Ogni individuo, uomo o donna, ha la facoltà di scegliere e di sicuro possiede la razionalità o maturità di prendere determinate decisioni. Molti di noi, chi più chi meno, disponiamo di un bagaglio culturale che ci difende e ci aiuta a non avere un atteggiamento intollerante verso tutto ciò che non conosciamo; anzi ci rende curiosi e ci avvicina all’ignoto, perché abbiamo voglia di conoscere, abbiamo voglia di apprendere. Tuttavia senza quel bagaglio non potremmo mai avvicinarci a ciò che non conosciamo perché non ne saremmo pronti. Muove dal noto la scoperta dell’ignoto perché il nostro cervello non sarebbe in grado di capire e quindi l’individuo di ragionare, se non avessimo il bisogno di confrontarci con l’altro, di completarci con il diverso da noi, a partire da ciò che noi siamo o presumiamo di essere.
Il soggetto delle nostre osservazioni è comunque sempre “l’altro” o “l’altra” all’infuori di noi, colui o colei che sta di fronte a noi, sotto il nostro sguardo. Sguardo attento e, delle volte, cattivo giudice. Sembra che per l’essere umano sia più facile giudicare male che cercare di comprendere. Così che “l’altro” in prima approssimazione può diventare oggetto di xenofobia, razzismo, omofobia, maschilismo, frutti avvelenati di una paura e di una ignoranza dell’Altro, chiunque esso sia, entità indifferenziata e sconosciuta. Per fortuna esistono persone che sono pronte a sfidare il giudizio della gente e fare ciò che ritengono sia più giusto per se stessi, come ha fatto Afrah.
Afrah è una donna musulmana che all’età di trent’anni ha deciso di indossare il velo. Oggi che di anni ne ha trentasette, ci racconta la sua storia, come ha preso la decisione e quali critiche negative ha subìto, ma prima di tutto, proprio perché – come sostiene Afrah – «la conoscenza è la salvezza del mondo», facciamo una piccola, ma utile parentesi, su cosa sia, come nasce l’uso e cosa significhi portare il velo nel mondo islamico per le donne.
Esiste ormai da anni una diatriba tra chi crede che il velo sia un imposizione coranica, chi solo una tradizione e chi come molti storici dell’Islam e della cultura araba dicono che sia solo l’esito di un’interpretazione maschilista di alcuni versi del Corano.
Partiamo proprio dal testo sacro per capire dove e come e se si “impone” il velo alla donna. Nel Corano non si parla mai del velo (tranne in un solo caso, che vedremo più avanti) come lo intendiamo noi cioè come copricapo. È vero anche che si parla di ḥijāb ﺣﺠﺎب : Il ḥijāb è il velo che copre la testa e le spalle e non è stato introdotto con l’Islam ma si poteva trovare già nella Mesopotamia del XII sec. a.C..
ḥijāb non significa solo velo, appunto, ma anche tenda o cortina, cioè si parla di un elemento che deve separare, dividere la vita privata dal resto del mondo, quindi non stiamo parlando di un copricapo ma di un elemento che funge da diaframma tra i credenti e i non credenti. Come possiamo leggere nel Corano nella sura XVII Al Isrâ’ Il Viaggio Notturno, nel verso 45: «quando tu (Profeta) reciti il Corano, noi mettiamo, tra te e coloro che non credono nell’altra vita, una spessa cortina». Si noti che quando si dice cortina o tenda che deve separare si parla anche di uomini; dunque se nel Corano c’è scritto che bisogna “separare” cioè mettere una tenda o cortina tra credenti e gli altri ovvero i non credenti, non si capisce perché alla fine siano le donne a coprirsi con il velo, da gli altri.
Altri due esempi: la sura XXIV An-Nûr La Luce nel verso 31 recita: «E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere una copertura fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi, sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate prosperare». Qui si prescrive di come vestirsi in generale cioè di non essere impudiche e di preoccuparsi di coprire le forme del corpo.
La sura XXXIII Al-Ahzâb I Coalizzati nel verso 59: «O Profeta, dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro mantelli, così da essere riconosciute e non essere molestate. Allah è perdonatore, misericordioso». Proprio questa parte potremmo definirla forse quella incriminata, perché è da qui che molti credono che discenda l’obbligo del velo. Se analizziamo le parole arabe usate cioè khimar e jalabib sono indumenti larghi che non accentuano le forme. Non si parla mai di velo. A leggere bene, in queste due sure si raccomanda di avere un certo contegno nel vestire.
Altro esempio sempre nella sura XXXIII nel verso 53: «O credenti, non entrate nelle case del Profeta, a meno che non siate invitati per un pasto, e dopo aver atteso che il pasto sia pronto. Quando poi siete invitati, entrate; e dopo aver mangiato andatevene senza cercare di rimanere a chiacchierare familiarmente. Ciò è offensivo per il Profeta, ma ha vergogna di [dirlo a] voi, mentre Allah non ha vergogna della verità. Quando chiedete ad esse [le sue donne] un qualche oggetto, chiedetelo da dietro una cortina: ciò è più puro per i vostri cuori e per i loro. Non dovete mai offendere il Profeta e neppure sposare una delle sue mogli dopo di lui: sarebbe un’ignominia nei confronti di Allah». Ancora una volta non si parla di velo.
Come dicevamo all’inizio di questo percorso tra le pagine del Corano, solo in una sura si fa cenno al velo ovvero nella sura XIX Maryam Maria nel verso 17. «Tese un velo tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito che assunse le sembianze di un uomo perfetto». Lo indossa per proteggersi, ma questo velo non è riconducibile a quello che usano le donne arabe.
Notiamo dunque che tutto dipende da una lettura funzionale ad una tesi, dal voler forse dare proprio una interpretazione misogina o maschilista. L’unica cosa certa è che le ragioni per cui il velo sia d’obbligo ieri più di oggi sono ancora un mistero, nel senso che ancora oggi si studia il tema per capire da dove l’obbligo abbia origine.
Oggi siamo in grado con i mezzi che abbiamo a disposizione, di capire che era un chiaro segno di sottomissione l’interpretazione data ieri. Oggi in alcuni casi lo è ancora. Molte donne occidentali tendono a criticare negativamente a priori il velo e coloro che lo indossano perché credono che il loro essere donna occidentale e di religione cattolica dia loro di diritto lo status di donna emancipata che vive lontana dalle logiche maschiliste, rispetto ad una musulmana.
Per rimanere in tema di cattolicesimo mai furono più adeguate le parole di Luca nel Vangelo (Luca 6,41) «perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave nel tuo occhio?». Quante volte abbiamo sentito dire a qualche amica di non poter fare tardi la sera perché il padre era contrario o che non potevano indossare una minigonna o mettere un rossetto per via del fidanzato troppo geloso: questo ed altro è la trave nell’occhio della donna occidentale. Non sono le donne occidentali che vengono cresciute con il senso del decoro, che certi abiti non andrebbero indossati per non essere considerate “facili”o “leggere” con una minigonna o una scollatura troppo accentuata e non è proprio nella religione che si trova “l’obbligo” di non indossarli dentro una chiesa? Cosa cambia tra l’obbligo di indossare un velo e quello di non indossare un indumento? Ma non sono le spose occidentali ad usare il velo durante le nozze o le bambine durante la prima comunione? Nel sud ancora oggi le vedove portano il velo, certo oggi meno di ieri ma è ancora una realtà.
A ciò si aggiunga che nel mondo occidentale a parità di mansione la donna percepisce un salario inferiore rispetto a quello dell’uomo, come tra l’altro denuncia una recende indagine. Ma non eravamo noi quelli emancipati rispetto al mondo arabo? E la lista potrebbe essere più lunga. Dunque, oggi non è certo il velo a fare la differenza nella vita di una donna araba e o musulmana. Nel mondo arabo contemporaneo molte donne occupano ruoli di prestigio e portano il velo anche sul posto di lavoro, per libera scelta, per determinazione autonoma, come la protagonista della nostra storia.
Laureata in lingue occidentali, Afrah, dopo aver conseguito la laurea, inizia a lavorare come traduttrice di libri dall’arabo all’italiano ma anche in inglese. Il suo accento tradisce le sue origini marocchine. Molto spesso le hanno chiesto come mai non portasse il velo, dato che è una donna musulmana. La sua risposta era sempre la stessa: la sua famiglia era musulmana moderata, dunque nessuna donna della famiglia portava il velo.
Un giorno però prese, in piena autonomia, la decisione di indossarlo. All’inizio chi la conosceva la guardava un po’ stranito, incuriosito, perché molti non erano abituati e pensavano fosse una regressione del suo essere donna, come se dopo aver raggiunto l’emancipazione la volesse rinnegare; per altri era sintomo di vanità o di esibizione come elemento distintivo che la facesse notare tra le altre donne; chi infine non la conosceva e magari per caso scambiava due chiacchiere con lei, partiva subito con il “sermone” del velo come sottomissione della donna, che lei era “schiava” dell’Islam, che fosse sprovvista di personalità e identità.
Io che Afrah l’ho conosciuta, posso dire che è una donna forte, coraggiosa, onesta, una donna musulmana che ama la sua religione e la sua terra, ma non è e non sarà mai una schiava sottomessa. Portare il velo, mi racconta, è qualcosa di molto personale, è una decisione intima e privata. Sentiva che qualcosa nella sua vita mancava al suo essere donna ma soprattutto individuo, persona marocchina che vive in Italia da tantissimi anni, poco più di 18. Il velo è stato per lei la soluzione, come se, ormai naturalizzata italiana, avesse conservato la parte più nobile del Maghreb. Essendo una scelta molto personale è vissuta in piena libertà. Così, d’estate, con le temperature elevate, preferisce non indossarlo e farlo solo nelle sere più fresche: se il velo fosse stato obbligatorio lei non avrebbe potuto scegliere di non indossarlo.
«Mi piace comprare qualche velo particolare, per qualche occasione o scegliere quale abbinare a un vestito o a una borsa, questo anche perché sono una donna molto vanitosa, mi piace essere vestita bene e sempre in modo particolare, mi piace anche cambiare il colore a seconda del mio umore».
Le chiedo cosa le hanno detto in famiglia riguardo la sua scelta. Mi risponde che la sua famiglia era d’accordo con lei semplicemente perché l’hanno educata alla libertà e dunque non potevano che appoggiare una scelta così. Il velo che indossa è il famoso ḥijāb, ma ne esistono di diversi anche a seconda della zona:
- chador چادر , tipico dell Iran di solito è nero a volte può avere anche un lungo mantello e non è obbligatorio portarlo.
- niqāb نقاب , lascia scoperti solo gli occhi ed è composto da due parti: una stoffa che copre naso e bocca legata sopra le orecchie e la seconda copre capelli e busto ed è allacciata dietro la nuca, tipico dell’Arabia saudita e dello Yemen ma lo troviamo anche in India.
- hijab ﺣﺠﺎب , è il classico foulard che copre capelli e collo, è quello più famoso che vediamo più frequentemente.
Infine il burqa برقع è un’altra storia più complicata e triste e non è un argomento che affronteremo in questo articolo.
Afrah crede che qualsiasi scelta lei faccia, comunque sarà, come tutti, soggetta a critiche. Muovendo da questo realistico convincimento, riesce a assumere con tranquillità le sue scelte. Le chiedo se, a questo punto, non sia più rassegnazione che autodeterminazione. Mi risponde con testuali parole:
«sì, capisco che possa sembrare rassegnazione, come dire, tanto ci sarà comunque qualcuno che avrà da ridire sulle mie scelte e forse, sì, sembra che io parta da una rassegnazione, invece è una consapevolezza che non puoi e non potrai mai accontentare tutti e allora se si parla di scelte personali, come il velo, allora faccio come ritengo più giusto, sapendo che faccio quello che voglio per me a prescindere se la gente dirà o non dirà qualcosa contro di me, ma anche qualcosa a favore».
Io aggiungo che, se non puoi fare felici tutti, fai felice solo te stessa! Continua raccontandomi:
«il primo giorno che misi il velo, non vedevo l’ora di uscire di casa, ma lungo il tragitto, in macchina, pensavo, non tanto a ciò che gli amici potessero dirmi, ma alle loro facce, i loro sguardi nel vedermi per la prima volta, ero curiosa e anche se non do peso alle critiche, avrei voluto leggere dello stupore nei loro occhi e non disgusto, perché, appunto, anche se il giudizio non ha molto effetto su di me loro sono comunque i miei più cari amici, i primi che ho conosciuto quando sono arrivata in Italia. In effetti lo stupore era chiaro nei loro visi; all’inizio pensavano fosse uno scherzo, poi mi chiesero il perché una donna come me avesse deciso di portare il velo. Così spiegai le mie ragioni dicendo che il velo era ciò che mancava al mio essere musulmana fuori dalla mia terra; è vero che non sono praticante ma comunque l’Islam mi appartiene perché appartiene al mio Paese. Non voglio rinnegare l’Italia che mi ha dato tanto e che amo ma avevo bisogno di portare casa sempre con me, perché ora il velo per me è questo, è casa, quella casa che ho lasciato tanti anni fa e anche se quella nuova, cioè l’Italia, è meravigliosa, quella vecchia ha le radici e indossare il velo per me è stato come raccogliere, sradicare quelle radici così lontane e poterle portare con me per sempre, ovunque io vada, con chiunque io sia».
Afrah è una donna felice anche se conserva un po’ di nostalgica malinconia per la sua terra lontana. Quando mi parla delle scelte di indossare il hijab, le si illumina non solo lo sguardo ma tutto il volto. Il hijab per lei non è solo un copricapo, è casa, è il simbolo della sua terra, delle sue radici. Ogni donna come Afrah ha il diritto, per libera scelta, di indossare ciò che vuole. Speriamo solo che grazie a donne come lei molti preconcetti sul mondo arabo e sull’Islam possano cadere, che la gente possa guardare senza veli cosa accade oltre i confini e guardare più vicino a noi con consapevolezza storica e rispetto culturale.
È interessante notare come, molto spesso, degli oggetti apparentemente di poco valore, ne acquistino tanto, lontano dal posto di origine, riuscendo a creare quasi per magia l’atmosfera di quel luogo ormai lontano. Così come per Afrah il velo è ormai l’unico simbolo di casa, perchè non possiede altri oggetti che la fanno sentire a casa.
Per altre donne, altri oggetti diventano importanti. Come per due ragazze che arrivano dall’Egitto, Safya e Maria, la prima ricevette per un compleanno una collana dalla nonna materna, una catenina d’argento con la manina di Fatima come ciondolo. Questa collana per lei oggi è molto importante, è un ponte che la lega alla sua terra. Ogni volta che pensa a casa la stringe forte, chiude gli occhi e dice che riesce a sentire perfino l’odore della sua terra, le voci delle sue sorelle, i tramonti del Maghreb, i sapori della cucina di sua madre, il rumore degli arnesi da lavoro del padre. Il suo ricordo arriva fino a quando era molto piccola e la mattina sua nonna l’accompagnava a scuola fin dentro l’aula perchè lei aveva paura di perdersi, anche se frequentava quella scuola ormai da anni. Ricorda le cene con tutti i parenti, la confusione dei bambini che correvano per casa, il suono della sua lingua, riesce pure a percepire l’azzurro del cielo egiziano e il suo vento caldo. Il suo racconto è molto suggestivo sembra proprio di essere lì. La sua collana assume un valore che va oltre quello religioso: la manina di Fatima è un simbolo religioso e anche segno di liberazione: si racconta che Fatima sacrificò la sua mano per la libertà.
Maria invece portò con sè dall’Egitto un oggetto che la lega alla sua terra, un maglione che le regalò sua madre qualche compleanno passato. A differenza degli altri oggetti, questo non ha davvero nulla che riguardi la religione e non ha nemmeno nulla di tradizionale, ma per lei quel maglione è la sua coperta di Linus. Non solo è un legame con la sua terra per i ricordi che associa al maglione ma è sopratutto un legame con sua madre come un cordone ombelicale.
Queste tre donne hanno dato una nuova vita a degli oggetti che vissuti solo nella terra d’origine avrebbero avuto meno carisma. Un’altra storia simile è quella di Kadija, ma questa volta il legame con il Marocco non è un oggetto ma un’usanza. Quando viveva a Rabat, mi racconta, che non aveva mai usato l’hennè; le donne arabe lo usano non solo per tingere vestiti e capelli ma anche e soprattutto per creare decorazioni sulle mani, come dei tatuaggi non permanenti. Da quando vive in Italia invece ha iniziato a decorare le mani. Nel Maghreb è usanza decorare le mani alle spose. Kadija adesso decora le sue mani per qualche evento o per una festa o semplicemente per un sabato sera, delle volte anche solo per se stessa, cioè anche se non ha impegni particolari e la giornata prevede un lungo riposo in casa. Le ricorda le giornate passate con le amiche in Marocco. Mentre loro si truccavano lei stava lì ad aiutarle ma non amava decorarsi, le piaceva stare a chiacchierare con loro. L’hennè la riporta indietro nel tempo a quando era ragazzina e stava con le sue coetanee. Ogni storia è simile ma affascinante nello stesso modo.
Afrah si chiede se quando tornerà in Marocco il suo velo perderà questa magia. Le rispondo che forse il velo diventerà simbolo della sua permanenza in Italia, e sarà un nuovo ponte verso il nostro Paese.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
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Serena Naǧmah Visconti, laureata al Dams presso l’Università degli studi di Palermo, con una tesi sulle tradizioni musicali dei tunisini che vivono a Palermo, si occupa d’arte e musica araba all’interno di una prospettiva antropologica e politica. Ha anche interessi per l’attualità sociopolitica nei Paesi mediorientali e per le evoluzioni delle migrazioni contemporanee.
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