Nell’immaginario collettivo eurocentrico, quando si parla di donna migrante proveniente dal Sud del Mondo, l’idea che subito ci si presenta davanti agli occhi, è quella limitata e limitante di una donna “tradizionalmente” legata al suo Paese di origine, e di conseguenza ad usi e costumi, in condizione di subalternità, passiva, non integrata nel contesto di insediamento. Ma non è sempre vero. A guardar bene si può notare una pluralità di modi di vivere l’esperienza dell’immigrazione da parte delle donne. Esse mostrano una particolare capacità di adattamento, ma allo stesso tempo una attitudine alla conservazione degli aspetti peculiari delle loro tradizioni di origine; di conseguenza non si possono considerare le donne migranti in modalità “duale”: o come membri di un gruppo culturale che parla con voce unica o come esseri ibridi.
Molteplici sono i modi attraverso cui rinegoziano la loro identità culturale in base al contesto in cui vivono e al quale rimangono d’altra parte legate. Sicuramente è difficile fornire delle percentuali che possano chiarirci il fenomeno di cui si sta parlando, ma grazie alle testimonianze e alle storie di vita delle donne dell’Associazione Annassîm attiva a Bologna, riusciamo a capire innanzitutto che non si tratta di una visione dicotomica di esclusione tra tradizione e modernizzazione, ma che i due processi sono integrati ed intrecciati tra loro, quasi a formare un continuum di retaggi e nuove esperienze che si sovrappongono, tra il Paese di origine e quello di accoglienza. Quello che per noi potrebbe significare “tradizione” e ostentazione dei princìpi e delle norme da parte delle donne migranti, in questo caso musulmane, non è altro che la manifestazione tangibile di una “cultura altra”, diversa dalla nostra, ma non per questo inferiore o da screditare, che le donne, per esempio, attraverso il velo possono manifestare.
«Ci sono elementi che fanno parte della nostra vita identitaria e non si possono cancellare. Io per esempio sono arrivata in Italia senza velo, come ero in Marocco; mentre ero incinta di mio figlio ho fatto un viaggio in Marocco ed ho deciso che al mio ritorno in Italia lo avrei indossato di nuovo. I motivi sono complessi. Voglio essere riconosciuta per quella che sono. Io non ho nulla da rinnegare per essere accettata dagli italiani… io sono araba, marocchina, musulmana, con la mia cultura accademica, antropologica ma islamica, rispetto gli altri e le regole del Paese che mi ha e mi accoglie. E per questo voglio essere riconosciuta e accettata anche con il velo». (F. Marocco)
Spesso queste donne sono protagoniste di un processo di emancipazione senza eguali, che prende l’avvio da un ribaltamento della propria esistenza segnata dalla decisione di emigrare in un altro Paese, diverso dal proprio, e grazie alla loro forza di volontà mista a coraggio riescono ad affrontare il percorso migratorio in modo tale da adeguarsi completamente allo stile di vita dei Paesi di adozione. Bisognerebbe chiedersi però se questo modello assimilazionista, che non tiene presente le differenze sostanziali tra un popolo ed un altro, non sia solo un modo per poter “rendere uguale a noi/omologare”, qualcuno che in realtà non sappiamo accettare e che ci fa paura. Penso che le migranti che vengono a vivere qui affrontino una fatica di adattamento e un disagio a volte invisibile per la continua disconferma di sé che difficilmente noi possiamo immaginare. La grande lezione che il femminismo “mainstream” ci ha lasciato è che la cultura del gruppo dominante (gli uomini rispetto alle donne) tende a imporre come “naturale” l’ordine simbolico-culturale-sociale su cui si basa il proprio dominio. Lo stesso avviene per quel che riguarda le minoranze “etniche” o “culturali”: la cultura dominante (bianca rispetto alle “non bianche”) tende a imporre come “naturali” i propri criteri di giudizio che invece sono ovviamente storicamente determinati, come tutti gli altri. Le femministe hanno chiesto agli uomini di “assumere la propria parzialità”, i migranti – le popolazioni colonizzate – ci chiedono di “assumere la nostra parzialità” di bianchi/e europei/e. Siamo capaci di farlo? Questo dovremmo chiederci, non quanto siano capaci le altre/gli altri di adeguarsi ai nostri criteri.
Sono le donne all’interno delle comunità degli immigrati ad avere un ruolo fondamentale nelle dinamiche di integrazione tra gruppi e culture; sia per tradizione ed educazione sia per sapere, riescono a riallacciare e mantenere le fila della vita affettiva del gruppo, restituendo senso ai gesti e ai riti, reinterpretando tradizioni e norme. Tali ruoli assicurano i legami con il passato, con la storia collettiva e integrano al contempo valori e comportamenti del presente. In tal modo la donna, anche se non esplicitamente, si costituisce come elemento basilare del rapporto tra continuità e cambiamento. Purtroppo, diffidenze e pregiudizi reciproci fra immigrati ed autoctoni, impediscono il più delle volte la costruzione di una vera società civile multietnica ed interculturale. Difatti, solo la conoscenza e lo scambio reciproco potranno consentirci di superare i suddetti problemi. Se la situazione è già di per sé difficile per gli uomini, lo è ancor di più per le donne immigrate, costrette a subire angherie e violenze senza avere, in alcuni casi, la forza, la conoscenza o gli strumenti necessari per cambiare le cose.
Per poter affrontare e capire i pregiudizi che “regolano” e vincolano la vita delle immigrate nel nostro Paese, vorrei partire, innanzitutto, dalla definizione stessa di pregiudizio: «idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione e da indurre quindi in errore». Si può definire il pregiudizio, inoltre, come una rappresentazione che fa da schermo ad una realtà altra, che gioca su un terreno di asimmetria di potere e anche quando si agisce solidalmente tra donne, lo si fa mantenendosi su un gradino superiore dal quale si può giudicare l’altra persona, diversa da noi. Si parte dunque dall’assunto che ci siano pregiudizi reciproci nelle relazioni fra donne; essere di genere femminile, cioè madri, figlie, sorelle, di per sé non è unificante. Le differenze sono molteplici, in alcuni casi si intersecano e producono disequilibri. È inutile fingere che il mondo femminile sia di per sé “pacificato”! La donna è una straniera portatrice di un bagaglio culturale sconosciuto, percepita come “l’altro”, come il differente, riducibile alle identità che la nostra cultura considera come acquisite. Vi è dunque, in generale, la paura dello straniero, che però fondamentalmente si riversa sull’uomo straniero, giovane e maschio e quindi potenzialmente violento, lasciando fuori la donna straniera che la società ospitante accoglie e vede comunemente di buon grado, perché comunica una immagine più rassicurante e facilmente riconducibile ad “un corpo funzionale al mantenimento di altri corpi”. Il rapporto identificativo tra donne migranti, provenienti dal sud del mondo, e donne occidentali è estremamente contraddittorio, in teoria ma soprattutto nella pratica dei comportamenti, come si intuisce dalle parole di una delle donne di Annassîm:
«Io avevo sempre paura a girare per la strada, ti senti come mutilata, non sei accettata per quella che sei, vieni vista sempre come diversa. Ho amiche italiane sincere e buone, ma in giro sento ostilità, pensa poi che io sono molto scura di pelle, e quando vado al supermercato o sull’autobus vengo sempre guardata insistentemente o ignorata completamente, episodi simili sono capitati anche a mio padre e alle mie sorelle, in autobus o nei negozi». (S. Marocco)
Gli interscambi non sono quasi mai lineari e semplici, si articolano in consonanze e dissonanze riferibili ai modi diversi di percepire il proprio vissuto identitario ed etnico, e ai mondi diversi di provenienza. Dunque, l’approccio femminista secondo cui le donne sarebbero unite in una presunta “sorellanza” risulta essere decisamente utopistico, come d’altronde lo è anche il modello di donna occidentale proposto come fine ultimo da raggiungere per le immigrate oppresse all’interno di culture tradizionali. Quando parliamo di esclusione e discriminazione dobbiamo sempre aver presente che le donne straniere vivono una doppia e a volte tripla discriminazione, perché donne, perché immigrate a cui si aggiunge la discriminazione nel mercato del lavoro.
L’inclusione sociale delle donne immigrate e dei gruppi sociali più fragili, rappresenta una tappa importante per un Paese in cerca del proprio modello di integrazione e di un’efficace opera di promozione della cultura dell’uguaglianza e delle pari opportunità. È fondamentale favorire, attraverso appositi servizi di mediazione interculturale, il reciproco riconoscimento e la valorizzazione delle diverse identità culturali. Impegnarci per una società coesa e dinamica, dove ognuno fruisca di pari diritti, doveri e opportunità ci deve coinvolgere tutti: istituzioni, cittadini italiani e cittadini stranieri, il mondo dell’associazionismo. Solo così possiamo contribuire ad abbattere gli stereotipi e ad ampliare gli orizzonti conoscitivi. La donna è stata sempre in grado di tessere legami forti fin da subito con l’altra, questo sicuramente aiuta e costituisce un incentivo al suo riconoscimento nella società ospitante che, a differenza dell’uomo immigrato, è più facilmente e socialmente accettata.
Ogni donna vive nel corso del proprio vissuto migratorio due periodi: il periodo della solitudine, che è il lasso di tempo dal momento del distacco dal paese natio a quello dell’acquisizione di una nuova consapevolezza che servirà ad avere una nuova visione del mondo; il periodo della rielaborazione personale, nel quale dovrebbe avvenire una sorta di razionalizzazione che aiuti la donna ad orientare la propria esperienza proficuamente e positivamente. Proprio in quest’ultimo periodo le associazioni di donne risultano fondamentali per ideare e mettere in atto politiche di sostegno e di integrazione al femminile. Quindi le associazioni diventano il fulcro della vita delle migranti, sono i luoghi della socializzazione e della solidarietà, dove si convive e si condividono esperienze. Infatti, i legami non nascono solo dalle parole ma anche dalla condivisione concreta della quotidianità. L’essere parte di un gruppo in cui la donna è protagonista è un passo importante e stimolante per uscire dall’emarginazione. Riporto di seguito alcuni spezzoni di interviste fatte alle socie di Annassîm, sulle motivazioni che hanno spinto queste donne ad associarsi, sull’importanza nelle loro vite dell’associazione di cui hanno fatto o fanno ancora parte.
«È stato del tutto casuale avere incontrato donne italiane e altre straniere ad una festa organizzata dal Centro interculturale Zonarelli a Bologna e dopo esserci espresse sulle nostre aspirazioni e competenze professionali e “saperi femminili” decidere di fare attività sociale assieme costituendo una associazione di volontariato. […] Le motivazioni sono state quelle di uscire dall’isolamento sociale e di cercare di essere uguali alle altre donne per iniziative cittadine, per darci visibilità riconoscimento, e fare conoscere la storia, la cultura, le tradizioni del nostro Paese». (F. Marocco)
«Grazie all’aiuto dei miei connazionali ho cominciato a frequentare il Centro Zonarelli e conosciuto le donne di Annassîm che mi hanno fatto sentire meno “straniera” in Italia e soprattutto utile». (S. Marocco)
Le condizioni che permettono al migrante di stabilire relazioni nel Paese di adozione sono rilevabili attraverso forme di associazionismo, più o meno riconosciute, che possono manifestarsi secondo due modelli:
1. Modello etnico: nicchie di riferimento di una collettività con scarsa relazionalità sociale;
2. Modello interetnico: disponibili ad attivarsi nelle relazioni con altre collettività.
In Italia, esistono circa 900 associazioni etniche, di cui 700 raggruppano soggetti di una stessa etnia e 200 sono riferibili al volontariato italiano che, tra i suoi utenti, comprende anche gli immigrati [1] Le associazioni degli immigrati giocano un ruolo fondamentale nei processi di integrazione all’interno della società che li ospita; esercitano una funzione di rappresentanza rispetto alle istituzioni e di intermediazione tra i singoli immigrati e la società di accoglienza nonché, più complessivamente, di dialogo interculturale. In altri termini queste associazioni hanno la possibilità di porsi come intermediari fondamentali nonché come facilitatori delle relazioni fra i migranti e i loro diversi interlocutori sociali.
Vi è stata una crescita quantitativamente importante di associazioni di immigrati nate soprattutto a partire dalla fine degli anni ’80, che è ovviamente proporzionata a quella dell’incremento degli immigrati nel nostro Paese. «Vi è una marcata eterogeneità delle associazioni dei migranti per storia, grado di formalizzazione, livello di articolazione e consolidamento dell’organizzazione inter- na, composizione etnica (mononazionali, plurime, miste), qualità dei rapporti con le istituzioni locali e con le altre associazioni, autorevolezza nell’ambito dei gruppi etnici di riferimento, caratteristiche delle leadership, numero e tipo delle attività portate avanti…» [3]. Esistono organizzazioni con compiti esclusivamente assistenziali, altre più strutturate che gestiscono servizi e promuovono forme cooperative, gruppi di pressione che si incaricano di difendere diritti e rivendicare posizioni sociali a tutela delle minoranze etniche.
L’associazione Annassîm nasce proprio con un forte intento politico per dare maggior importanza e visibilità alle donne arabe musulmane presenti a Bologna e provincia, e per essere attore capace di entrare in relazione con le istituzioni locali e gli altri soggetti a vario titolo coinvolti; oltre che per far sentire la propria voce in tutti quei processi decisionali le cui ricadute appaiono rilevanti per le comunità immigrate. Mediando fra le popolazioni immigrate e le istituzioni della società di accoglienza l’associazione diviene, in tal modo, anche vettore di partecipazione dei cittadini immigrati alla vita della società di approdo. Grazie ad alcune ricerche dell’Ismu, apprendiamo che nel nostro Paese l’associazionismo promosso dagli immigrati appare ancora debole e scarsamente attrezzato per fornire servizi che sono prodotti da associazioni che nascono “per” gli immigrati salvo i casi di associazioni o di cooperative composte da mediatori culturali o che attivano progetti orientati alla interculturalità. Supplisce la fragilità dell’associazionismo la diffusa vitalità dell’auto e mutuo aiuto delle reti informali a base etnico-nazionale.
Analizzando nello specifico le associazioni di donne migranti, lo studio di Chiara Basa Filantropia della diaspora [4] mostra come le donne siano capaci di “restituzione” al proprio Paese, facendo riferimento quindi sia al livello culturale ma soprattutto a quello economico. Si ricava in tutta evidenza l’impegno politico-sociale delle migranti nella lotta per i diritti delle donne nelle società patriarcali di provenienza.
Nella regione Emilia-Romagna, il progetto “Intrecci”, per una rete di associazioni di donne migranti e di associazioni miste, ha posto, ormai da anni, le basi per rafforzare e valorizzare il lavoro in più di settanta associazioni e organizzazioni di donne straniere e miste presenti sul territorio regionale. L’implementazione dell’associazionismo sembra essere dunque una vera e propria sfida per il futuro. Se è vero che «la vera evoluzione dell’associazionismo degli immigrati e delle donne immigrate in generale è costituita dalla nascita e dal rafforzamento delle associazioni interculturali delle donne» [5], si conferma il ruolo centrale della donna nella sua capacità di gestire i rapporti con i Paesi di origine e quelli ospitanti, quale collante tra realtà diverse e mediatrice di cultura.
L’associazionismo interculturale è, dunque, l’occasione per le donne di mantenere legami col Paese d’origine, di riscattarsi insieme, ma anche di uscire dall’isolamento e di abbandonare ruoli rigidi che stanno loro stretti. “Aggregarsi per riscattarsi” risulta quindi un vero e proprio motto secondo cui l’associazione, oltre ad avere un ruolo di autodifesa, ha anche la funzione sociale e di esperienza di vita in comune, attiva e positiva nella società di cui le donne sono ormai un pilastro fondamentale. Annassîm, che – come si può leggere nel sito – è «attiva sul territorio da oltre un decennio, ha realizzato pratiche sociali e prodotto idee, relativamente all’esclusione sociale delle donne migranti (soprattutto area Maghreb), ai diritti delle donne, alla funzione genitoriale, alle identità in transito, ai conflitti nei paesi di provenienza, sessismo e razzismo. Attualmente è impegnata anche con le seconde generazioni, soprattutto al femminile, e sulla trasformazione della presa di coscienza nel percorso migratorio».
Annassîm è un’associazione di donne native e migranti provenienti in genere dal Nord Africa e Medio Oriente. Le donne conosciutesi ai giardinetti di fronte al Centro interculturale Zonarelli a Bologna, non hanno avuto problemi a stare assieme in un luogo pubblico-istituzionale, al di fuori dello spazio domestico e a comportarsi liberamente come i loro bambini al parco. Senza pregiudizi o remore. Le attività di Annassîm sono state possibili grazie alla fiducia acquisita reciprocamente tra donne straniere e collettività. Quando ci chiediamo di cosa siano capaci queste donne, e quali siano le loro abilità sicuramente dobbiamo parlare di veri e propri tesori nelle loro mani. Sono capaci di lavori straordinari. Hanno un’abilità manuale impensabile per una donna occidentale, almeno quelle delle ultime generazioni. Sono bravissime a cucinare, a ricamare, a usare l’henné, e i loro tappeti tolgono il fiato. Sono velocissime nella tessitura e il risultato prende vita piano piano.
Tutte le donne che fanno parte dell’Associazione sono arrivate negli anni ’90, molte delle quali al seguito di ricongiungimento familiare, il capitale sociale delle associate risulta essere infatti molto alto, per livello scolastico e raggiungimento di titoli esteri, come lauree e corsi professionalizzanti (non riconosciuti in Italia). L’obiettivo di Annassîm di toglierle dall’isolamento familiare, di far loro conoscere il territorio e la lingua italiana è stato largamente superato. Oggi loro indicano alle native luoghi e situazioni cittadine da scoprire, e riescono a realizzare proposte di viaggi “sostenibili” nei loro Paesi soprattutto in zone del Marocco. Purtroppo, l’intervento nel sociale è più difficile ed emergono problemi di difficile soluzione per le seconde generazioni, schiacciate fra due culture e con un futuro incerto. Anche su questo Annassîm cerca di intervenire con incontri pubblici, dialoghi interreligiosi, seminari di sostegno alla genitorialità, progetti rivolti alle giovani donne e alle ragazze adolescenti. I servizi dell’Associazione nel corso degli anni si sono diversificati in base all’utenza, ai cambiamenti stessi delle migrazioni, alla società di accoglienza in continuo mutamento ma soprattutto in base alle esigenze espresse dalle stesse associate.
Come già detto ampiamente, questa è una tra le associazioni più attive sul territorio, per numero di corsi e di attività organizzate a favore dell’inserimento delle donne nel reticolo sociale bolognese. Degni di nota sono, appunto, tutti i corsi di italiano che favoriscono in un certo qual modo la contrazione dello scarto tra autoctone e alloctone. Imparare una nuova lingua, per poter comunicare e per sentirsi meno straniere promuove quel percorso di “integrazione” a cui molto spesso le donne migranti ambiscono. Questi corsi, totalmente gratuiti, permettono di interagire e creare legami con “l’altra”. La funzione di Annassîm risulta, quindi, essere quella di aggregazione come luogo di scambio e di idee da concretizzare sul territorio, per poter dar voce ad una categoria sempre più marginalizzata, come quella delle donne immigrate.
Sicuramente emergono difficoltà nel mettere in campo politiche utili e valide che lavorino su questo fronte, ma la determinazione e la volontà di riscattarsi hanno guidato e tuttora guidano queste donne. È fondamentale che ci sia un obiettivo comune per la loro autodeterminazione, solo così si potrà veramente parlare di inserimento nel tessuto sociale italiano a tutto tondo. Non sempre le iniziative intraprese dalle associazioni di migranti sono favorite e/o pubblicizzate. Le collaborazioni con altre associazioni, biblioteche e organismi pubblici sicuramente hanno fatto sì che l’associazione Annassîm fosse sempre più riconosciuta a livello locale e provinciale. Credo però che non sia la normalità, bensì un’eccezione significativa di donne che ce l’hanno fatta a squarciare il velo dell’indifferenza e del dilagante individualismo. L’Associazione ormai sembra essere parte attiva della vita delle donne stesse, che con modalità e tempistiche diverse, si spendono per far valere le loro idee, le loro motivazioni e la loro voglia di riscatto. Il futuro di questa Associazione sembra essere un po’ incerto, come d’altronde il futuro di tutte le associazioni di migranti, ma sicuramente c’è la volontà di continuare a lottare per un riconoscimento sempre maggiore.
Annassîm è l’esempio lampante che l’associazionismo giova alla vita di chi condivide un fine comune. La condivisione, il dialogo e la comprensione sono alla base della formazione di un tessuto sociale che sia quantomeno abbastanza omogeneo. L’associazionismo è quindi fondamentale per le minoranze, in quanto permette loro di avere una maggiore consapevolezza della situazione in cui vivono e sprona a migliorarsi e a farsi conoscere dal resto della comunità. Gli immigrati, attraverso le organizzazioni cui appartengono, possono esprimere i propri bisogni e disagi e cercare insieme soluzione ai propri problemi. Le istituzioni e le altre associazioni, invece, vi possono trovare un utile canale attraverso il quale diffondere le informazioni e condividere percorsi. Le organizzazioni straniere hanno un ruolo chiaro e significativo nella società attuale: sono un punto di aggregazione per gli stranieri ma sono ugualmente il punto di partenza attraverso il quale iniziare collaborazioni e istituire un dialogo con gli immigrati e le loro comunità. Potremmo definirle il luogo nel quale lo straniero si rifugia in caso di necessità.
Non voglio generalizzare dicendo che tutti i migranti vivono in situazioni di ghettizzazione ma sicuramente l’inserimento nella società di accoglienza risulta essere facilitato se mediato da un’associazione o comunque da un gruppo attivo sul territorio che riunisce persone provenienti dallo stesso bacino culturale. Ritengo sia importante ancora una volta sottolineare che sentirsi parte di qualcosa, che non sia solo la ristretta comunità di appartenenza, aiuta le donne, in questo caso, ad emergere. Le aiuta nella misura in cui si dà l’opportunità oltre all’ambiente familiare e a quello lavorativo, di spendersi per attività piacevoli e produttive, oltre che formative.
Osservando la società e lo stato attuale delle cose, l’associazionismo migrante continua ad essere una presenza preziosa nel territorio locale e provinciale di Bologna, e ad oggi probabilmente rappresenta ancora l’unico strumento di rappresentanza e di mediazione collettiva esistente. Sarebbe importante però che le associazioni straniere fossero sempre più in interazione con quelle italiane, soprattutto nei luoghi dove operano.
Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Note
[1] Mariti C., Donna migrante. Il tempo della solitudine e dell’attesa, Franco Angeli, Milano, 2003;
[2] Frisanco R., “Associazionismo tra e per gli immigrati in Italia”; pdf
[3] Ambrosini M., Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2011;
[4] Basa C., “Filantropia della diaspora”, relazione tenuta al convegno Apre, Roma, 2009;
[5] Frias M. L., Migranti e native: la sfida del camminare insieme”, in “Donne, migrazioni, diversità la sfida di oggi e di domani, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2002:141;
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Rosalinda Bruno, laureata in Sociologia e Ricerca Sociale presso l’ Università di Bologna, è impegnata e interessata allo studio dei fenomeni migratori, con un focus sul genere. Collabora con associazioni di donne native e migranti attive sul territorio bolognese e con il Centro interculturale Zonarelli a Bologna.
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