di Lella Di Marco
Quando ho iniziato la mia pratica sociale con le donne immigrate arabe, era appena arrivato in libreria, tradotto, Il linguaggio della Dea, di Marjia Gimbutas, l’archeologa lituana che aveva ripreso il mito della Grande Dea Madre, studiando i siti archeologici di Kataloujiuk in Turchia: segni e graffiti su pareti, ceramiche, pietre, presenti, anche, in molte aree mediterranee. La scoperta di un mito transculturale che forse non ha mai avuto un periodo storico in cui il potere era matriarcale (come ipotizzò nell’Ottocento lo storico evoluzionista Bachofen) è da considerarsi una dimensione dell’anima, una cultura femminile che, nonostante sia stata stravolta e demonizzata, talvolta riemerge. I segni simbolici, che si riferiscono alla cultura della Dea , sono segni di cui le donne arabe sono portatrici inconsapevoli. La verità è che ero affascinata dai tessuti, dai ricami, dai tappeti e dai tatuaggi che le donne analfabete immigrate a Bologna da villaggi sperduti del Marocco, erano in grado di realizzare.
Hum Hoeni a memoria tesseva in trame e orditi, con fili di lana colorati, simboli arcaici con richiamo agli organi genitali femminili, all’essere la donna vergine o gravida. Quando le ho spiegato il significato simbolico di quello che stava tessendo, sorpresa ma sorridente mi disse: «che non lo sappia mio marito!». Mi ha confessato che quando tesse «quel tempo è proprio suo», con il telaio custodito in camera da letto, lontano dai maschi, (come da tradizione), si sente proprio nell’atto della creazione. Come un parto, piacevolissimo e intenso.
Tale racconto per dire che molti gesti della cultura araba c’entrano poco con la religione, come loro stessi, uomini e donne arabi credono o hanno l’abitudine a credere. Così per il velo, pezzettino di stoffa sul quale si accendono grandi dibattiti, polemiche, scelte politiche che poi si spengono, per riaccendersi alla prima occasione.
Il velo musulmano ha una storia lunga iniziata prima dell’avvento dell’Islam, e il riferimento alla religione, al Corano è decisamente una falsità politica. Un pretesto sul quale politici, indigeni e colonizzatori, hanno strumentalmente esercitato uno storico potere sul corpo femminile. C’è un dibattito in corso nei Paesi arabi e fra musulmane che abitano in Occidente, ma la riflessione è circoscritta all’elite di intellettuali. Uomini e donne.
Su questo e su quasi tutta la cultura araba, l’ignoranza anche in Occidente è molto alta, complici intellettuali e artisti francesi di epoca coloniale, i quali hanno creato un loro immaginario sulla donna velata, sul corpo nero, sulle odalische. Frutto, della loro morbosità, del desiderio sessuale, del bisogno di svelare il velato. Quando l’Islam andava di moda, la Francia costruiva il Gran Bazar dell’esotismo e la fascinazione narrativa prevaleva sul reale. L’Islam era harem e veli, un passato glorioso che oggi arabofili e islamofobi strumentalizzano, ad uso proprio. Non è possibile rifarsi ad una improbabile verità iniziale a cominciare storicamente dal velo e dalla donna velata, diventata immagine, icona, simbolo. Se è facile ricostruire la storia del velo a cominciare dalle società greca, latina, cristiana e dall’uso politico che ne è stato fatto, tra divieti e concessioni, ci lascia sconcertate e capiamo meno l’uso delle immagini di donne velate e il significato recondito cui si vuol fare riferimento. Intorno al velo, al suo uso e al significato presso il costume e la cultura dei popoli musulmani, abbiamo consultato documenti storici, la pubblicistica ad opera di intellettuali arabi e non, saggi di femministe islamiche, echi e discorsi dal fronte dei lunghi dibattiti e prese di posizione di singoli studiosi e di istituzioni pubbliche, e soprattutto, parlando e “agendo socialmente” con donne musulmane immigrate e le loro figlie ormai adolescenti o maggiorenni. Velate e non.
Le ragazze di origine araba sono figlie delle loro madri, a volte in contrasto con loro, ma decisamente ne continuano “ l’opera”, rinnovandola. Sul velo tutte le giovani esprimono lo stesso pensiero: lo indossano liberamente, nessuna costrizione su di loro, ma un libero bisogno di rivendicare, con l’estrema visibilità, il loro essere musulmane. In un paese dove non si sentono inserite o accettate del tutto, loro si ostinano a coprirsi il capo, mentre indossano jens e magliette come le loro coetanee native. In questo sono identiche e diverse alle loro mamme che ne danno, con orgoglio, un’ampia spiegazione religiosa, mentre le figlie danno l’impressione di rivendicare l’essere musulmane non solo come un dato religioso ma come un fatto identitario, di appartenenza. Un elemento in cui riconoscersi ed essere riconosciute e rispettate. Le giovani figlie della migrazione mostrano con ostentazione le loro collezioni di veli: trasparenti, opachi, coloratissimi bianchi o neri, e le forme fantasiose di indossarlo: creative e decisamente attraenti e seduttive. Fanno tendenza e sono disinvolte sentendosi “protette”e meno vulnerabili con la loro “protezione” sui capelli. Gentili, generose, disponibili a svelare arcaici saperi sui trucchi e la bellezza del paese di provenienza delle madri, non riescono a discutere sui loro principi religiosi. Sono il loro punto fermo da difendere, come scelta di libertà. Non c’è dialettica. Capiscono come spesso il velo diventi la punta dell’iceberg dei dibattiti sui diritti in Islam. Pretestuoso se non addirittura falso. Però non è falso che le giovani arabe, in Occidente considerino il velo anche un elemento di attrazione. Non è fuor di luogo pensare che si velano per nascondersi, ma così facendo s-velano di nascondersi, facendosi vedere, ferendo lo sguardo degli europei con il loro sedimentato immaginario da coloni.
Le speculazioni teoriche sul velo, ad opera di intellettuali arabi e non, islamofili ed islamofobi continua. L’ultima riflessione con la quale ci siamo confrontate è quella di Bruno Nassim Aboudrar che, nel suo Come il velo è diventato musulmano (Ed. Cortina, 2015), ne fa un percorso storico, dimostrando che il velo non nasce musulmano ma lo diventa, che nel Corano non se ne fa menzione, che la genesi che impone l’obbligo di indossarlo è complessa e politica, con grandi responsabilità della Francia colonizzatrice. Se il velo traumatizza gli occidentali, non è tanto perché offende la dignità delle donne o viola il senso della laicità ma soprattutto perché stravolge un ordine mentale-visuale fondato sulla trasparenza e vi contrappone provocatoriamente una esaltazione della “segretezza”. Si chiede ancora l’autore: «ma le donne musulmane che vivono in Occidente, sanno quel che fanno?». La risposta è ancora letteraria e appartiene sorprendentemente ad una giovanissima scrittice, diventata famosa a quindici anni con Sognando Palestina, Randa Ghazi. Nata a Saronno da genitori originari di Alessandria d’Egitto, milanese di adozione, sostiene che è «il velo è un’arma di distrazione di massa». Con evidente riferimento a tutti i dibattiti e prese di posizioni pretestuosi e mistificanti, che nulla arrecano alla comprensione e al miglioramento della condizione della donna araba.
Abbiamo realizzato a Bologna, per circa due anni, interventi mirati con ragazze adolescenti e giovani donne, sulla funzione del corpo, il prendersene cura, il tenerlo “in ordine” per imparare ad ascoltarlo, capirlo, accettarlo. Conviverci con grande senso della bellezza. La bellezza non solo come estetica, ma anche come armonia, ben-essere, essere liete e sapere rallegrare i luoghi. Le nostre corsiste sono nate e cresciute in Italia o altrove ma quasi tutte sono figlie “della migrazione”.
Il corso Le ragazze e lo specchio non prevedeva costi nè particolari competenze o preparazione. Era soltanto richiesto che portassero la loro borsetta con i trucchi, se ne possedevano una, spolverare le informazioni sulle abitudini delle loro mamme, zie, nonne, amiche in merito, avere conoscenza della composizione dei prodotti usati, adottare le pratiche tradizionali del Paese di provenienza come l’uso di erbe e di altre sostanze naturali Obiettivi del corso erano legati alla formazione della identità di genere e all’acquisizione di maggiore consapevolezza delle consuetudini seguite, individualmente, anche fuori dal corso.
Come Annassim, associazione di donne native e migranti, non abbiamo mai visto tante ragazze, dai 13 ai 24 anni, partecipare con gioia ed entusiasmo alle nostre iniziative, e sorprendente per noi è stato trovarle non solo entusiaste e puntuali ma anche preparate su riferimenti al Corano, su quanto è consentito nella sfera pubblica, cioè nello spazio fuori da quello domestico, sul lecito e l’illecito, su quanto praticato “volutamente” per non essere diverse dalle coetanee italiane.
Perché la bellezza come centralità di vita? Amina, Latifa, Olfa, Rascida, Maryam, Aziza, Fatima, Hajar e le altre, non hanno bisogno di grande elaborazione teorica per riuscire ad esprimere il concetto di bellezza di cui lo stesso trucco è parte. Ne parlano con tranquillità ma con determinazione come fosse un precetto da praticare nel quotidiano. Con impegno religioso ma anche sociale ed etico-politico.
Latifa (Marocco), per esempio, dice che la sua mamma è bella perché «Allah le ha fatto tale dono», ma aggiunge che «la bellezza è dentro di noi e quotidianamente bisogna prendersene cura, coltivarla e proteggerla». Olfa (Tunisia) sostiene che «ogni donna araba ha i suoi segreti che tramanda alle proprie figlie». E le nonne? «Sono delle enciclopedie viventi. Conoscono tutto e lo praticano». Sua nonna a 80 anni sente il dovere di truccarsi, con rossetto rosso alle labbra, per dare un senso di vitalità a chi le sta intorno. «Le anziane, aggiunge Fatima (Palestina), hanno tale funzione. È il senso della loro vita: un impegno pedagogico. Si trasmette il sapere, si impara, si pratica e si ri-trasmette. Un po’ a catena». E appare molto strano, come in epoca non industriale, anche con le poche risorse di una civiltà agricola, i rimedi si trovassero e tra erbe spontanee regalate dalla Terra, minerali e altri elementi naturali, la cura della bellezza fosse comunque assicurata.
Fatima, venuta a Bologna da una realtà poverissima del sud del Marocco, completa il ragionamento aggiungendo che, anche nel suo paese da cui quasi tutti gli uomini sono emigrati, le donne sole si truccano, curano la loro bellezza per se stesse, non come arma di seduzione. Piace guardarsi allo specchio e vedere che “ci” sono ancora belle. Senza paura con il desiderio di autoaffermazione contro la precarietà e le sofferenze. Lei ha sentito dire che in realtà difficili, anche durante le guerre, le invasioni, le donne si occupano del loro aspetto, anche coperte da veli opachi. E poi l’hennè che non manca neppure nelle famiglie povere, dopo aver decorato le mani e tinto i capelli, con l’odore che sprigiona, dà una sensazione gradevolissima, sembra l’odore del pane fresco, di fichi appena raccolti … di paradiso. Era l’erba amata dal Profeta e regalarla alla sposa è augurio di fertilità. Infatti, in alcuni paesi in Marocco c’è ancora l’usanza di nascondere la prima notte di nozze, sotto i materassi degli sposi, un sacchettino pieno della preziosa erba, chiamata anche “erba del Paradiso”.
Le nostre corsiste hanno imparato dai racconti delle madri, cugine, zie, iraniane o algerine, che in tempi di occupazione, si erano attrezzate su come resistere alla repressione di talebani o “dei guardiani della rivoluzione” con i colori, il trucco, la bellezza. Anche nascondendo le unghie laccate rosso-fiamma dei piedi, avevano la sensazione di non soccombere e di salvare la loro dignità di donne, pur rischiando così di essere sgozzate dai maschi che le avrebbero potuto scoprire “ribelli”
Zorha (Tunisia rurale vicino Cartagine) è mia amica da quindici anni. Se la vado a trovare a casa, subito mi attacca per non essermi truccata, e prima ancora che io mi difenda mi porta in bagno, per un “pronto intervento estetico”. Mi spiega che ha dei “prodotti perfetti”, preparati dalla sua mamma in Tunisia, e così in men che non si dica, quella polvere di dattero e antimonio macerata sotto la sabbia bollente serve a truccarmi gli occhi, ovviamente con la sua maestria. Praticamente un kajal naturale, e lei soddisfatta del suo operato mi mette davanti lo specchio esclamando: «come sei bella! Sembri una beduina».
Un piccolo episodio, quello citato, per riflettere sulla considerazione del corpo nel mondo arabo: non come contenitore di vita ma come vita, esso stesso. In pratica, il rapporto è di segno divino, tanto nella espressione del sacro che nelle pratiche popolari. È fondamentale averne cura utilizzando i saperi e le pratiche trasmesse oralmente, anche perché la cura è di per sé sociale e non individuale e le fasi di transizione, nella vita delle donne, sono segnate dalla presenza della cura dei corpi, dall’attenzione alla loro bellezza e dalla gradevolezza del mostrarsi del corpo stesso. È forse giusto dire che il monoteismo islamico ha “sacralizzato” il corpo nella sua materialità, rivestendolo di simboli, segni sacri, regole che ne determinano anche la morale. Per esempio, l’orientamento nello spazio, per la preghiera, per la sepoltura, e per altri momenti fondanti della vita personale e collettiva. Indicazioni delle quali nella nostra cultura non c’è più traccia e ci vengono oggi riproposte da scoperte scientifiche o da discipline olistiche, in maniera elitaria.
Per quanto riguarda i riti di passaggio, il sapere e le pratiche sono affidati alle donne, che li trasmettono ad altre donne. Così la nascita, il matrimonio, la morte, data l’eccezionalità degli eventi meritano riti speciali e articolati. Il tutto avviene all’interno della famiglia, della rete di amici e parenti, con sapienza, affetto e complicità fra donne. Ho avuto grande piacere ed emozioni ad assistere, negli anni, al rito della decorazione del corpo della futura sposa, con l’hennè. Il giorno prima delle nozze l’Ennana, una donna esperta, competente, professionista, immigrata anche lei, realizza disegni della pianta sacra sulle mani, piedi e altre parti del corpo se la futura sposa lo desidera, dando vita ad un evento davvero coinvolgente, carico di valori simbolici ben augurali, a cui tutte le ragazze vorrebbero partecipare .
L’hammam è il luogo delle acque, del massaggio, della levigazione della pelle, della vaporizzazione dell’acqua calda e fredda, al profumo di arancia, menta, gelsomino, dove ci si rilassa e si beve il tè. Le donne arabe cercano di ricostruire, come possono, anche nel bagno di casa un ambiente simile, sia per pulizia che per la decorazione hennè. Nel centro storico di Bologna, da alcuni anni c’è un autentico bagno turco, in perfetto stile orientale, l’hammam blu, ricostruzione perfetta, non molto grande, tutto in bleu delle diverse sale, con mattonelle dipinte a mano con motivi floreali, vasche, docce, divani, lettini per massaggi secondo rituali arabi e berberi, un luogo raffinato, elegante; una originalità per Bologna, una opportunità che ancora rientra saltuariamente nelle pratiche dei bolognesi, ma che ogni tanto le donne arabe “si regalano”.
Nei nostri incontri le vere conduttrici sono state le ragazze. Maryam (18 anni nata e cresciuta in Italia, da madre egiziana e padre pugliese) ha tenuto delle vere “lezioni magistrali”. Le sue conoscenze e la sua abilità, soprattutto nel trucco degli occhi e nell’uso dei profumi, le hanno fruttato l’appellativo di “Cleopatra” e in seguito, a richiesta generale, ha gestito “il salotto di Cleopatra”, laboratorio esperienziale tra ampolline e polveri colorate, rigorosamente naturali. In Egitto, quella che chiamiamo erboristeria è stata sempre una pratica importante e scientificamente rinomata, attestata e diffusa in tutto il Medioriente. Maryam ci ha insegnato che il corpo deve essere ben lavato e pulito per poter assorbire i balsami profumati. E lei, abbracciando la cultura di cui la madre è portatrice, adora i profumi sulla pelle, sui capelli sugli abiti, l’odore del muschio bianco. Dice che la civiltà orientale è intrisa di profumi che lo stesso nome “moschea” significa “la profumata” e deriva da musk, muschio bianco, profumo sacro usato nei riti importanti come quello di purificare i morti prima della sepoltura. Fatiha cita il Profeta che ha detto: «dovete essere sempre come un fiore in mezzo al mondo profumato e bello».
Maryam ha appreso tali saperi per trasmissione orale, ma quello che sorprende è come, nella tradizione, gli elementi naturali, mischiati con sapienza empirica, abbiano una valenza scientifica. Sapere alchemico ripreso sistematicamente, oggi, da quelle branche di nuove discipline e professionalità che si pongono come alternative alle industrie chimiche e consumistiche comunque volte al benessere degli esseri umani. Mayam ha arricchito le sue lezioni con esperte, invitando a sua volta delle mamme arabe, così dalla sua Hend (egiziana) abbiamo appreso la cura delle salme, secondo il rito musulmano, con dovizie di particolari, dalle bende di lino profumate alla pulizia del corpo, all’uso delle erbe e di altre essenze profumate. Tra l’altro legati alla moschea a Bologna esistono gruppi di volontari, uomini e donne che si dedicano a tale operazione, proprio per onorare l’evento della morte: altro rito di passaggio.
Naima, mamma di Hajar (Marocco, dintorni di Essaouira) ci parla del sapone nero macerato nell’olio di olive nere con sale, nella giusta proporzione anche dei tempi di macerazione di mescolatura ed essiccazione sui tetti delle case. Esalta l’unicità dell’olio di argan e delle sue proprietà idratanti e rigeneratrici delle cellule. Dalla coltivazione delle piante alla raccolta delle bacche fino alla spremitura a caldo e a freddo, l’olio è usato sia per la nutizione che per la bellezza.
Naima pratica la depilazione e la decorazione del corpo come cosa naturale nel sapere femminile nei Paesi arabi, dove il passaggio di saperi avviene fra donne. Così viene trasmessa la conoscenza della preparazione con foglie e fiori, polveri da triturazione, olii balsamici, rimedi “olistici” di fatto che contemplano il benesseree di corpo, mente e spirito.
Zorha, la mamma di Olfa, viene invitata per la sua specifica competenza nell’arte della depilazione con zucchero e limone a caldo, tecnica halawa, naturale, che rende tutto il corpo levigato come un marmo. Tali operazioni mostrano l’importanza della pelle come luogo del “tatto” che Fatema Mernissi, scrittrice e sociologa marocchina, definiva “politica” (Al-jild siyàsa), il mezzo che ci fa conoscere il mondo.
Ci aiuta a capire meglio quanto vogliamo analizzare, l’intervento che riportiamo di Fatima Chamcham, una amica del sud del Marocco, che è stata con noi alcuni anni e che ci ha lasciato da poco, stroncata da una grave malattia. È un modo per ricordarla ma anche per contestualizzare gli usi, le pratiche e le concezioni culturali connessi alla medicina popolare nel mondo arabo.
«Sono nata e cresciuta in una zona particolare del Marocco, lontana dai grandi agglomerati di case e attività e anche dalle grandi città, note a tutti. Il mio paese si chiama Foum Zguid, è un piccolo villaggio a sud-est del Marocco, nell’Anti Atlante vicino al deserto, verso la frontiera con l’Algeria. Il paese è sparso su un territorio molto vasto con piccoli gruppi di case (“douar”) distanti dal centro urbano anche venti chilometri. Tata, la prima cittadina dove ci sono anche attrezzature ospedaliere, dista circa 200 Km, per andarci si può prendere un taxi, ma è molto costoso, oppure l’autobus, che però passa solo da Foum Zguid centro. Dai villaggi sparsi per arrivare al centro non ci sono mezzi né strade: o si va a piedi o a dorso d’asino.
Al mio villaggio adesso sono rimaste 60 persone, i giovani sono emigrati, le donne lavorano in casa e gli uomini in campagna, coltivano i campi e allevano il bestiame. A Foum Zguid centro c’è il mercato una volta la settimana ,dove è possibile scambiare merci e comprare quello che serve in casa. Le donne tessono tappeti ma è il marito che li può vendere e recarsi al mercato. Soltanto le vedove o le donne non coniugate che, rimaste da sole non hanno alcun uomo che pensi a loro, possono recarsi al mercato da sole.
Solo da poco a Foum Zguid in paese esistono un presidio medico con sei medici, una sala parto, alcuni infermieri e una farmacia. Da sempre l’isolamento e la mancanza di strutture, come ad esempio le strade, hanno costretto gli abitanti ad organizzarsi autonomamente per sopravvivere. La conoscenza di erbe medicamentose o di altri prodotti della natura utili per la salute, per alleviare o guarire alcuni malanni, sono stati la nostra pratica quotidiana, spesso anche per scongiurare la morte. Le erbe crescono spontaneamente ma bisogna riconoscerle e saperle usare bene. Sono le nonne, le madri, le sorelle maggiori che ne hanno conoscenza e la trasmettono alle figlie. In paese ci sono donne che hanno accumulato una conoscenza e una esperienza notevole e la mettono al servizio della comunità. Sono chiamate guaritrici (—المعالج) e aiutano le altre donne a partorire e a gestire il bambino appena nato. Attualmente anche il governo centrale ha preso atto di questa realtà, ha intervistato le donne e le ha chiamate per un breve corso di formazione soprattutto per rispettare le norme igieniche. Ha fornito loro una valigetta con il materiale sanitario occorrente e le ha dichiarate idonee ad assistere le donne per il parto. Questo intervento viene accettato anche dai medici del presidio sanitario in quanto da soli non riescono a gestire la situazione. Se si prevedono parti difficili si ricorre all’ospedale, ma anche in questi casi la situazione è complicata in quanto non è facile raggiungerlo. Non ci sono strade e mezzi di trasporto adeguati, ci si sposta con il mulo o il trattore fino alla strada asfaltata, che è ad una certa distanza, e poi prendere l’ambulanza. Il tutto deve essere pagato dalla donna compreso il ricovero in ospedale e spesso questa non ha i soldi e può accadere che la donna muoia durante il tragitto. Nella mia famiglia è successo un episodio simile ma per altri motivi: mia sorella che all’epoca aveva dodici anni è caduta mentre giocava, riportando una grave frattura ad un polso, noi non avevamo i soldi né per l’ambulanza né per il ricovero in ospedale, così una guaritrice locale ha cercato di fare impacchi con le erbe e poi ha ingessato il braccio. La cosa è finita male in quanto il braccio, andato in cancrena, dopo è stato amputato.
Io penso che l’uso delle erbe possa essere utile per malanni non gravi, in questo senso anche il governo marocchino sta prendendo iniziative di divulgazione. Ci sono state trasmissioni televisive molto seguite e apprezzate, con interviste alle guaritrici dei villaggi. Il problema dell’uso della medicina tradizione è conoscere bene le erbe, le modalità di impiego, soprattutto le dosi e per quanto tempo bisogna usarle e poi capire che non possono risolvere tutti i malanni. Noi riusciamo a curare in modo naturale le malattie da raffreddamento, i dolori mestruali, il mal di testa, di stomaco dovuto a indigestione, la tosse, il catarro soprattutto nei bambini. Ma nel mio paese si muore anche per la puntura di uno scorpione. Alcuni sono salvati perché si fa in tempo a succhiare il veleno che lo scorpione ha iniettato, facendo poi impacchi sulla ferita con erbe speciali. Alcuni muoiono in quanto non si riesce ad intervenire tempestivamente.
Ci sono spezie usate in cucina che hanno potere curativo, come il cumino, il cui infuso caldo favorisce la digestione, o l’infuso di cannella adoperato per abbattere i dolori mestruali. Il grano nero (schamezc) macinato e mescolato con il miele, assunto ogni sera, cura i reumatismi e le malattie cardiache. I dolori reumatici vengono leniti anche con il calore trasmesso, sulla parte dolente, da un pezzetto di zolfo dove è stato conficcato un ago caldissimo. La costipazione / il catarro nei bambini vengono curati con massaggi sul petto del piccolo, con le mani calde unte con olio di oliva riscaldato sulla carbonella assieme a spicchi di aglio. L’infuso di lavanda ( tre cucchiai di semi cotti in un litro di acqua) aiutano a pulire la donna dopo il parto o durante le mestruazioni. Il karrù (frutto del carrubo), ridotto in polvere con la macina di pietra, assieme alla buccia della melagrana, allevia le indigestioni. Basta ingerire con un bicchiere d’acqua un cucchiaino di quella polvere. Io sono in Italia da circa un anno, non mi sono mai ammalata e quindi non ho mai preso medicine chimiche, su lievi malesseri, come raffreddori e mal di testa sono intervenuta con le erbe che porto sempre con me».
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’associazione Annassim.
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