Il New York Times l’ha definito il «poeta della città» ed è una definizione che senza dubbio si addice ad André Aciman, scrittore egiziano di origine ebraica, adesso residente negli Stati Uniti, a Manhattan, dove insegna letterature comparate alla City University di New York. Romanziere, saggista, appassionato studioso di Proust. Ha da poco compiuto sessantatré anni e nelle foto che compaiono nei suoi libri appare come un uomo stempiato e sorridente, immagine che mal si concilia con la vena di malinconia profonda che permea i suoi libri.
Nato ad Alessandria d’Egitto, a quattordici anni è costretto ad abbandonare la città insieme alla sua famiglia, in seguito all’inasprimento dei conflitti arabo-israeliani; a trasferirsi prima a Roma, poi a Parigi, infine a New York. Un’esistenza – quella di Aciman – in continuo movimento, fluttuante, irriducibilmente iscritta “nel segno dell’esilio”, per riprendere il titolo della nota raccolta di Edward W. Said, altro intellettuale esule, critico, musicista e militante palestinese.
Da poco è uscito per Guanda il suo ultimo libro, Città d’ombra, una raccolta di saggi già precedentemente pubblicati in inglese: libro a metà tra uno zibaldone e un memoir, discontinuo com’è discontinuo l’andamento della memoria, che funziona a scatti, a intermittenze o a improvvise visioni, lasciando zone d’ombra che non verranno probabilmente più illuminate. Ma Città d’ombra è anche una sorta di diario di viaggio scritto da un uomo che, alla stregua di un flâneur baudelairiano, si muove discreto e attento per le vie delle città del mondo alla ricerca di un tempo perduto. Smarrendosi, tornando indietro, percorrendo senza accorgersene le stesse strade e ritrovandosi magari al punto di partenza.
Aciman conduce il lettore attraverso un suggestivo voyage sentimental: gli fa cogliere le atmosfere, assaporare il gusto, ascoltare i suoni dei luoghi della sua biografia: Alessandria, Parigi, Roma, New York. Città, tutte, in cui ha risieduto per periodi più o meno lunghi, in cui ha lasciato una parte di sé ma nelle quali, tuttavia, continua a sentirsi come un ospite in un paese straniero e nelle quali vive perennemente in uno stato d’ennui, d’indifferenza verso qualsiasi compartecipazione col proprio presente. Nasce in Egitto bramando di essere francese, si trasferisce a Roma ma sogna le spiagge alessandrine, parte per New York immaginando di prendere casa, un giorno, nella piazzetta romana meta prediletta delle sue infinite passeggiate adolescenziali; ritorna nella sua città d’origine, baricentro geografico e nucleo ossessivo dell’intera sua scrittura (si pensi al suo romanzo più noto, Ultima notte ad Alessandria) e non prova alcuna emozione.
Il confronto tra i luoghi immaginari – quelli del cuore e della memoria – e i loro correlativi oggettivi è un confronto impari, in cui ai primi spetta irrimediabilmente la vittoria, mentre i secondi comportano delusione e inappagamento, come se «la verità non fosse mai abbastanza». La capacità di avere una autentica esperienza della realtà subisce una progressiva atrofia e non resta, all’autore, che rifugiarsi sotto le campane di vetro di rassicuranti cronotopi alternativi, che siano il passato o la letteratura. Un esempio. In Intimità – secondo saggio della raccolta – lo scrittore, ancora adolescente, si trova a Roma, nella sua stanza della casa di via Clelia, ma si sente altrove: nella «città risplendente di D.H. Lawrence», nelle «notti bianche nella San Pietroburgo di Dostoevskij», nella «Parigi collerica e piovosa di Baudelaire», «nell’Inghilterra di Wordsworth». «Qualsiasi cosa, ma non via Clelia». La letteratura invade prepotentemente la vita reale, si sostituisce ad essa, sopperendo alle sue mancanze e colorandone i grigiori.
Accade così che l’amore dell’autore per una città sia ben lontano dall’amore spassionato di chi ne assapora le gioie quotidiane, ne carpisce le sfumature che la rendono unica e diversa da tutte le altre città del mondo. André Aciman riesce piuttosto ad amare un luogo solo in quanto corrispettivo di qualcosa che appartiene ai mondi fittizi della sua mente. Il senso del titolo della raccolta – Città d’ombra – è proprio questo: il concetto di ombra rimanda a una dimensione irreale in cui non si ha a che fare con l’oggetto in sé, ma con un suo doppio, tanto suggestivo quanto intangibile.
La città d’ombra per eccellenza è, per lo scrittore, indubbiamente New York, città-specchio che può trasformare a suo piacimento in tutte le altre città del mondo, perché quando la guarda «non vede mai la vera New York» ma «soltanto la New York che sostituisce altri luoghi o mi aiuta a evocarli. New York è la contro-figura, l’imitazione di tutte le cose che mi ricordo e non posso avere, e magari non voglio nemmeno, e ancora meno amo, ma continuo a cercare…».
I diciannove saggi prendono spesso avvio da un elemento concreto – un flacone di profumo, un quadro, una fotografia – come a voler catturare quello che resta della fugacità del tempo, della vita. Ma il profumo evapora, la fotografia sbiadisce, il quadro ritrae una casa che non esiste più, che è stata demolita: e allora non rimane che un senso di nostalgia profonda e ossessiva. Il girovagare spaesato per le vie cittadine diviene anche metafora esistenziale, per un uomo che – come Aciman – è nato già nella condizione di esiliato. «Sono nato ad Alessandria d’Egitto. Ma non sono egiziano. Sono nato da una famiglia turca, ma non sono turco. In Egitto ho frequentato scuole inglesi, ma non sono inglese». Chi sono? – sembra chiedersi allora lo scrittore. Ma una serie disarmante di correctio rivela l’impossibilità di una qualunque risposta affermativa.
In un’epoca contrassegnata dalla provvisorietà e dall’assenza di certezze, l’individuo contemporaneo vive una condizione particolare, per certi versi ineludibile, che implica una profonda diffidenza verso ogni affermazione categorica. Ci è venuto in mente Eugenio Montale, in Non chiederci la parola: neanche il poeta, o lo scrittore, può più avere il potere di rivelare mondi, verità e significati; semmai può solamente esprimere una negazione, la scissione tra l’uomo e la realtà, può solamente dirci «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». A maggior ragione chi, come lo scrittore egiziano, si ritrova a vivere un’esistenza che muta continuamente le proprie coordinate geografiche, contrassegnata da un sentimento “originario” di non appartenenza che impedisce qualsiasi possibilità di stabilirsi in maniera definitiva in un luogo, di eleggere un solo posto come patria.
Aciman riprende i versi dolorosi di una poesia di Costantino Kavafis per provare a dirci cosa significa trascinarsi appresso la condanna dell’esilio come fosse una effigie dalla quale si è marchiati a vita: «Non troverai posti nuovi, non troverai altri mari. La città ti seguirà. […] Non ci sono navi, non ci sono vie per te». Sono versi che hanno lo stesso tono apocalittico di una maledizione lanciata a un nemico al quale si augura di non poter essere più felice lontano dalla propria terra. O di una punizione divina, come quella inflitta a Ulisse da Poseidone. Con la differenza, però, che Ulisse una casa in cui tornare l’aveva. Aciman la sua casa l’ha persa, non esiste più. Non c’è e non ci può essere ritorno.
La scrittura s’identifica allora con il bisogno di dare ordine al suo caos esistenziale, con il tentativo di conferire una coerenza e una logica a una vita caratterizzata fin dall’inizio dall’instabilità e dal nomadismo. Con un modo, forse l’unico, di «trovare uno spazio e di costruire una casa per me stesso», di «prendere un mondo informe e paludoso e puntellarlo con la carta, come i veneziani puntellano la terra erosa infilandoci pilastri di legno». «Scrivo per dare forma, narrazione, cronologia alla mia vita; e parimenti dò gli ultimi ritocchi finali con una prosa cadenzata aggiungendo splendore dove so che non ce n’era. Scrivo per entrare in contatto con il mondo reale, pur sapendo che scrivo anche per starne lontano […]. Alla fine non è più il mondo che mi piace, e forse non lo è mai stato, ma scrivere su di esso».
Ne vien fuori il ritratto di un uomo introverso e riflessivo fino allo sfinimento, di un artista del rimpianto perennemente alla ricerca di qualcosa. Tragico, profondo e irrequieto, Città d’ombra è un libro che prova a interrogarsi su alcuni dei temi che da sempre attanagliano l’uomo, una riflessione sulla vita e sull’anima, sulla memoria e sullo scorrere del tempo.