Continente, si impegnarono a contrastare sfruttamento e violenze perpetrate nei confronti degli indios da parte di comenderos senza scrupoli. 
[2] La lingua ufficiale dell’impero Azteco era il na-huatl. In questa lingua i missionari scrissero numerose opere drammatiche. Idiomi minori erano, fra gli altri, il huaxteco e il totonaco. Sulla costa del Golfo si parlava l’otomí; nel Centro-Sud il mixteco e lo zapoteco; nell’Est il tarasco. 
[3]Toribio de Benavente Motolinía (da ora Motolinía), Historia de los Indios de la Nueva España, Barcelona, Linkgua, 2012, II, cap. III: 105-106. 
[4]J. de Mendieta, Historia eclesiástica indiana, México, Antigua Librería, 1870, III, cap. 18: 222-223. 
[5] Ivi: 223. 
[6]Fra Agustin Dávila Palilla, cronista dell’Ordine domenicano, ci ha lasciato testimonianza di un telone che fu utilizzato per l’illustrazione dell’inferno. In esso era raffigurata una grande massa d’acqua che rappresentava l’instabilità della vita terrena. Sulle acque navigavano due grandi imbarcazioni che trasportavano indios con rosari in mano. Alcuni angeli porgevano loro rosari invitandoli a remare per raggiungere la “gloria”. Demoni, a loro volta, anch’essi seduti su quelle imbarcazioni, facevano in modo che esse non avanzassero. Angeli e indios però riuscivano a neutralizzare il tentativo dei demoni. Su un’altra barca invece una allegra compagnia di indios si ubriacava di vino e si abbandonava ad atteggiamenti lascivi. Su di essa volavano angeli che porgevano rosari agli indigeni intanto che i demoni remavano per condurre velocemente i naviganti verso l’inferno che appariva raffigurato nella parte bassa della tela (A. Dávila Palilla, Historia de la fundación y discurso de la Provincia de Santiago de México, Madrid, Editorial Academico, 1955: 257-258). 
[7] J. de Mendieta, Historia eclesiástica indiana, cit., V, cap. 42: 666.
[8]Cfr. in proposito le testimonianze riportate da J. de Mendieta, ivi, III, cap. 29: 249-250; J. de Torquemada, Monarquia Indiana, México, Porrua, 1969, flV, cap. 25, v. 5: 112; D. Valadés, Retorica cristiana, Perugia, 1579, IV, cap. 23: 477-481. 
[9] E.I.E. de Gerlero, La demonología en la obra gráfica de fray Diego Valadés, in Iconologia y Sociedad. Arte colonial hispanoamericano, México, Unam, 1987: 82. 
[10]Il manoscritto, dal titolo Nexcuitilmachiotl Motenehua, copia tarda (1678) dell’originale, è conservato presso la Biblioteca del Congresso di fiashington, AC. 1139. Cfr. in proposito F. Horcasitas, Teatro na-huatl, México, Instituto de Investigaciones Históricas, 1974: 564. 
[11]Oltre che da fra Jerónimo de Mendieta, l’evento è testimoniato da fra Bartolomé de Las Casas, Historia de las Indias, Madrid, ed. Serrano y Lang, 1909. 
[12]I primi due quadri si riferivano ad un luogo indeterminato dell’ultimo giorno. In esso san Michele, la Penitenza, il Tempo, la Santa Chiesa e la Morte esortano l’umanità a vivere una vita morale e annunciano la fine del mondo. Nel terzo quadro la peccatrice Lucia decide di confessarsi. Nel quarto quadro l’Anticristo cerca di sedurre l’Umanità, ma non riesce a convincere i buoni. Il quinto e il sesto quadro si svolgono in cielo. Cristo ordina a san Michele che si prepari per il giudizio finale. San Michele suona la tromba e resuscita i morti. Nel settimo appare brevemente l’Anticristo. Nei due quadri successivi viene giudicata l’Umanità e Lucia viene condannata all’inferno. Nell’ultimo quadro compare un sacerdote davanti agli spettatori e li esorta a stare sempre preparati per il giudizio. 
[13]Fra B. de Las Casas, Apologética historia sumaria, México, Unam, 1967, I: 334. 
[14] Ivi: 71. 
[15] Ibid. 
[16]Tra i frati francescani autori di sacre rappresentazioni, oltre a fra Andrés de Olmos, autore del Juicio final, un ruolo di primo piano va riconosciuto a fra Motolinía, al quale vanno attribuiti almeno buona parte degli autos rappresentati a Tlaxcala negli anni 1538-1539. Oltre agli autos legati alla festa di San Giovanni del 1538, ad eccezione probabilmente dell’auto La Anunciación a la Virgen, è molto probabile che egli sia stato l’autore dell’auto La Caida de Adan y Eva rappresentato nel 1539, di cui si parlerà più avanti. Allo stesso modo è verosimile che Motolinía abbia scritto anche l’auto intitolato La conquista de Jerusalen. È questa l’ipotesi di M. Antonio Arango (El teatro religioso colonial en la América Hispana, Barcelona, Puvill, 1997). Arango rileva che in quella messinscena il ruolo del capitano generale degli eserciti spagnoli fu sostenuto da Don Antonio Pimental, conte di Benavente, signore dello stesso territorio di provenienza di Motolinía. Del resto il conte di Benavente fu sempre protettore della provincia francescana di Santiago retta da Motolinía, il quale proprio a Don Antonio Pimental rivolse il prologo della sua (citata) Historia de las Indias. Altro autore di autos dovette essere fra Juan de Ribas, del quale padre Agustín de Vetancurt dice: «Este fue el primero que conociendo el material genio de los indios, y que mejor que por los oídos les mitraría la Fe por los ojos, hizo y ordenó representaciones de los misterios de ella, para que vieran y más fácil percivieran lo que en la continua tarea de su predicación les explicaba, y aún con las más expresabas vozes de su idioma se les hazía duro de entender el sermón». – Tra gli altri frati autori di teatro sacro si ricordano fra Juan de Gaona, fra Francisco de Gamboa, fra Bautista, fra Jacobo de Testera dei quali ci danno notizia in particolare p. Jerónimo de Mendieta (Historia eclesiástica indiana, cit., IV) e padre Torquemada (Monarquía indiana, cit., III). Quest’ultimo scrive: «También se reconoce por autor de comedias el padre Juan de Gaona, teólogo parisense, quien vino procedente de la Provincia de Burgos, llegó a Méjico en 1538 como misionero. Escribió obras importantes de teatro». Secondo fra Jerónimo de Mendieta padre Gaona scrisse «unos diálogos o coloquios que andan impresos, de la lengua más pura y elegante que hasta ahora se ha visto.» Mendieta riferendosi all’opera di fra Jacobo de Testera, inviato in México nel 1529 o 1530, dice: «hizo grandísimo provecho a los naturales, y también con representaciones, de que mucho usuaba». Di fra Francisco de Gamboa p. Torquemada ci dice che «ordenó la estación de los viernes a los naturales, haciendo la representación de un Paso de la Pasión de Christo Nuestro Señor, en un discurso del sermón que se predicaba. Y en su tiempo se instituyeron unas representaciones de ejemplos, a manera de comedias, los domingos en la tarde, después de haver havido sermón». Di fra Bautista fa menzione anche fra del Paso y Trancoso (Comedia de los Reyes, Florencia 1902, in Biblioteca Na-huatl, I, El Teatro (Cuaderno 3: 80). Di questo frate si ricorda che fu autore di tre libri di comedias dedicati rispettivamente alla Penitencia, ai principali articoli della Nuestra Santa Fe e alla Parabola del Evangelo. Per la stesura di queste comedias fra Bautista dichiara di essersi avvalso della collaborazione del suo discepolo indio Agustin de la Fuente. 
[17]B. de Las Casas, Apologética historia sumaria, cit., I: 82-84. Cfr. anche: M.A. Arango, El teatro religioso colonial, cit.: 87 sgg. Arango riporta anche un elenco ragionato di comedias in lingua na-huatl scritte e rappresentate nel sec. flVI e all’inizio del sec. flVII ricavato da raccolte manoscritte, fra le quali un volume compilato da Cristobal Gutiérrez de Luna conservato presso l’Università di Texas, al quale si riferisce uno studio di Carlos E. Castañeda, Los manuscritos perdidos de Guitérrez Luna (cfr. M.A. Arango, El teatro religioso colonial, cit.: 102, n. 100). 
[18]Motolinía, Historia de los Indios, cit., I, 15: 83. 
[19] Su questo argomento rimando per tutti al mio saggio Tra le forme del teatro en plein air, Roma, Bulzoni, 2014. 
[20] B. Díaz de Castillo, Historia verdadera, cit.: 488-489. 
[21] La descrizione di questo spettacolo è riportata in Historia de la Nacion mexicana reproducida a todo color del Códice de 1576 (Códice Aubin), trad. C. Dibble, Madrid, J. Porrùa Turangas, 1956, f. 58. 
[22] Relación de las fiestas que se hacieron en la ciudad del Cuzco por la nueva de la batalla naval, in Colección de documentos inéditos relativos al descubrimiento, conquista y colonización de las posesiónes españolas en America y Oceania, Madrid, M. Quiros, 1864-1883, t. flflIV: 171-172. 
[23] E.C. Solís, Actas del Cabildo de Tlaxcala (1547-1567), México, Archivo Géneral de la Nación, Instituto Tlaxcalteca de la Cultura, 1984. Ad essi fa riferimento anche M.B. Aracil Varón, El teatro evangelizador, Roma, Bulzoni, 1999: 321-322. 
[24] Ivi: 260. 
[25] Ivi: 350. 
[26] Cfr. Antonio de Ciudad Real, Relación breve y verdadera, cit., I: 525. 
[27] F. Horcasitas, Teatro na-huatl, cit.: 163. 
[28] Si veda in particolare J. Juan Arrom, El teatro de Hispanoamérica en la época colonial, Anuario Bibliográfico, La Habana 1956: 50.

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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone e Il Teatro dei gesuiti sono i titoli delle sue ultime pubblicazioni.

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