L’obiettivo di questo articolo consiste nel presentare la necessità di un’altra narrazione dell’immigrazione, un fenomeno mondiale la cui funzione rischia di essere interpretata in maniera scorretta. Per favorire una narrazione corretta ho ritenuto opportuno rifarmi all’inglese Francesco Bacone (1561-1626), un pensatore importante nell’ambito della filosofia empirista, che nella sua opera Novum Organum ritenne di collocare l’esperienza alla base della conoscenza in contrapposizione alla metodologia deduttiva della tradizione aristotelica. In questa sede, in cui si tratta di riflettere su un fenomeno sociale, è di scarso interesse concentrare l’attenzione sulla metodologia della conoscenza scientifica e conviene soffermarsi su alcuni aspetti più specifici.
Secondo Bacone il percorso conoscitivo si articola in due parti: la prima è imperniata sulla critica dei pregiudizi (denominati “idola”), che impediscono di conoscere correttamente i fenomeni; la seconda è quella costruttiva, nel corso della quale ci si astiene dal sostituire le parole alle cose e si privilegia, invece, una conoscenza descrittiva. Innanzi tutto, quindi, bisogna sgombrare il campo dagli “idola” che ostacolano la conoscenza e che possono essere di vario tipo.
Vi sono gli idola tribus (connaturati alla mente umana), idola specus (dipendenti dal temperamento e cultura di ciascuno), idola fori (che nascono dalle relazioni tra gli uomini), idola theatri (errori derivanti dalle varie scuole di pensiero, specialmente con riferimento alla filosofia scolastica). Aggiunge Bacone che i fenomeni vanno classificati secondo la loro presenza, assenza e diversa intensità nella prospettiva di una concezione organica della realtà fisica. Dietro i fenomeni vi sono le forme (“nature”) latenti nella realtà che appare ai sensi e che sono le cause vere dei processi naturali.
Del pensiero baconiano mi interessa sottolineare la necessità di una pars destruens, che sgombri il campo dai pregiudizi, e di una pars construens, che tenga conto e ordini le caratteristiche del loro apparire per poter così arrivare al nucleo essenziale che li contraddistingue. La prima parte di questo articolo consiste, appunto, nell’argomentare intorno alla tendenza a ritenere il fenomeno migratorio la causa di effetti che invece ad esso non sono imputabili, per cui si tratta di una connessione basata su pregiudizi. La seconda parte si sofferma su una corretta presentazione del fenomeno.
Per entrambe le parti sono determinanti i dati statistici, che non solo misurano la manifestazione di diversi aspetti della convivenza (economia, lavoro, demografia, criminalità ecc.) ma possono anche essere attribuiti distintamente alla popolazione autoctona o a quella straniera. In tema di pregiudizi la riflessione baconiana di maggiore interesse in questo contesto riguarda gli idola fori, che con una terminologia moderna possiamo denominare “i pregiudizi di massa”. I mass media , specialmente dopo l’avvento di internet, condizionano il pensiero dei singoli ed enfatizzano le posizione dei decisori pubblici e degli opinionisti politici, culturali,economici religiosi e cosi via. Le affermazioni che circolano maggiormente vengono considerate sinonimo della verità. Quindi i decisori pubblici, attraverso i sondaggi, registrano le idee prevalenti tra la popolazione, in parte da loro stessi determinate, e le considerano la genuina espressione dei desiderata del “popolo sovrano” e le traducono in leggi e comportamenti politici. In questo modo il fenomeno migratorio sta diventando (non solo in Italia ma in tutta Europa) la pietra d’inciampo che ostacola il raggiungimento del benessere della popolazione e la continuazione della civiltà europea: pertanto, esso deve essere contenuto in fase preventiva e, se già insediato, deve essere posto in una situazione marginale, superando i fumosi discorsi sull’integrazione in un Paese interessato a salvaguardare il suo patriottismo, la sua sovranità e il suo autonomo sviluppo.
È corretta questa impostazione seppure contraria a quella in precedenza seguita? Per maturare una personale convinzione al riguardo è indispensabile basarsi sui dati statistici, che garantiscono oggettivamente di misurare la corrispondenza con i fatti di quanto si afferma.
Ho diviso l’analisi critica dei pregiudizi in 10 punti (quelli più ricorrenti nella discussione), ma è evidente che, pur essendo importanti quelli trattati, se ne possono aggiungere anche altri (ad esempio, a livello sanitario, a livello culturale e così via). Anche i punti dedicati a un corretto percorso nella costruzione del fenomeno migratorio possono includerne altri oltre a quelli trattati. Le conclusioni saranno molto brevi. Come è consuetudine del Centro studi e ricerche IDOS e del suo principale rapporto (il Dossier Statistico Immigrazine), qui non si tratta di indottrinare bensì di fornire elementi validi perché ciascuno possa avere una visione non pregiudiziale sull’immigrazione.
Pars destruens: superare i pregiudizi
Di chi è la colpa se l’Italia non cresce economicamente?
Il primo fondamento della Repubblica italiana è la creazione di posti di lavoro per tutti. Da molti anni in Italia non si riesce a raggiungere questo obiettivo. I tassi di crescita sono stati e continuano a essere i più bassi nell’Unione Europea e forse si raggiungerà appena l’1% nel 2019. Attualmente sono minimi gli investimenti, languono la ricerca tecnologica e l’innovazione, le aziende sono oberate dalle tasse e alle prese con una burocrazia pesante e costosa, mentre il debito pubblico continua a crescere e ottenere mutui diventa più costoso per le famiglie e le aziende.
Gli immigrati non sono colpevoli di questo andamento e anzi danno una mano a livello economico, fiscale, occupazionale e imprenditoriale. Un bilancio tra quanto si spende a livello pubblico per gli immigrati e quanto essi versano all’erario evidenzia un risultato positivo per le casse pubbliche di circa 2 miliardi di euro l’anno.
Di chi è la colpa se l’andamento demografico è fortemente negativo?
Le nascite sono dimezzate rispetto agli anni ’60 e gli ultra sessantacinquenni sono un quarto della popolazione totale e, soprattutto, sono più numerosi di chi ha un’età fino ai 30 anni. Nel 2017 tra gli italiani i morti sono prevalsi sui nuovi nati di 250mila unità: un saldo demografico che si prevede sarà negativo di 2,5 milioni di residenti nel prossimo decennio e di oltre 7 milioni di qui a mezzo secolo. Con numeri così alti non si può pensare a una “decrescita felice”, si determineranno effetti negativi sulla occupazione a livello previdenziale: è possibile che, continuando così le cose, a metà secolo vi sarà solo un lavoratore in attività per ogni pensionato, essendo gli ultra sessantacinquenni diventati nel frattempo un terzo della popolazione.
La colpa non è degli immigrati, che con le nuove nascite e i nuovi arrivi sono stati un parziale rimedio a questa situazione critica. I decisori pubblici sono tenuti a riflettere su queste prospettive e a pensare alle future generazioni.
Di chi è la colpa se il lavoro manca?
L’Italia non riesce a innovare il suo sistema produttivo in misura paragonabile agli altri grandi Paesi europei. Il numero dei brevetti è basso, molti scienziati vanno a lavorare all’estero, le università non hanno gli stessi standard qualitativi di una volta, il sistema di formazione professionale non è neppure lontanamente paragonabile a quello tedesco, la scuola è in crisi.
Su questi fattori non hanno influito gli immigrati, che si sono inseriti negli spazi lasciati liberi dagli italiani: manovalanza, facchinaggio, bassi servizi nella ristorazione e negli alberghi, collaborazione come assistenti familiari o badanti e così via. Mansioni che per il 34% di essi sono inferiori alla preparazione ricevuta e danno luogo a una retribuzione del 27% inferiore a quella degli italiani. Tra l’altro, i nati all’estero, con 588 mila imprese (circa il 10% del totale), assicurano essi stessi posti di lavoro, anche ad italiani.
Chi è maggiormente colpevole della criminalità in Italia?
Sia gli italiani che gli stranieri sono implicati nelle denunce, tuttavia agli immigrati regolarmente residenti è stato spesso addebitato un alto tasso di devianza non comprovato dalle statistiche del Ministero dell’Interno, correttamente interpretate. Tra il 2004 e il 2016 la popolazione italiana è rimasta sostanzialmente stabile (diminuita solo di 130 mila unità), ma le denunce contro gli italiani sono aumentate del 43,65%. Invece, gli immigrati regolari sono più che raddoppiati (+128,3%), mentre le denunce contro di loro sono aumentate solo del 13,7%. La stragrande maggioranza delle denunce riguarda gli stranieri in posizione irregolare e anche gli stranieri di passaggio. È da tenere, inoltre, presente che una buona parte delle denunce concerne le infrazioni alla normativa sull’immigrazione.
Tenuto conto di questi aspetti, si può concludere che gli immigrati hanno all’incirca lo stesso tasso di criminalità degli italiani. In ogni modo deve essere intensificato l’impegno a diminuire la criminalità, sia nel caso degli stranieri che degli italiani.
A chi è imputabile il problematico andamento del sistema previdenziale?
Influiscono al riguardo il basso livello di occupazione, l’età mediamente avanzata degli italiani, la forte spesa per interventi di sostegno lavorativo e assistenziale.
Gli immigrati sono preziosi sostenitori del nostro sistema pensionistico perché pagano 9 miliardi di contributi l’anno e incidono per meno dell’1% sulle pensioni in pagamento. Sul sistema assistenziale gli immigrati incidono di più (ad esempio, sulle indennità per maternità), ma complessivamente in linea con la loro incidenza sulla popolazione residente.
È vero che le nostre tradizioni religiose saranno sempre più mortificate dagli immigrati?
La maggioranza degli immigrati è cristiana (52,6%), con oltre 1,5 milioni di ortodossi, quasi 1 milione di cattolici (918 mila) e oltre 220 mila protestanti. Gli altri grandi gruppi religiosi sono quello musulmano (oltre 1 milione e 600 mila, quasi un terzo dei 5,1 milioni di immigrati residenti) e diverse altre religioni (induisti, buddisti, altri gruppi minori e un consistente numero di atei e agnostici, per una quota complessiva del 14,6%).
Il fatto che in Italia non ci siano stati atti di terrorismo di ispirazione islamica è dipeso non solo dalla prevenzione delle forze di polizia, ma anche dall’atteggiamento dialogante delle diverse comunità religiose, i cui luoghi di culto sono anche centri di aggregazione e di integrazione.
Possiamo ritenere gli immigrati colpevoli per il fatto che non restano a casa loro?
Anche noi italiani siamo andati e continuiamo a emigrare in altri Paesi. Dal 1861, anno dell’Unità d’Italia, ad oggi hanno preso la via dell’esodo circa 30 milioni di italiani. Ancora oggi vivono all’estero 5,2 milioni di italiani, tanti quanti sono gli immigrati stranieri residenti Italia.
Le migrazioni attuali sono dovute alla ricerca di un lavoro e di una vita più dignitosa. In molti Paesi di origine, specialmente in Africa e in Asia, è diffusa la povertà assoluta (700 milioni di persone nel mondo). Inoltre, chi si sposta per richiesta d’asilo lo fa per evitare il pericolo della tortura, della prigione, della morte.
Perché non riducono i flussi di ingresso?
Già dalla fine del 2017 gli sbarchi in Italia sono calati dal picco massimo di 160 mila nel 2016 a poco più di 20 mila nella prima metà del 2018. Le quote d’ingresso per lavoro sono praticamente riservate solo agli stagionali, mentre in Italia non vengono lavoratori qualificati e, anzi, sono i giovani italiani a recarsi all’estero in cerca di migliori opportunità. Si può entrare in Italia solo per ricongiungimento familiare (possibilità garantita dal diritto europeo) e per richiesta d’asilo, come previsto dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione ONU approvata a Ginevra nel 1951.
È vero, però, che per i richiedenti asilo è diventato sempre più difficile attraversare i nostri confini. L’Italia per l’accoglienza dei rifugiati ha fatto di più negli ultimi anni ma, in proporzione, non accoglie più richiedenti asilo di quanto facciano in media gli altri Paesi europei.
È possibile superare i flussi migratori sostenendo lo sviluppo nei Paesi di origine?
L’obiettivo è giusto ma la realizzazione è difficile. Sono di ostacolo diverse cause interne: élite politiche corrotte e dittatoriali, contrapposizione tribali e religiose, rapporti di inimicizia con i Paesi vicini. Altrettanto gravi sono le cause esterne riferibili ai Paesi ricchi, interessati allo sfruttamento del petrolio e delle ricchezze minerarie, come anche al controllo delle aree militarmente strategiche. In Italia da ultimo si è parlato molto di aiutarli a casa loro, ma per l’aiuto allo sviluppo la legge di bilancio ha ridotto lo stanziamento per il 2019 al di sotto dello 0,30% (poco più di 5 miliardi di euro), mentre la media europea è dello 0,5% e l’obiettivo fissato a livello internazionale è dello 0,7%.
Riescono a fare di più gli stessi immigrati con i loro risparmi: dall’Italia, nel 2017, sono stati inviati 5 miliardi di euro nei Paesi di origine. Le Ong italiane, da lungo impegnate a livello internazionale, potrebbero essere incaricate di studiare progetti di sviluppo in loco, inserendovi anche le persone sbarcate e non riconosciute come rifugiati, evitando così di condannarli o alla irregolarità o a un ritorno fallimentare.
Si può sperare in un esaurimento della spinta migratoria?
Questa speranza è irrealistica. Secondo gli esperti a metà secolo non solo crescerà la popolazione mondiale (fino a 9 miliardi di persone dagli attuali 7,3 miliardi) ma raddoppierà quasi il numero dei migranti nel mondo (da 286 milioni a circa 460). Basti pensare che l’Africa diventerà il continente più popolato con meno di 2,5 miliardi.
La presenza degli immigrati in Italia è già rilevante: incidono per il 10% sulla popolazione residente (inclusi quelli diventati cittadini italiani), il 10% sui matrimoni, quasi il 10% sugli iscritti nelle scuole, il 10% sugli occupati, quasi il 10% tra i responsabili di impresa, quasi il 16% sui nuovi nati e producono circa il 10% del PIL. Dopo il 2050 gli immigrati e gli italiani di origine straniera potranno incidere per quasi un terzo sulla popolazione residente, una situazione per diversi aspetti simile a quella riscontrabile attualmente in Svizzera e in Canada, Paesi moderni e prosperi.
La presenza degli immigrati è necessaria per motivi demografici, ma per la convivenza è indispensabile che si passi dalle “discriminazioni” alle “pari opportunità”, nell’ottica di una vera integrazione.
Pars construens: individuare le vere cause
Cosa è avvenuto dopo le “Primavere arabe”
Dal 2011, anno delle “Primavere arabe e della caduta del regime di Gheddafi, in Italia sono aumentati gli sbarchi, arrivati a quota 170mila nel 2014) e destinati a persistere nel futuro. I flussi prevalenti non sono più costituiti da persone alla ricerca di lavoro bensì da persone in fuga, perché bisognose di protezione umanitaria. L’Unione Europea si è mostrata impreparata di fronte a questi sviluppi e gli Stati membri come l’Italia, più esposti per via dei loro confini esterni, si trovano in una situazione di emergenza.
Dopo “le primavere” arabe” la riduzione dei flussi nei due anni successivi aveva indotto a pensare che si sarebbe ritornati al più tranquillo andamento del passato e invece così non è strato. La Grecia e l’Italia sono state sbocco di flussi senza precedenti e, bloccato il traffico che portava in Europa attraverso la Grecia a seguito del costoso accordo firmato con la Turchia, l’Italia è stata sola ad affrontare un livello di sbarchi che prima sarebbe stato inconcepibile, rispetto ai quali la politica degli “hot spot” decisa dall’Unione Europea ha mostrato i suoi limiti, non avendo la capacità (nonostante la base giuridica dei trattati) di imporre agli Stati membri un’equa distribuzione.
L’Italia, alla fine del Governo Gentiloni e quindi con il Governo Conte, è intervenuta autonomamente e, con norme interne e accordi con gli Stati di transito (in particolare con la Libia), è riuscita a ridurre gli sbarchi dai 160 mila del 2016 ai poco più di 20 mila del 2018. Restano, però, da individuare le cause dell’aumentata pressione migratoria.
La ricchezza mondiale non è equamente distribuita
La prima causa è di natura economica. All’origine dei flussi continueranno a collocarsi le misere condizioni di vita che costringono le popolazioni a vivere al di sotto di un livello dignitoso, quando addirittura non si tratta di povertà estrema. La ricchezza mondiale non è equamente distribuita e i Paesi del Nord del mondo (di cui, nonostante i suoi problemi, fa parte anche l’Italia) dispongono di risorse molto più consistenti rispetto alle loro popolazioni. Altre cause dell’ esodo attuale sono l’instabilità politica (spesso generata dall’esterno), le guerre, le lotte civili, le persecuzioni religiose, le carestie, la desertificazione e simili, con sistematica violazione dei diritti umani: Non si tratta solo di dare un tetto o un pasto caldo a chi arriva, ma anche di creare le condizioni politiche favorevoli al rispetto dei diritti umani e dei popoli, evitando il loro esodo e riconoscendo la migrazione come un diritto di scelta individuale non l’esodo di un popolo.
Si assiste a una transizione demografica epocale
La seconda causa è di natura demografica. L’Europa ha dato scarso peso ai segni premonitori di questo esodo di massa dai Paesi a forte pressione migratoria. Le autorità comunitarie hanno riposto un’eccessiva fiducia sull’efficacia delle politiche di contenimento e di contrasto, destinando loro ingenti risorse, senza approfondire sufficientemente le modalità e le forme possibili per una politica dell’ accoglienza e una progettazione a lungo termine.
Si assiste a una transizione demografica senza precedenti. Il popoloso continente asiatico ha congiunto la crescita demografica a quella economica e non è solo la Cina conosce formidabili tassi di sviluppo, che stanno consentendo a quel continente di affermarsi sempre più come centro dello sviluppo del mondo.
Da qui a metà secolo il continente africano passerà da 1,3 miliardi di abitanti a 2,5 miliardi (tanti quanti ce ne saranno in Cina e in India), unendo a questo primato demografico la straordinaria ricchezza di materie prime. Purtroppo, nonostante il continente abbia un tasso di sviluppo medio del 5% l’anno, ha una situazione di povertà molto diffusa, di guerre interne, di desertificazione che, unitamente all’influenza tutt’altro che disinteressata dei Paesi industrializzati, rendono difficile un adeguato processo di sviluppo. Nell’ambito delle Ong per lo sviluppo è stato calcolato che per ogni dollaro dato come aiuto all’Africa vi sono fino a 40 dollari che escono dal quel continente a beneficio dei Paesi donatori: in queste condizioni le migrazioni economiche e umanitarie restano una tragica necessità.
In quasi tutti gli Stati dell’Ue la popolazione è molto vecchia e abbisogna del supporto di quote di popolazione più giovane per salvaguardare un certo equilibrio tra le persone che si sono ritirate dal lavoro e quelle che ancora sono in attività. Gli immigrati, specialmente a partire dagli anni 2000, in Italia hanno compensato la diminuzione dei residenti (o l’hanno contenuta negli ultimi anni) e hanno svolto un ruolo molto positivo a livello demografico (un sesto delle nuove nascite) e lavorativo (un decimo degli occupati), dando alle casse dello Stato di più rispetto a quanto ricevuto in termini di servizi.
La normativa europea è inadeguata
La terza causa si riferisce alle carenze dell’Unione Europea. Anche la normativa europea risulta del tutto inadeguata alla luce degli eventi degli ultimi anni: da giudicare positivamente, perché ha liberalizzato lo spostamento dei cittadini degli Stati membri all’interno dell’Ue, e negativamente sul versante esterno, perché le cosiddette convenzioni di Dublino addossano per intero agli Stati membri di confine l’accoglienza e la competenza dei richiedenti asilo, senza che peraltro sia risultato finora possibile pervenire a ritocchi sostanziali. Sia nell’UE che in Italia mancano politiche a lungo termine in grado di conferire dignità alle migrazioni: modifiche normative sono necessarie e possibili e perciò la società civile ha chiesto la deroga, consapevole delle lacune dell’accordo.
È difficile andare alle radici di questo esodo, ma è anche complicato gestirne il flusso in continuo aumento. All’inizio il problema è stato relegato ai Paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo, il Regolamento di Dublino III (che regola in UE il diritto d’asilo) è irrazionalmente sbilanciato e quindi inadatto a far fronte ai nuovi avvenimenti.
Il ruolo dell’ informazione
La quarta causa coinvolge il sistema di informazione. Sono diversi i punti fermi di una corretta campagna informativa. Innanzi tutto bisogna rendersi conto che gli spostamenti, per la ricerca di un lavoro o di una tutela umanitaria, sono inevitabili nell’attuale situazione di squilibrio mondiale. Le migrazioni si possono governare ma non eliminare, così come si può intervenire per portare la pace nei focolai di tensione, per favorire lo sviluppo in loco, riprendere le politiche di cooperazione, incentivare l’utilizzo dinamico delle rimesse, le Ong con le loro iniziative, avvalersi dell’apporto delle Ong e delle associazione degli immigrati.
In questo contesto nell’Unione Europea (ivi inclusa l’Italia) sta aumentando l’ostilità nei confronti della “presenza straniera” attraverso la diffusione di notizie non corrette, sia che si tratti di lavoratori che di persone fuggite per scampare alla morte. La lunga crisi economica iniziata nel 2008 ha reso la popolazione meno disponibile alla solidarietà e, tra i politici, vi è chi non si lascia coinvolgere su questo versante e non prende posizioni chiare e chi sfrutta la questione per avere più voti, incrementando quello che viene definito odio razziale.
I cambiamenti in meglio sono possibili
In Italia i nuovi flussi potranno essere accolti, superando la strategia dell’emergenza, a condizione che le autorità favoriscano forme di accoglienza più diffuse, (coinvolgendo anche le famiglie), inserendole nel mercato occupazionale (e per questo rafforzando la ripresa e incrementando i posti di lavoro), basando il percorso di inclusione dei nuovi e dei vecchi immigrati sul principio delle pari opportunità, libero dalle discriminazioni.
Ma non si tratta solo di avvalersi nei Paesi di accoglienza dell’apporto degli immigrati, ma anche di farsi carico di un discorso di solidarietà nei confronti dei loro Paesi, non da ultimo per una ragione di coerenza storica, tenuto conto che sono sparsi nel mondo circa 5 milioni di emigrati italiani (all’incirca tanti quanti sono gli immigrati) e che, nel passato, siamo stati accolti all’estero come profughi, sia durante i moti risorgimentali che durante il fascismo.
Se i cittadini accettassero senza contrastarlo questo andamento negativo, la situazione non farebbe altro che peggiorare. Non è vero che la base non possa influire al riguardo. Anche se le scelte formali spettano ai decisori pubblici, la base svolge una funzione fondamentale perché, quando essa si mostra correttamente informata, può influenzare le decisioni dei politici, continuamente in ascolto tramite i sondaggi. Sono diverse e significative le esperienze che mostrano come il cambiamento sia possibile, in ambito sociale e anche in ambito strutturale.
L’Italia, a partire dal secolo XIX, si è distinta in Europa come un Paese di forte emigrazione che con i suoi lavoratori ha assicurato a tante aree del mondo un apporto di manodopera funzionale al loro sviluppo, oltre ad alleviare in questo modo l’abnorme livello di disoccupazione nelle regioni di partenza. Sono emigrati, dall’Unità d’Italia del 1861 al 2018 circa 30 milioni di italiani, dei quali ben 14 milioni nel periodo 1876-1915, conosciuto come l’età del grande esodo: anche nel secondo dopoguerra sono stati notevoli i flussi in uscita, peraltro ripresi in questi ultimi anni .
L’emigrazione italiana fu preceduta e concomitante con quella dei Paesi del Nord e del Centro Europa, che alimentarono consistenti flussi di emigrazione in America, dove tra il 1900 e il 1920 si recarono ben 20 milioni di europei alla volta del continente americano. Le nazioni di destinazione, pur bisognose di manodopera, certamente non si sarebbero aspettati migranti, come gli italiani, caratterizzati dalla mancanza di scolarizzazione e impreparati a inserirsi nei nuovi contesti. A farli emigrare era il bisogno estremo.
Mentre nel centro-nord Europa era da tempo in atto una profonda trasformazione industriale, l’Italia rimaneva attardata perché prima era rimasta assorbita nelle guerre d’indipendenza e poi fu coinvolta in una unificazione mal congegnata perché lasciava indietro il Meridione, anche se, in generale, tutta l’Italia se la passava male. Nel 1861 Italia, di cui non facevano ancora parte il Lazio (sotto lo Stato Pontificio) e il Nord Est (sotto gli austriaci) contava 22 milioni e 182 mila residenti. Il 70% era occupato nei campi, il cibo scarseggiava, il trasporto era su carretti o somari, l’invecchiamento era precoce e la povertà molto diffusa. L’acqua da bere veniva attinta ai propri pozzi e mancava la luce elettrica, i neonati nel 25% dei casi morivano nel primo anno di vita perché era continua l’esposizione alle infezioni. L’analfabetismo era molto diffuso e, in diverse aree e ambienti, arrivava al picco del 90%.
Nel 1876, così scrivevano all’allora ministro dell’Interno Giovanni Nicotera (1828-1894 alcuni contadini lombardi per descrivere la loro situazione:
«La nostra vita è tanto amara che poco più è morte. Coltiviamo il frumento e non sappiamo cosa sia il pane bianco. Coltiviamo viti e non beviamo vino. Alleviamo bestiame e non mangiamo mai carne. Vestiamo fustagno e abitiamo in ovili. E con tutto ciò pretendete che non dobbiamo emigrare?».
Questi alcuni dei risultati dell’indagine promossa sulle condizioni economiche sociali delle famiglie:
«Nelle valli delle Alpi e degli Appennini, ed anche nelle pianure, specialmente dell’Italia Meridionale, e perfino in alcune province fra le meglio coltivate dell’Alta Italia, sorgono tuguri ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce, vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame. E tali catapecchie si contano forse in centinaia di migliaia».
Gli italiani andavano a inserirsi come colonie nelle vaste distese dell’America Latina (rimediando alla soppressione della schiavitù) e nelle rispettive città, a volte ben accolti come in Argentina e a volte sfruttati. L’insediamento fu durissimo anche presso le industrie del Nord America, perché circondati di sospetto per i loro tratti somatici, la loro bassa cultura, la scarsa conoscenza della lingua. Di tutto ciò non tenevano conto le compagnie di navigazione e gli agenti e i subagenti di emigrazione, che invitavano a vendere tutto o a far dei prestiti per andare incontro alla fortuna nel nuovo mondo.
Gli italiani andavano a inserirsi nelle campagna e nelle industrie e in molte città europee, spesso mal visti, si arrangiavano come potevano per campare, operando come piccoli artigiani, venditori ambulanti di statuette, arrotini, lavoratori di piastrelle, artisti di strada (girovaghi, saltimbanchi e suonatori di organetto), piccoli commercianti (soprattutto nel settore alimentare), venditori itineranti di castagne d’inverno e gelatai d’estate. Non mancavano per le strade i minori con i pappagalli e le scimmie, quando anch’essi non venivano sottoposti al duro lavoro industriale.
Ora le collettività italiane, giunte alle terze e alle quarte generazioni, sono bene accette, ma i pionieri dell’emigrazione ebbero una vita durissima che si tende a dimenticare e che ricorda, per tanti aspetti, seppure sotto diverse forme, i flussi migratori verso l’Italia.
Uno sguardo al futuro dell’Italia
Le ultime proiezioni demografiche, che coprono il periodo 2015-2065, sono state rese note dall’ISTAT il 25 aprile 2017. L’Istituto Nazionale di Statistica è ricorso a una metodologia in parte diversa rispetto a quella seguita nelle precedenti proiezioni. Inoltre, per ragioni metodologiche, non può essere omogeneo un confronto con le proiezioni, curate da Eurostat perché prive di varianti, mentre le elaborazioni ISTAT includono una variante bassa, una mediana (quella più probabile, alla quale si farà riferimento in questo articolo) e una alta. Naturalmente, trattandosi solo di previsioni, basate su fattori che nel futuro potranno avere valori diversi da quelli ipotizzati (sia verso l’alto che verso il basso), al riguardo l’ISTAT ha precisato che
«A meno di un qualche significativo cambiamento del contesto globale, pertanto, la futura evoluzione demografica appare in gran parte definita. Le ipotesi riguardo al comportamento demografico futuro della popolazione possono soltanto attenuare (o accelerare) le tendenze in corso ma non modificarle in modo sostanziale».
La popolazione residente in Italia diminuirà a 58,6 milioni nel 2045 e a 53,7 milioni nel 2065 (7 milioni in meno rispetto ai 60,5 milioni del 2017). È vero che lo scenario alto prevede, invece, un aumento dei residenti a 61,5 milioni, ma, secondo l’ISTAT, la probabilità di un aumento è pari al 7%. La diminuzione dei residenti sarà progressiva: 60,4 milioni nel 2025, 59,7nel 2035,58,6 nel 2045, 56,4 nel 2055 e 53,7 nel 2065.
Il Centro-Nord, che si avvantaggerà maggiormente sia dell’immigrazione dall’estero sia delle migrazioni interne, è destinato ad accogliere il 71% della popolazione totale (5 punti percentuali in più rispetto alla situazione attuale). In quest’area la diminuzione della popolazione inizierà solo dopo il 2045, mentre nel Meridione la stessa sarà più immediata e più incisiva.
Nel 2065 l’età media da 44,7 anni iniziali passerà a 50 anni. La popolazione sarà più vecchia e più longeva: la vita media sarà di 86,1 per gli uomini e di 90,2 per le donne. Il picco di invecchiamento colpirà l’Italia nel 2045-50, quando la quota di residenti con oltre 65 anni inciderà per il 34% sulla popolazione totale
Alla diminuzione della popolazione si aggiunge il quasi generale peggioramento degli altri indicatori demografici: tassi di fecondità e di natalità, età media, invecchiamento della popolazione, persone in età lavorativa, indice di dipendenza degli anziani, dipendenza strutturale, tassi di emigrazione e di immigrazione e di conseguenza numerosità della popolazione straniera (e degli italiani di origine straniera).
Alla fine del periodo di previsione le nascite si ridurranno a 422 mila all’anno e i decessi aumenteranno a 768 mila ogni anno e il divario salirà a 300-400 mila unità l’anno. Il forte divario persisterà nonostante il previsto aumento del tasso di natalità (dall’attuale 1,25 a 1,93 figli per donna). Il saldo naturale avrà un valor negativo, pari a -7,4%, già a partire dal 2055.
Nello scenario mediano si assume una quota annua di immigrati di 300 mila, che scende a 270 mila nel 2065. Nel periodo 2015-2065, complessivamente 14,4 milioni di immigrati si trasferiranno dall’estero in Italia. Mediamente per i flussi da e per l’estero si prevede un saldo positivo annuo di 150 mila unità. Pertanto, il saldo negativo dell’andamento demografico trova un parziale sollievo nel saldo migratorio, che comporta 2,5 milioni di residenti aggiuntivi nel corso dell’intero periodo di previsione.
Nelle proiezioni ISTAT sono contenute anche le indicazioni su chi lascerà l’Italia per recarsi all’estero.
Dopo una prima fase di diminuzione delle partenze tra il 2016 4 il 2035 (da 157 a 132 mila tra il 2016 e il 2035), nel medio e nel lungo periodo (e cioè a partire dal 2035) si determinerà un aumento di chi si reca all’estero. In totale a emigrare dall’Italia per l’estero saranno 6,7 milioni nell’intero arco di proiezione
Il saldo migratorio con l’estero ipotizzato nello scenario mediano sarà sempre positivo seppure con queste variazioni: 135 mila unità nel 2016, 162 mila nel 2035 e, infine, 139 mila nel 2065. Questi dati attestano che l’Italia, pur restando un polo di attrazione degli immigrati, potrà essere anche un Paese di consistente emigrazione.
Sull’andamento demografico avranno un forte impatto i flussi migratori con l’estero. Anche se su questi flussi influiscono notevolmente le decisioni politiche, si prevede che i fattori di espulsione delle aree di origine continueranno adoperare e, secondo l’ISTAT, è fortemente improbabile che il saldo nei movimenti con l’estero nel futuro sia di segno negativo.
Si può aggiungere che nel 2054 i cittadini stranieri e gli italiani di origine straniera potranno incidere per circa un terzo sulla popolazione totale, tenuto conto delle nuove nascite da genitori stranieri e del fatto che protagonisti dei nuovi ingressi saranno in massima parte gli stranieri e protagonisti delle partenze per l’estero saranno in misura maggioritaria gli italiani.
Conclusioni: andare oltre il sentito dire
Il senso comune, e cioè le opinioni condivise dai più, non sempre equivalgono al buon senso per via delle diffuse e insidiose strategie di manipolazioni oggi possibili. Le statistiche di fonte attendibile possono essere un efficace rimedio contro le manipolazioni perché costringono a misurarsi con la realtà esterna.
In Italia la presenza immigrata non è di passaggio. Queste persone sono venute nell’ottica di un inserimento stabile e destinati a essere i nuovi cittadini, con il carico delle loro differenze socio-culturali e religiose. Il loro innesto nel tronco delle tradizioni locali può assicurare frutti innovativi, ma abbisogna di particolari attenzioni, che passano sotto il nome di politica di integrazione, un concetto in fase di oblìo.
Le proiezioni demografiche attestano che la presenza immigrata in Italia è destinata, per forze di cose, ad ampliarsi nel futuro. Alcide De Gasperi, un grande politico che del secondo dopoguerra molto si adoperò per la ricostruzione dell’Italia, affermò che, mentre i politici pensano alle prossime elezioni, gli statisti pensano alle future generazioni: tra le future generazioni vi sono anche gli immigrati.
Sul loro ruolo mi piace riportare in chiusura la stimolante affermazione del grande economista liberal John Kenneth Galbraith (1908-2006):
«Le migrazioni sono la più antica azione di contrasto alla povertà, selezionano coloro i quali desiderano maggiormente riscattarsi, sono utili per il Paese che li riceve, aiutano a rompere l’equilibrio di povertà nel Paese di origine: quale perversione dell’animo umano ci impedisce di riconoscere un beneficio tanto ovvio?»
Dialoghi Mediterranei, n.35, gennaio 2019
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Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino al 2917, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Studi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico. è anche direttore responsabile della rivista Affari Sociali Internazionali, prima edita da Franco Angeli con la cura redazionale del Ministero degli Affari Esteri – Direzione generale degli italiani nel mondo, e ora pubblicata dal Centro studi e ricerche IDOS
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