di Stefano Montes
io sono fissato, assegnato a un luogo (intellettuale), ad una residenza di casta (se non di classe). Contro ciò una sola dottrina interiore: quella dell’atopia (dell’abitacolo alla deriva). Barthes, Barthes di Roland BarthesUn incidente è un incidente [1]. Il cerchio si apre e si chiude: con un incidente e un episodio casuale, con un’accozzaglia di espressioni comuni, una riflessione sulla forza del caso. Come questo saggio: che forse saggio non è. Un incidente costituisce una discontinuità nel fluire del quotidiano; un episodio casuale si dà talvolta come fatto imprevisto che impone una riflessione sulla vita a venire. Come si vuole, come si crede. E, una volta in ballo, bisogna ballare, darci dentro, non mettersi da parte. Non ci si può tirare indietro, comunque, perché il tempo corre e ci trascinerebbe via con sé: alcuni avanti, altri dietro. Chi ha tempo, non aspetti tempo? A che vale aspettare, allora! L’attesa è inutile. Il tempo occorre e corre? Corre, corre, eccome se corre! Il tempo è inesorabile e appetibile, il tempo corre e scorre, si avvale di corsi e ricorsi, di mollezze e follie, di arature e mietiture. Per esempio? Se il tempo è molle, il dente è più folle; se c’è un tempo per arare, allora c’è pure un tempo per mietere. I luoghi comuni e le frasi fatte irrompono banalmente, qui e lì, nella mia mente irragionevole ma attenta al suo fluire rapido, mentre un incidente recente, insolito e riottoso prende forma su carta, si dibatte tra la forma convenzionale del saggio e quella della narrazione più libera dal giogo scientifico. La perplessità rimane: permane, si mantiene, mi trattiene. Mi lascio andare alla saggezza dei luoghi comuni o sottraggo con impeto l’incidente capitatomi al disordine della contingenza? Entrambi, credo. Come i movimenti complementari di un’onda, ‘lasciare’ e ‘sottrarre’ possono per una volta interagire liberamente, possono influenzarsi reciprocamente senza un canone prestabilito da una qualche rigida intenzione originaria che li terrebbe tirannicamente a bada. Mi avvalgo dunque di stereotipi, traspongo in testo un episodio esperito in prima persona sulla mia pelle pallida, mentre il tempo corre adesso molle in folle. Con un po’ di poesia e un accenno dissimulato, malcelato a qualche teoria. Quale teoria? Chi vuol capire, capisca.
Qualcosa è accaduto, è certo, oltre il valore del testo, nel rilascio dell’attimo impudente. Meglio: qualcosa stava per accadere mentre passeggiavo per le vie di Tallinn percorse dalla neve capricciosa e dalle auto a passo d’uomo. È accaduto? Stava per accadere? Dipende dalla prospettiva temporale attraverso cui si inquadra l’evento e dal luogo in cui ci si rifugia per lasciare correre lo sguardo. In che angolo del mondo mi piazzo io per sottrarmi al peso esclusivo del mio punto di vista? Nel tempo della riflessione, nel tempo che mi occorre per prendere posto: faccio così in modo che il tempo, al passo, con i dolci rallentamenti e le sue brusche accelerazioni, mi conduca e dia ritmo cognitivo alle mie considerazioni volutamente disorganiche. Al passo pazzo.
E intanto dico cosa facevo in chiave più poetica, quale verso aveva preso il fatto, per una semplice ragione: ogni cosa ha il suo verso e io voglio prendere le cose per il verso giusto. Io passeggiavo e mi rilassavo, pensavo affondando i piedi sulla neve, pensavo e giocavo con mio figlio spingendo le mani in tasca per il freddo, tirandole fuori per qualche scambio di finti attacchi e fendenti improvvisi. Per gioco. Come sempre, come al solito: a ogni azione diversa corrisponde una qualche forma di pensare specifico che ad essa si attaglia o dalla quale si distoglie; a una gragnuola di colpi ne fa abitualmente seguito un’altra, a ruota libera, in sciolta ripetizione o per insistita differenza; a un calcio si risponde con un pugno, senza preavviso, per gioco, valutando caso per caso, sulla scorta degli esempi precedenti, fingendo indifferenza, assicurando costanza, un paio di frasi buttate giù così, per l’occasione, qualche altra come diversivo più in là, per prepararsi all’incursione successiva. Io passeggiavo e passeggio in sintonia con il mondo esterno, osservavo e osservo i miei pensieri man mano che si presentano, partecipavo e partecipo ai sussulti delle mie gambe sul terreno accidentato, mi predisponevo e mi predispongo alle pieghe del cammino sorpreso dal clima. Il contesto in dissesto richiama i pensieri alla mia attenzione lesta a tradurli in testo.
E intanto la passeggiata, a Tallin o altrove, prosegue indifferente al ritmo del gioco, tra un pensiero e l’altro, un attacco e una difesa, una riflessione imprevista e un’azione premeditata. Qualcosa è però accaduto a un certo punto, questa volta, in questa singola, spuria occasione: tutto immerso, beato nel processo in corso; qualcosa di puntuale è intervenuto producendo un salto, una interruzione della linearità degli eventi, una irregolarità nella preordinata progressione del fare e del dire. Per l’appunto, un incidente, un contrattempo, un evento inatteso si è presentato senza offrire un adeguato avviso, a me, ignaro, nel bel mezzo della passeggiata, nel consueto corso del quotidiano sopravvenire. Un incidente, cosa è, in fondo, se non un evento in margine ad altri eventi, una manifestazione dell’inatteso rivelatasi senza preavviso, difficile da controllare sul momento? Per un soggetto, un incidente è sempre a margine di un momento di inconsapevolezza rivelatasi tale soltanto nel seguito dell’accadere, a cose fatte, nel rallentare pacato della riflessione. Si tratta di venire alle prese con ciò che non ci si aspettava.
E intanto, nonostante il punto e la linea e tutto il resto in sosta nella mia mente al lavoro sull’incidente non più imminente, il tempo corre, poiché, come sappiamo tutti, una volta in ballo, bisogna ballare: luoghi comuni, frasi fatte, stereotipi del parlare abbondano non appena si apre bocca e le parole volano altrove, talvolta per vie inaspettate, talaltra per vie fin troppo ovvie. ‘Un incidente è un incidente’ non è forse una espressione tautologica? Che modo è mai questo di cominciare il racconto di un evento realmente accaduto per quanto inatteso? È modo questo di dare inizio a un eventuale saggio camuffato da narrazione poetica che si cela dietro l’irruente saggezza dei luoghi comuni? Inaudito! L’ovvio e l’ottuso si influenzano reciprocamente. Per iniziare (per iniziare come si deve in un testo situato come le azioni che lo hanno prodotto), una considerazione: non facciamo altro che ricorrere a luoghi comuni per parlare ed esprimere i nostri sentimenti, interagire ed essere noi stessi, nel mondo che esala alle prese col fluire del tempo e nella fantasia che isola con la giusta pretesa all’improvvisazione. Un incidente è un incidente. E allora irrompono i luoghi comuni per ricomporre l’insieme: per darsi ai tempi, chi ha tempo ha vita, dai tempo al tempo. Con in mente una idea velata di stringata speranza: se solo il dire potesse sciogliere i grumi di neve, far svanire le pozzanghere, spazzare lo sporco incipiente ai bordi della strada!
La vita, i grumi, il tempo, e chi più ne ha ne metta? Ebbene sì, non facciamo altro che impiegarli, concetti e stereotipi, bell’e pronti, per ovviare alle lacune del linguaggio non figurato. Il reale se ne nutre. Sono una forza, è vero, irrompono: sorreggono i pensieri e li traspongono con immediatezza, pronti all’uso e alla socialità del vivere comune. Lo sono: inutile contrariarli e contrastarli. Basta prenderli con un pizzico di sale e uno schizzo di sole. E allora usiamoli pure, con indulgenza e deferenza, usiamoli ricorrendo alla loro magia e all’insistenza della loro presenza. Usiamoli senza esitare, ben sapendo che il tempo rode ogni cosa e non si sente. Non si sente passare, semmai vorrebbe sempre filare nell’indifferenza generale: di soppiatto. Esserne consapevoli è il primo rimedio alla sua freddezza, alla nostra scarsa dimestichezza e alla sua trasversalità. È così: così sia. Senza presunzione, senza pensare di essere i soli artefici del proprio dire e fare. Io penso e sono pensato dai miei pensieri, agisco e sono agito dai miei automatismi, io parlo per luoghi comuni: dissestandone per mio divertimento la strada battuta, ne sono attraversato a mia insaputa. Sarei uno sciocco se non lo sapessi. Vorrei adesso soltanto essere un fiocco che non cade in nessun posto preciso, rimanere in eterno a mezz’aria indeciso sul da farsi, ondeggiare passivamente sui miei pensieri come la neve sostenuta da un colpo di vento sfacciato.
Stereotipie del linguaggio? È inevitabile servirsene, ne prendo atto, non mi rassegno: un pizzico di resistenza è il male minore, ben sapendo che non tutto il male vien per nuocere. E intanto il tempo corre e io continuo a cercare il filo dell’accaduto, persevero nel tentativo di ricondurre il caso fortuito a una eventuale causa, seguito nel mio voler compendiare l’evento inatteso in scritto lineare, efficace, comprensibile a quel me stesso che cerca di proiettarsi fuori dalla gabbia dell’episodio imprevisto in accordo a due esigenze precise: prendere le distanze per avere il quadro d’insieme, non allontanarsi troppo dalle circostanze in atto per rimanere nel flusso. Non tutto il male vien per nuocere? Un evento è un evento. Un evento è ciò che accade. Un evento è un insieme e un flusso. Male o bene che sia. Mi tuffo dunque nel divenire, rimango comunque in guardia, pronto a render pan per focaccia a chicchessia e recuperare l’insieme, ritornando ben presto a galla. A che vale aspettare? Meglio passare a flussi e tuffi, pani e focacce, superficie e profondità del pensiero.
Ma di che si tratta, più esattamente, fuor di metafora? Qualcosa accade a ogni istante nel quotidiano sistematicamente reiterato, senza partecipazione o regolata consapevolezza, finché l’istante si arresta in un’immagine fissa, puntuale, la cui durata accentratrice pare infinita: ci si sente senza peso, fuor di senno e di gravità, come una bolla sospesa a mezz’aria, come un enorme quadro di Chagall appeso di sbieco, sul punto di cadere, leggero, da un angolo di cielo blu denso. A volte, basta un attimo: il punto cede. Cade. La magia s’interrompe inspiegabilmente. Cessa. Il punto di vista sul mondo si sposta: ci si stupisce. Che succede? ci si chiede. Per rispondere, dovrei mettere mano certa alla scrittura. Celermente, senza perder tempo, dando il mio cieco assenso al divenire ciondolante per interromperlo passando all’atto concentrato in cenno, espandendolo in testo, cambiandolo di segno, mettendo una marcia. Un evento abbisogna di un testo per lasciare traccia di sé. E io non ne avrei, al momento. Non mi rimane altra certezza che questa. Non mi resta che attendere. Nel frattempo, nell’attesa, passeggio nel tempo diluito, fuori tempo e fuor di luogo, in battuta libera, improvvisando a piacimento, in punta di piedi laddove occorre, con il luogo comune che ricorre. E mi chiedo, nel frattempo, quali tratti rendono il tessuto di un incidente, tenuto conto del fatto che è in sostanza impossibile renderlo nella sua totale salienza e insipienza, tale e quale, nei tempi e negli spazi che lo hanno accolto, modellandolo, durante il suo accadere brusco nel fluido divenire? Pur volendolo, non si potrebbe fermare il tempo, corre incontro alla morte.
E io intanto continuo a rincorrere luoghi comuni e meno comuni e modi di dire e ripenso all’accaduto già etere diafano e alla successione incerta dei fatti sottili e alla linea della storia da ricostituire e alle immagini fisse e più instabili che lo accompagnano in relativa autonomia e compatta cocciutaggine. E mi tengo vicino al filo del pensiero con l’impazienza di chi sa bene comunque che, alla fine, è solo questione di tempo da molare: tempo al tempo, il tempo doma ogni cosa, il tempo corre sul filo. Il filo del pensiero e del tempo, poi, per dar retta fino in fondo allo stereotipo, può talvolta assumere la piega del fine in sé, trasformandosi in routine, ordinario divenire e quotidiano andazzo: la colazione, l’ufficio, la spesa, l’appuntamento, la cena, la televisione, il pisolino, le pantofole, lo spuntino. E allora sono guai seri, almeno per me, perché non voglio più staccarmi dal vivere comune: la routine dà un fondo di solidità, pace e sicurezza al nostro essere perché allontana lo spettro dell’intempestivo. E devo fare uno sforzo per sottrarmi a questo regime temporale abituale – il vivere ordinario, giorno dopo giorno, nel trantran delle cose da ripetere fino alla noia uggiosa – ricorrendo a sequenze diversificate d’azione la cui programmazione porta lontano nel tempo, toglie spazio al quotidiano e ai suoi automatismi, in un’alternanza di mansioni da portare improrogabilmente a termine adesso e di compiti da fissare per il futuro, i quali, tutto sommato, più che progetti veri e propri da realizzare, costituiscono strategie di distanziazione dall’oggi invariabilmente ripetuto, dall’associazione stretta tra il Sé e l’azione reiterata, dall’impalcatura dell’essere ricalcata nel tempo statico della routine non calcolata. Pianifico il mio fare per spostarmi nel tempo, dal presente al futuro, dall’oggi all’altrove, dalla routine all’ebbrezza. È l’unico modo che ho per controllare la corsa del tempo.
Sopra tutto mi rincuora, in questo frangente traballante, un principio noto che rasenta il luogo comune e al contempo lo stravolge: chi comincia ad avere buon tempo, l’ha per tutta la vita. Io ho cominciato da tanto, visto che il tempo è denaro. Con la speranza che la vita scorra liscia, senza la necessità striata di dover rimanere appesa a un filo e la certezza che sono comunque rimasto uno squattrinato. Il tempo occorre e corre, ricorre e scorre? Scorre, scorre, ebbene sì, scorre! Come il percorso di un corso d’acqua che cresce, man mano che si dirige verso il mare, supera gli ostacoli che cercano di resistergli e continua il suo cammino adattandosi in parte al terreno accidentato e volubile. E intanto parliamo e ammantiamo il senso del nostro dire di figure, espressioni comuni e trasposizioni di contenuti. Parliamo comunemente, parliamo di luoghi, parliamo per luoghi comuni, così comuni che non ce ne rendiamo nemmeno conto al momento: siamo attraversati dal dire, ne siamo enunciati, persino prodotti nei fatti. Abbiamo altre soluzioni? Cos’altro fare? Che altro dire? Per il momento, una cosa è indubbia: non intendo prendere tempo. Non c’è tempo da perdere in chiacchiere, non intendo più indugiare nell’attesa di circostanze a me più favorevoli. Corro? Colgo l’attimo propizio, me ne faccio scudo simbolico contro la suadente invadenza dei luoghi comuni che straripano dall’argine assegnato.
Io non mi arrendo all’impietoso tempo monocorde e affilo imperterrito le armi creative del pensiero e del linguaggio, lasciandomi guidare dal luogo comune in forma di saggezza concentrata, facendo leva sulla plasticità di espressioni e contenuti, enunciazioni ed enunciati, soggettivazioni e oggettivazioni. L’abito non fa il monaco e nemmeno lo studioso. Partiamo da questo punto per affilare quindi le armi, senza porre tempo in mezzo. Rieccoci. Il luogo comune, che meraviglia del linguaggio! Ammettiamolo, senza titubanza: un luogo comune vale più di mille parole. Forse qui mi sbaglio: era l’immagine. Ma il principio è lo stesso: il luogo comune – al pari dell’automatismo – ci facilita la vita, consente di risparmiare a noi umani energie utili per compiti più ardui, ci spinge al di là di noi stessi: noi umani in cerca di compiti da realizzare, di ordini da ristabilire, di alterità da integrare, di parole da acquisire; noi umani in movimento verso uno scopo da conseguire che ci tiene in vita, oltre la consapevolezza della morte. Realizzare, ristabilire, integrare, acquisire: parole d’ordine d’uso comune. Sarà così, ma i luoghi comuni contengono, pure loro, buon pro gli faccia, sacche di incomprensioni e malintesi: dicono automaticamente ciò che dicono senza colpo ferire, conducono pure verso sensi altri e inattesi, sovente all’insaputa del soggetto. E intanto il tempo corre e noi gli stiamo dietro. Ma dove andrà mai, così di fretta, senza parola proferire? Si arriva, poi, da qualche parte o non si fa altro che correre, azione fine a se stessa? Me lo chiedo. Al tempo dell’attività dovrebbe seguire il tempo del riposo. Lo dice il buon senso: alla corsa forsennata si sostituisce il riposo posato. Sarebbe meglio. Ma non si può esserne certi. E, se non posso mai averne certezza piena, preferisco allora ricorrere alla bontà tonificante della narrazione che dispiega e rivela oltre il senso comune della linea ininterrotta, al di qua e al di là della piega dissennata, spalmata come burro su un foglio a righe unto di fresco, spiegazzato e ripiegato in forma di aereo al fine di arrivare prima a destinazione.
Provo a spiegarmi meglio, tentar non nuoce. Mi aiuto con la narrazione – dispiegata, lineare e puntuale a un tempo, discontinua e intermittente a tratti – degli eventi. Metto da parte i pensieri sparsi, mi sottraggo con dispiacere al fascino del disordine. Provo a spiegarlo meglio a me stesso e a distendere, disporre, dislocare, dispiegare la potenzialità delle tautologie e degli stereotipi che mi sono appena lasciato sfuggire esplodere sottrarre scippare saccheggiare strappare sfilare portare via un po’ alla leggera, con molta confusione, nella mischia dei fluidi pensieri inarrestabili, incontenibili, incontrollabili. Il cerchio si apre, il cerchio si chiude: era questo l’inizio, appena accennato del mio saggio in bilico sulla narrazione che camuffa il carico antropologico alle cui convenzioni cerco di sfuggire. L’inizio è circolare. E si apre e si chiude a volontà, si schiude come un fiore sorpreso dal sole tiepido, si socchiude come l’uscio colto dal battito di vento improvviso: e, a, si, come, volontà, sì a volontà. Parole a ruota libera, parole in libertà. Non sono un futurista, ma traggo vantaggio dal principio: mi mantengo al passo con i tempi, come un turista senza fretta, con il passato in vista e il futuro in testa, beato del momento presente, da investire seduta stante, bando agli indugi. Che vorrà mai dire? Che mi passa per la testa? Quali pensieri – ancora e ancora, di nuovo e ancora – si accalcano inconsulti, ribelli, ostinati nel mio cervello che stenta ad accoglierli tutti quanti insieme? Sarebbe forse meglio ricominciare dall’inizio: un nuovo inizio, per un nuovo fine e una nuova vita. I nuovi inizi tengono in vita il divenire. Affinché nessun giorno sia vissuto inutilmente, non resta che iniziare, senza pensarci su due volte. Il tempo vola indebitamente, se non addirittura infinitamente. Mi fisso sul mio compito elementare: raccontare un incidente, affidandomi alla narrazione più libera, senza rinunciare a ciò che mi passa per la testa, sottolineando il valore di sistema disintegrato dei luoghi comuni, assegnando valore all’inizio molteplice, liberatore.
Ricomincio dunque dall’inizio. Tanto, ormai sarà chiaro, non faccio altro che iniziare per immergermi nel piacere dell’indugio che non ha fretta di concludere. Corro o rallento? Non vado da nessuna parte, non ho nessuna voglia di farlo adesso che mi muovo – almeno ho l’intenzione di muovermi – di comune accordo col processo itinerante. A che pro correre, d’altronde? Se non si è sicuri di arrivare, meglio allora cedere al piacere della lentezza, all’irriverente assenza di scopo. Io me la prendo comoda e inizio, di nuovo, con una storia: quella dell’incidente capitatomi. Ecco, una volta presa la decisione, forse è meglio: posso essere più consapevolmente pointless – come dicono gli anglofoni, spesso in senso negativo, per me, qui, tutto in positivo, marcatura evidente della scelta dell’assenza – e rimanere incollato al processo, in sintonia con il divenire degli eventi che racconto. Senza punto? Desidero che le cose acquisiscano senso senza il mio malridotto assenso che individua un solo scopo per tutte le ragioni buono. Desidero sapere cosa succede e raccontarlo mentre prende piega: nell’atto. Se questo è un ossimoro bell’e buono, forse impossibile da realizzare pienamente in quanto tale, allora mi accontento di procedere per digressioni progressive che cumulano l’evento da rendere e i miei pensieri in fuga, alcuni luoghi comuni della lingua e alcune idee possibilmente a colori, sullo sfondo bianco delle neve che scivola giù dai tetti spioventi di Tallinn in pieno inverno, mentre passeggio, al termine di una lezione, senza una meta precisa.
Una storia, persino una piccola storia ordinaria, è come un piccolo dizionario di campo etnografico, ti viene in aiuto persino laddove tutto il resto diventa indecifrabile, insopportabile, un ronzìo fastidioso per le orecchie imbottite – per la pigrizia di chi dovrebbe occuparsene e invece se ne sta con le mani in mano – di cerume giallastro, viscoso, denso, inatteso. Una storia è come un dito attratto dall’orecchio infastidito di un soggetto intento a fare altro. Scatta qualcosa. Forse per riflesso, un dito abbronzato dal sole cocente d’estate s’intrufola meccanicamente nell’orecchio roseo ed è fatta: il fastidio svanisce d’un colpo, le idee si chiariscono da sé, frantumano le perplessità residue. E via. Basta un gesto, un gesto comune. Magari era un semplice granello di sabbia a cui il dito vi ha posto rimedio con un niente! Con il prurito, sparisce pure l’evanescenza dell’attimo che rotola sull’attimo e si rimane paghi per un tempo non computato. Ed è meglio approfittarne perché, com’è noto, il tempo consuma ogni cosa, persino se stesso, lasciando soltanto qualche misera traccia: se tuttavia le tracce del tempo sono un formidabile esercizio di memoria, io desidero allora esserci, adesso, nel vivo presente che graffia, nella misura delle cose. Allora ne traggo vantaggio, gratto e sprofondo nel tempo dilatato: se c’è da grattare, gratto; se c’è da correre, corro. Ma è pure bello, di tanto in tanto, ricadere giù – come quel granello di sabbia che rotola via sul corpo oleoso disteso in spiaggia sotto uno splendido solleone – nella calma del processo a rilento, a costo di perdere il treno della vita che non si ripresenta mai più ed è finita. Io continuo a riempire di infinite storie la mia vita, fino a farla scoppiare; non do il tempo all’accaduto di accadere che già penso di inserirlo nell’incastro d’insieme che costituisce la trama del mio vivere individuale e sociale. Mi tengo al passo delle mie storie di vita. Gratto l’orecchio, me ne rendo conto, lo racconto. Mi tengo al passo, non esito: non sono tutti uguali i giorni. E no, non lo sono affatto! Per esistere al meglio, non bisogna affatto esitare, semmai andare a caccia di effetti le cui cause sono parte integrante di un progetto di vita in divenire.
Ritornato a me stesso, dopo la breve parentesi epifanica in cui dito e orecchio si sono prodotti in scambio di sensazioni e azioni, sono di nuovo nella corsa del tempo che trascina le folle. Ben venga, se non altro per cambiare stile di scrittura e di vita! Cerco di guardare avanti, tenermi su, fare i conti col passato, proiettarmi nel futuro. In qua e in là, due passi avanti e uno indietro, una grattatina a destra e una a manca, passeggio e mi rilasso, penso e gioco, mani in tasca e piedi in basso, calci e pugni, indifferenza e partecipazione. Di nuovo, irrompono parole a ruota libera, nei tempi morti, appena in tempo poiché non sapevo che scrivere e i flussi di pensiero sopperiscono al vuoto di intenzionalità manifesta. Hai voluto la bicicletta – dico a me stesso – ora pedala! Più che pedalare, preferirei tagliare la corda del tempo. Il passato, il presente e il futuro. L’avvenire… è difficile predirlo. Che mi riserva? Alzo lo sguardo, sollevo la testa, esploro i dintorni e allungo la vista. E intanto passeggio mentre il tempo corre altrove. Dopo due ore di antropologia del linguaggio, che gioia rilassarsi! Una lezione! La solita lezione su lingue e culture, potrei dire; lo dico, ma dico pure che questa volta ho parlato rapidamente, tutto il tempo, due ore di seguito, senza sosta, senza altri pensieri o riflessioni, senza nemmeno bere un goccio d’acqua. A secco. Insolitamente. Era il mio compito oggi: parlare a studenti di antropologia. Ogni giorno dovrebbe avere il suo compito. E se così non fosse? Se ogni giorno fosse, invece, il grado zero del compito e dell’incombenza, della mansione da svolgere e dell’incarico da portare a termini?
Passeggio. Con Mattia e Licia, la lingua asciutta, il pensiero rappreso, la parola in resta, appesa all’instante che si sovrappone allo spazio e prende corpo autonomamente. Passeggio in folle, attento a non scivolare, impegnato a non inzuppare i miei piedi nelle pozzanghere profonde, accorto nel passare sotto i tetti spioventi ricolmi di neve in procinto di impazientirsi per la lunga attesa. E intanto, noi tutti, Mattia e Licia, azioni e cognizioni, andiamo a zonzo nell’idea che anche una semplice passeggiata può ampliare gli orizzonti, può essere l’occasione per riflettere sul moto del corpo frammentato in uno spazio altrettanto disagevole che risponde colpo su colpo: dita, braccia, gambe, testa, spalle, stomaco sono in costante riadattamento al terreno che incontrano e, facendolo, non si riconoscono più come insieme coordinato, originario, precedente l’atto stesso. Sulla neve soffice, avanziamo, più che passeggiare, avanziamo, certo: slittiamo, affondiamo, spingiamo avanti e indietro, assestando passi a destra e a manca. E poi di nuovo, procediamo senza rispettare la sintassi, al seguito di Mattia che trotterella vispo, si tuffa improvvisamente sul cumulo di neve, si rialza, senza preavviso mi attacca con un calcio e un pugno al basso ventre. È piccolo. Il mio piccolo. Calci e pugni all’improvviso. E scappa, rotola all’improvviso sulla neve dall’alto della montagnetta di traverso, le braccia incollate al corpo, si rimette in piedi e ondeggia da lontano con la mano a mo’ di saluto. Si stufa, ma poi, dopo un intermezzo di qualche secondo appena, riprende daccapo.
Non son tutti uguali i giorni. E oggi, per me, non è un giorno uguale agli altri. Nevica all’impazzata, fuori e dentro, sopra le righe e sotto le scarpe. Sento la neve che scende e risale per i miei stati d’animo in subbuglio, mi spinge all’alterità, oltre il solito, placido me stesso che va per abitudine con le mani in tasca, allunga il passo e poi rallenta, si stiracchia e si stringe in sé, tamburella con le dita e fischietta un motivetto. Altri tempi, altri spazi. La neve è dappertutto, leggera e pesante, a grumi e a fiocchi. Da qualche giorno, nevica a Tallinn incessantemente e il cielo è rigato, di traverso, annegato per terra, risorto, annerito, alle spalle, sui riflessi e sul respiro acquoso di naso e bocca. Il cielo è incoerente: più che in alto, sopra le teste, avvolge i corpi e le menti; più che lanciare la neve verso il basso, sembra risucchiarla creando vortici smisurati, in apparenza inconcludenti, senza verso o direzione prevedibile. L’unica certezza è che il cielo e la terra si fronteggiano senza tregua, smentendosi a vicenda. E intanto, nel proseguo della sfida, non smette un istante di nevicare. Di battere la fiacca non ne vuol sapere; di darmi pace, conforto e sollievo, non se ne parla. Le mie speranze lasciano il tempo che trovano e il tempo, volgendo alla neve, lascia le tracce del suo passaggio sullo stato d’animo. Oggi. Mi affaccio alla finestra e nevica. Scrivo, faccio una pausa e nevica. Scambio qualche parola con Licia e nevica. Mattia mi chiama e nevica. Una cosa dopo l’altra si succede nel tempo, mentre la neve è sempre lì, per terra, in aria, sui tetti, sulle auto, persino sulle spalle delle persone in marcia, sedute, ripiegate, intente a vivere come sempre. Non io, io sono stupito. Per me, gli attimi sono scanditi dalla neve in azione sul mondo e sulle emozioni. Io sono preso dai suoi effetti, sento persino la voce della neve che, comprensiva, mi sussurra distintamente all’orecchio per rincuorarmi: l’inverno finirà presto, non è il caso di preoccuparsi. Poi, la voce della neve si disgrega in acqua, vento e insegne che si agitano. Io, impassibile, muovo gli occhi intorno come a voler ritrovare una sintonia con gli oggetti che mi circondano; guardo in alto e mi viene incontro un cielo grigio che sembra essere il confine del mondo; rivolgo lo sguardo in basso e perdo il senso della verticalità, l’equilibrio si trasforma in gioco di contrappeso tra forze a me sconosciute. Nevica, nevica nella luce cupa e io sono stupito, incasso cazzotti metaforici davanti uno specchio di neve che mi rimanda un’immagine in frammenti la cui ricomposizione è mutevole, secondo dopo secondo.
E intanto il mio animo, cedevole come la neve, a ogni colpo di vento s’impenna a spruzzi e si lascia cadere subito dopo a fiocchi. Lo stato d’animo? Questo è il punto. Non saprei dire cosa succede, cosa mi prende quando nevica: avverto un pugno allo stomaco, mi sento soffocare un momento e all’istante mi passa, come una forte raffica di vento che passa e porta tutto ciò che incontra con sé nel giro di pochi secondi. È un’altalena di emozioni che vanno verso il cielo e ritornano subito dopo verso la terra in un continuo alternarsi. È impossibile, con queste successioni di stati d’animo, battere in ritirata: il movimento s’instaura da sé, automaticamente. Con la neve, qualcosa si proietta in avanti e si ritrae subito dopo, va su e poi va giù dentro di me. Come un’altalena, qualcosa va su e giù: una fitta allo stomaco che produce una breve contrazione del mio essere e immediatamente dopo uno squarcio verso il mondo esterno. Il movimento è duplice, in due tempi, mentre io sono un’onda incerta. A volte, sono risucchiato verso il fondo della terra: nevica, nevica e provo un senso di insoddisfazione che mi tira verso il basso. Altre volte, avverto la leggerezza che monta inaspettata, lieve: così io mi elevo, nella neve, verso le nuvole alla stregua di una mongolfiera ricolma di spettatori che guardano ammirati il panorama sottostante. E intanto nevica, nevica, non ne avevo mai vista, così tanta, di neve. Da buon siciliano, che non ha mai vissuto veramente la neve, sono sconcertato: ‘vivere’ e ‘neve’, nel mio mondo italiano delle piccole sensazioni intime – un mondo caldo di lava rossastra – litigano, fanno a pugni, si guardano in cagnesco. La prima neve, poi, mi sembra l’apparire incontrovertibile di un evento eccezionale. E quest’anno, a Tallinn, in Estonia, lassù nel nord Europa, lo è stato davvero: un evento, tanta ne è venuta giù. Fino a ieri – chi lo avrebbe mai detto in Estonia! – un inverno senza un briciolo di neve. E poi, improvvisa, la danza.
Sul davanzale, i fiocchi e i mucchi disegnano figure strane e le insegne di fronte casa si rimpinzano e traboccano a morire, gridano indispettite il loro malcontento. Morire di freddo, di fatica. Sembra che debbano stramazzare al suolo da un momento all’altro. Le insegne sembrano prendere la parola e urlare: non ce la faccio più, sono allo stremo. Siamo esauste, sembrano dire: siamo, tutte noi, così sovraccariche che il mondo sembra andare alla rovescia, puntare verso il suolo, inchiodarci al pavimento. Siamo spossate, dicono: non ci va più di sfidare la gravità, in queste condizioni. Prima o poi ci lasceremo andare, seguiremo il corso della neve. Perché resistere? Io rimango sospeso in attesa dell’evento, ma non succede niente. Tengono duro, non cedono al peso accumulatosi, nonostante siano sottoposte ai movimenti più impensati. A volte, infatti, la neve, volteggiando volteggiando, dall’alto e dal basso indistintamente, si aggrappa distrattamente e appiattisce le scritte, luminose e ridondanti, al muro, su un davanzale, un paletto, una sporgenza. Io mi affaccio e cerco di dare un ordine al mondo. Ma non riesco più a leggere le scritte sulle insegne, mi mancano alcune lettere e la mia attenzione deviata, fuorviata da altro, viene deviata, naviga altrove, verso un luogo imprecisato. Io sono assorbito dai lenti volteggi regolari, a volte innervositi dal vento, più spesso stupiti dall’impatto con le cose, con il mondo circostante, impertinente, ostinatamente contrario. Dopo un po’, ritorno a me stesso, ancora instupidito dalle circonvoluzioni della neve, con altre immagini, altre fantasie, altro da me, tutt’altra roba, tutta un’altra cosa. Un fatto è certo: non mi importa di riprendere controllo dopo le circonvoluzioni al seguito della neve. Tanto più che, finalmente, con gran sollievo, ha smesso di venire giù, la neve, dal cielo.
Decidiamo di fare una passeggiata. La storia inizia proprio qui: con una passeggiata. Almeno dovrebbe, nelle mie intenzioni: che non sono quelle della narrazione che prende il sopravvento, che non sono quelle delle sequenze d’azione effettiva la cui logica continua a sfuggirmi. Subito dopo la lezione, decidiamo di fare una passeggiata, di prendercela comoda, di lasciarci andare alle sensazioni del momento. Io, Mattia e Licia. Durante il tragitto, le immagini si rincorrono, si accalcano rallentate dal peso della neve per terra, si proiettano sul marciapiede, la strada, i muri, cumuli e pozzanghere, stivali e calzini, asciutti e bagnati, Mattia accelera, frena, un pugno, un calcio, una parata, un contrattacco, un passante – attento si scivola! – aspetta che passi io, io lo lascio passare, spetta a lui, ora tocca a me, ti bagni, ti sporchi su quel mucchio, l’altro è meglio, la neve pulita, l’altra è già sudicia, un po’ più a destra, a sinistra, sto per cadere, slitto, derapo, mi aggrappo, ce la faccio, occupati di Mattia, non da questa parte, dall’altra, va bene così, smettila di rotolare, puoi cadere, lì è già liquida, che bello mi sembra di avere i pattini, a momenti casco, c’è mancato poco.
Non è facile, camminare sulla neve che incomincia a sciogliersi: si affonda, si sbanda, si slitta, si devia. Andare sulla neve è tutto fuorché un percorso lineare. Come la mia vita. Che piacere però! Il sole brilla alto. Noi avanziamo con difficoltà. Dopo un infinito marciapiede, raggiun- giamo docilmente il semaforo, riuscendo a non affogare le scarpe nel mare di dolce, morbida, incorruttibile neve. Mi piace pensarla così. In parte, è già sporca. Dopo la gran nevicata, il biancore è cominciato già a cedere alla contaminazione. È proprio qui che volevo arrivare. Tutto inizia qui, proprio qui, il resto è inessenziale, incornicia uno stato d’animo, sensazioni sparse, indefinibili. L’azione si situa tra un marciapiede e l’altro, tra lo spazio del calzino asciutto e quello attaccato dalla neve invadente, tra il rosso severo e il verde liberatorio del semaforo. Siamo fermi e attendiamo che scatti il verde. Niente, questa volta il verde non ne vuole proprio sapere. Noi qui, lui lì. Niente da fare, è irremovibile. Un’eternità ci separa dall’altra sponda. Il verde? Niente di niente, è proprio imperterrito, ostinato nella sua inazione. Il rotondo del rosso invece mi guarda cattivo. Continua a farlo. Nell’attesa, oso. Non sapendo che fare, metto un piede con cura sulla neve: sprofonda, prende spazio, va via, un po’ a destra, un po’ a sinistra e il piede va giù. Non lo controllo più. Va da sé, agisce in piena autonomia. Il risultato è imprevisto, l’acqua penetra dappertutto nella scarpa sinistra, invade ogni più piccolo spazio, i più piccoli anfratti cedono senza resistere, il piede s’inzuppa malgrado lui, galleggia, grida aiuto, disperato.
Riesco a salvare dall’acqua e dalla neve il piede destro. Ma non è finita qui. Magari! Il sinistro chiede sollievo. Ci penso io. Che ci vuole? Faccio un salto per superare la barriera di neve ingannatrice, già acqua sotto il manto soffice di neve liquida, solerte e imbrogliona. E mi ritrovo sul bordo della strada, oltre la striscia alta di neve, ancora con tutto me stesso di fronte il semaforo: carne e ossa, immagini ed eventi, tempi morti e attività convulsa, sospensione irreale nel mondo e gesto bloccato in una posa. Strano. Il tutto si risolve in una sola posa. Licia e Mattia, debitamente muniti di stivali sono rimasti indietro, immobili, mi fissano attoniti. Non so. Penseranno: che gli prende? Io penso: che faccio? Guardo a destra e poi a sinistra. L’autobus arriva da sinistra, a gran velocità, ma è ancora lontano. Sembra procedere come in un cartone animato, veloce, ma finto, a una distanza remota, ma già a due passi da me. Veniva da lontano e ora è già contro di me. Non so che pesci prendere. Sono sulla strada: una striscia alta di neve mi separa da Licia e Mattia, uno scampolo di asfalto mi disgiunge dal semaforo, mi sottrae all’impatto imminente. Un balzo verso l’altro lato del marciapiede rappresenta la salvezza dalla neve e dall’autobus che arriva. Afferro l’idea al volo. Colgo l’attimo. Non esito. L’autobus si avvicina rapido, ma è ancora lontano. Non più così lontano, il mio sguardo fisso sembra tenerlo a bada mentre faccio il gran balzo.
Vorrei immobilizzarlo con un’occhiata. Basta uno sguardo, mi dico. Niente pericolo, penso all’istante, mentre sono ancora in aria. So di non farcela in un sol colpo, ma niente pericolo. Ci vuole solo un colpo di reni. Tanto l’autobus è ancora lontano. Tanto vale provare. Che ci vorrà mai? Ce la metto tutta. Atterro al centro esatto della strada e mi accingo a ripetere l’azione per portarmi svelto sul marciapiede opposto. Sotto gli occhi attenti di un passante dall’altra parte del marciapiede, sento un clacson improvviso e squillante che mi aggredisce alla mia sinistra, trapassandomi, come uno stiletto affilato, il fianco molle. L’imprevisto era in agguato, altrimenti che imprevisto sarebbe se non tendesse agguati. La mole dell’autobus nascondeva l’automobile che si apprestava a superare con uno scatto felino il rivale. La velocità si appiattisce sull’istante passivo. L’autobus avanza rapidamente, molle sugli ammortizzatori, con piccoli sussulti laterali, ondeggiando svelto sotto il peso della vecchiaia. È solo un istante, una piccola frazione di tempo in cui il rosso del semaforo, la tromba sibilante dell’automobile e lo sguardo del passante dall’altra parte del marciapiede si sovrappongono, si incastrano l’uno sull’altro, senza perdere la loro aggressività e i colori mordenti, vivi, ondeggianti. Quasi un film. Poche immagini, bloccate in una sequenza fissa, preordinata. Più che sentire il clacson, vedo alcune immagini sovrapposte, dai contorni un po’ sbiaditi, le linee bianche che le cerchiano irregolari, umidicce. Tutto in un secondo, un montaggio di immagini in un sol colpo, una foto mal riuscita. Gradevole all’occhio, sufficientemente strana per attirare il fotografo professionista, con una piccola nota dissonante che ne mette in dubbio la riuscita: nasconde un eventuale dramma del quotidiano con finale a sorpresa. In aria, in questa minuscola fettina di tempo ritagliata dal caso, non capisco bene se sarò investito dall’auto.
Ce la farò? È solo un contrattempo, un maledetto contrattempo. Che stupido! Se solo non avessi messo il piede sinistro sulla neve, se solo avessi calcolato con maggiore attenzione la compattezza della neve, se solo avessi previsto di indossare degli stivali da neve, se solo avessimo continuato a giocare a darci piccoli pugni sulla pancia io e Mattia, se solo avessi recuperato l’abbraccio di Licia perso per il freddo alle mani, se solo avessi aspettato il verde del semaforo. Stupidi, ridondanti e inutili ‘se’. Solo dettagli, pensieri decomposti dal tempo e riassunti dall’ evento. A Palermo, passo spesso con il rosso. Sono un pedone attento che si impone comunque alle autovetture. Fisso l’autista dritto negli occhi, un secondo appena, distolgo poi lo sguardo, incurante della reazione che provoca e… attraverso lentamente. Non dovrei. È il mio modo di trasgredire, di rintuzzare l’attacco della normalità. Guardo appena e… attraverso. Chi lo avrebbe mai previsto un caso simile a Tallinn: un’automobile che supera un autobus mentre io mi appresto a saltare, a passare da una parte all’altra del marciapiede. Tutt’al più, avrei pensato di morire schiacciato da un’auto a Palermo, ma non certo a Tallinn, per un gesto inconsulto, un’idea bizzarra. A Palermo, sarei morto per il piacere di rifiutare l’ordine quotidiano e inflessibile di tutti i giorni; a Tallinn, morirò – pensavo in aria, durante lo scatto – per una sciocchezza, per i miei muscoli sfuggiti al controllo della testa. Sarà anche stato che dopo anni di vita sedentaria non ho più il controllo del mio corpo e penso di essere ancora uno sportivo che può tutto con un sol gesto, un colpo di reni. Sarà pure stato così.
Sarebbe certo stata una morte stupida: morire in Estonia, lontano da casa, sotto gli occhi di Licia e Mattia. Il freddo avrebbe invaso il mio corpo ancora caldo. Mattia avrebbe pianto sconsolato. Il corpo avrebbe potuto irrigidirsi in una posizione dettata più dal freddo che dalla paura. Licia avrebbe cercato di rendere meno triste la vicenda a Mattia. Lo avrebbe distratto. Grave compito. Difficile. Mio fratello, a Milano, a sette anni, più o meno l’età di Mattia, non ha versato una sola lacrima alla morte di mio padre. Non reagiva. Non reagiva per niente. Lo guardavo, sperando che piangesse almeno un po’, per liberarsi del peso. Quale peso? Cosa spinge verso il basso? Quale materia inqualificabile si concentra nello stomaco?
Non sono morto a Tallinn. L’incidente non ha avuto luogo. Che fortuna! Mi sono ritrovato accanto al passante estone impaurito che ha osservato tutta la scena, ha gridato qualcosa in estone, qualcosa che non ho nemmeno capito, nell’atmosfera ovattata, di silenzio rarefatto che si era creata tutt’intorno a me. Qualcosa? Che avrà detto mai? Non ho capito se il grido fosse rivolto a me o all’automobilista, se fosse un rimprovero o un urlo per richiamare l’attenzione. A cosa si riferiva esattamente? Ho risposto istintivamente e stupidamente, in estone: ettevaatust! attenzione! Ma a chi? Me lo chiedo ancora. Avrei dovuto vomitarmelo addosso, quel grido, quell’emozione, per la stupidità della mia azione inconsulta. Avrei dovuto sputarmelo addosso, tanto sono stato stupido e disattento. Non sono morto, però, ne sono contento. Neanche un graffio. Meno male. Per di più, tutto gira alla perfezione per ora. A mille. Il caso fortuito pare seguire, in semplice tacito accordo, le mie necessità; il caso pare adeguarsi alle evoluzioni della mia vita. Si adagia su di me per consentirmi di dispiegare al meglio le mie intenzioni. Io e il caso siamo in perfetta sintonia. Prendo le mie decisioni e il caso si prende cura del resto. Più che un prendere e un dare, in cui due istanze in apparenza inconciliabili ben si accordano pian piano sulla base delle reciproche necessità, negoziando il da farsi e programmando il futuro, mi vedo in spiaggia mentre avanzo in acqua con le onde che invertono il corso del loro fluire al fine di cedermi gentilmente parte del loro spazio gentile e accogliente. Sarebbe stato proprio stupido morire, proprio ora che neve e mare hanno raggiunto un accordo insperato: si sono legate d’amicizia in mio onore. Il ben riposto accordo della neve e del mare, del viaggio e della scrittura mi rende felice. Viaggio e rifletto, scrivo e insegno, in italiano, in francese, in inglese. Le lingue mi tolgono la gabbia di dosso, mi impediscono di sentirmi schiacciato dal mio piccolo essere insignificante, dalla mia stupida persona, incrostata sulla terra, spinta verso il basso dalla gravità celeste. Non sono schiacciato, non mi dà fastidio il peso del vivere.
Tutto bene quel che finisce bene. Ancora uno stereotipo? Resta ancora un quesito. Ancora uno. L’ultimo. Che voleva dire quel mio grido di attenzione! E, ora che ci penso, a freddo, a quel grido è seguito un mio più sommesso: vabandust! mi dispiace! Di cosa, mi dispiaceva? Di morire? Di avere trasgredito la norma? Lo sguardo attento e inquieto del passante dall’altra parte del semaforo rappresentava la legge, l’autorità. In quel piccolo lasso di tempo mi sono sentito giudicato. Quello sguardo mi sorvegliava, pronto a cogliere le mie debolezze, a punirmi. L’ho sentito proprio come uno sguardo che punisce. L’incidente e la punizione: le due istanze sono strettamente collegate. All’incidente provocato dalla distrazione deve necessariamente seguire una punizione. Il caso non può fare a meno della necessità. Uno sguardo può valere tante parole, può rendere il mondo meno duro, la vita più bella o, tutt’al contrario, apporre un marchio indelebile. Il caso, se vuole, può. Ora, a casa, di sera, gioco con Mattia, gli do tanto piccoli pugnetti che lui ricambia con forza inaudita per un bimbo di sette anni. Oppongo una qualche resistenza perché so che lo diverte. Ottengo, in risposta, gragnole di pugni disordinate, forti e affettuose. La sinagoga, di fronte casa, ci guarda innocua: pare seguire soprappensiero i nostri movimenti. Fletto gli addominali, quel poco che mi resta dopo anni di vita sedentaria. Bastano, per il momento bastano. Gli strizzo l’occhio sinistro e lui ricambia soddisfatto. La complicità è tutto. Mi allungo comodamente sul divano, faccio la candela in segno di sfida nei confronti del mondo, della gravità, del tetto celeste, dell’intolleranza. Ricado pesantemente, volutamente sul divano, senza energia apparente, fingendo di essere esausto. Di botto. È una finta. Non è una posizione di resa, ma un vero e proprio gesto di estrazione di una particella del mondo dal mondo. Per il mio piacere. Una particella in tutt’uno con me stesso. E così il corpo prende le distanze dal resto del mondo. Il corpo si estrae dal fodero del mondo che lo avviluppa. Mi ritrovo intatto. Sul divano. Insonnolito.
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
Note
[1] Sono tornato, nel tempo, a lavorare su questo breve saggio – iniziato a scrivere sotto forma di appunto di campo circa dieci anni fa, a Tallinn, in seguito a un fatto effettivamente accadutomi – allo scopo di raffinare la riflessione e meglio cogliere i nessi posti tra pianificazione degli eventi e loro sgretolamento dovuto agli incidenti ordinari o straordinari. Ritengo che questo saggio abbia adesso una forma compiuta e intendo pubblicarlo, come inizialmente previsto in forma di narrazione, senza appesantirlo con note e introduzioni che pretendano – come vorrebbe la convenzione in campo antropologico – conferire autorità scientifiche alle mie osservazioni. Questo saggio, proprio perché sui generis, oltre misura, potrebbe a una prima lettura parere esclusivamente incentrato su questioni d’ordine narrativo, su osservazioni relative agli stereotipi temporali o, più in generale, sulla forma del contrattempo assunta in un testo scritto. In realtà, il nucleo concettuale – per quanto debitamente articolato in forma narrativa – è ugualmente imperniato sulla riflessione antropologica circa i modi di ‘prendere piega’ di un frammento di esistenza. Si tratta, in sintesi, di un incidente di cui stavo per essere vittima a Tallinn e a cui sono scampato mentre sbadatamente attraversavo la strada senza tenere conto dell’arrivo di un autobus che stava per falciarmi. Questo incidente, nonostante sia stato casuale, è stato l’occasione, nel corso degli anni, per rivolgere l’attenzione alle forme di discontinuità – la coincidenza, il contrattempo, il fortuito, etc. – che si producono, volenti o nolenti, nel quotidiano. Un incidente è in sostanza il risultato di una serie di eventi che interrompono un flusso di continuità prevista o pianificata, sovente fondata su automatismi acquisiti quotidianamente. Da ciò deriva la sua importanza. Il nodo di rilievo in antropologia, riflesso nelle mie ricerche degli ultimi anni, riguarda la dimensione temporale, la pianificazione/casualità degli eventi, la traduzione degli eventi in testo, l’esistenza come progetto o realizzazione in divenire. Da qui, una precisazione. Più che radicare l’antropologia in un insieme di cause astratte e impalpabili da ricercare nella distanza di uno sguardo oggettivato, si è trattato, nel mio caso, di ricondurla ai progetti di vita individuali e collettivi e alle tipologie di interazione, materiali e immateriali, che favoriscono questi progetti o li ostacolano nel loro stesso divenire, nelle diverse forme di testualizzazione che li veicolano. Inoltre, in quanto presupposto di base dell’intero saggio, ho insistito sistematicamente sulle possibilità di meglio cogliere la realtà insite nel particolare uso della funzione poetica e narrativa. Alcuni testi che, per le ragioni già addotte, non discuto, ma segnalo al lettore come fonte di ispirazione per quanto riguarda l’incidente e il caso sono i seguenti: Berger P. L., Adventures of an Accidental Sociologist: How to Explain the World without Becoming a Bore, Prometheus Books, Amherst, NY, 2011; Jackson M., The Accidental Anthropologist. A Memoir, Longacre Press, Dunedin, New Zealand, 2006; Malabou C., Ontology of the Accident: An Essay on Destructive Plasticity, Polity Press, Cambridge, UK, Polity Press, 2012; Nunan D., Choi J., Language and Culture: Reflective Narratives and the Emergence of Identity, Routledge, New York, Londra, 2010; Puskar J., Accident Society. Fiction, Collectivity, and the Production of Chance, Stanford University Press, Stanford, 2012; Shapiro I., Bedi S., Political Contingency. Studying the Unexpected, the Accidental, and the Unforeseen, New York University Press, New York, Londra, 2007; Beitat K., Trust and Incidents. The Dynamic of Interpersonal Trust between Patients and Practitioners, Springer, Berlino, 2015; Kelley C. E., Accidental Immigrants and the Search for Home, Temple University Press, Philadelphia, 2013.
_______________________________________________________________________________
Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
________________________________________________________________