di Stefano Montes
Se dovessi proporre, in pochissime pagine, ai miei studenti un – mio – modo di fare antropologia, individuando al contempo un buco nero della ricerca, cosa direi loro senza fare troppo il difficile? Se dovessi proporre loro una sorta di piccolo manifesto di antropologia in breve, che farei? Tanti antropologi si occupano di globalizzazione, mercati finanziari, malattie e dolore. Ed è giusto che sia così. Nel mondo, molti soffrono; bisogna dunque testimoniare e cercare modi per intaccare l’indifferenza. Io potrei, in alternativa, nel mio piccolo, per affrontare la giornata di oggi con leggerezza, affrontare una questione che mi sta a cuore. Parlerei ai miei studenti del divenire e delle eventuali possibilità di trasporlo in istantanea. Lo farei passeggiando, lasciando correre i pensieri liberamente. Partirei, in questo viaggio ipotetico, dall’immaginazione dell’Altro e di Sé. Come pensare l’Altro? Come pensare se stessi? Due domande, tanti percorsi possibili, tante passeggiate realizzabili nella selva di teorie e testi di antropologia. Per avere la risposta – io, da parte mia, qualche tempo fa mi ero detto – basta risolversi a immergere se stessi e gli altri, senza mezzi termini, più semplicemente, nel bagno amniotico delle culture, nel loro reciproco e immancabile contatto. Il percorso è quello che va dalla nozione di identità-alterità a quella di cultura dando a quest’ultima priorità reticolare all’interno stesso del proprio vissuto esperienziale ed esistenziale.
Pensare l’identità e l’alterità richiede infatti, a mio parere, un benefico riorientamento e centramento sulla nozione di cultura che, in ritorno, impedisce la (sempre in agguato) frizione teorica emanante dalle eventuali separate definizioni di identità e alterità. La nozione di cultura è fortunatamente un salvagente, si distende su tutte le altre, precedendole. È allora necessario distogliere l’attenzione dall’ossessione filosofica per il ‘reale già dato’ e l’‘essenziale in sé’, al fine di risalire al bandolo teorico della matassa: dunque la cultura, anzi, meglio, le culture al plurale, nel loro fluido e intersecabile, a volte pure sovrapposto, divenire. Il divenire? Io sono ripartito, negli ultimi tempi sempre più dinamicamente, da quello che considero il grado zero dell’interrogativo esistenziale, l’incipit quasi iniziatico, di persona comune e antropologo che si pone il quesito del senso della vita in mezzo agli altri e ai suoi plurimi ruoli sociali: pensare la propria e altrui cultura all’interno della quale, volente o nolente, l’individuo si situa con la fluidità dei suoi sparsi pensieri e i suoi flussi disordinati di coscienza. Ho cercato allora la risposta nella forsennata lettura di etnografie (nella forza performativa del loro effetto straniante), ma la singola risposta non mi hai mai reso del tutto pago. Perché? Forse proprio perché la risposta era singola, situata in un contesto, avulsa dalla tensione verso le totalità e dalla commistione con la fluidità del Sé: per l’appunto, la risposta era ‘etnografica’, volta soprattutto all’oggettivazione dell’Altro, restia a soffermarsi sull’interazione tra il flusso di pensiero nostro e altrui. E, in ogni caso, era come se mi mancasse, sempre e comunque, un piccolo, minuscolo tassello per riuscire ad arrivare, almeno in principio, al quadro completo, all’immagine dell’insieme che mi sono fatto della cultura (e della sua approssimazione per nozioni). Completezza? Totalità? Insieme? Mancava sempre un tassello al tutto. L’amarezza cognitiva lasciava – e lascia – tuttavia il posto a una considerazione: completezza, totalità e insieme sono, tutto sommato, anch’essi concetti (Peirce parlerebbe, a questo riguardo, di semiosi illimitata e Hjelmslev di metasemiotiche connotative) da definire nel loro rimando ad altri concetti e sistemi di riferimento.
Più che la completezza o la totalità (o il suo desiderio), però, mi è tornato utile, nel mio slancio personale, il fascino del ‘rimando’: non solo dunque l’oggetto preso di mira in sé (nei suoi aggregati potenzialmente scomponibili), ma, anche, la resa ottenuta grazie all’applicazione di un punto di vista e il trasferimento (per similitudini e differenze) ad altri oggetti e soggetti. Come dire: l’uno è in qualche modo sempre molteplice, per metodo e per diffrazione delle identità in movimento. Un dubbio. Avrà mai fine questo ‘rimando’ senza fine che si impone – mi si pone intimamente – nella ricerca della compiutezza dell’essere, nel bagno della cultura? Non dispero, per un motivo molto semplice: sovente una quête individuale, più che la realizzazione vera e propria della compiutezza o di una qualsiasi altra finalità preposta, ha la funzione vitale di costituire una tensione irrisolta verso l’alterità e, di conseguenza, consentire di mantenere l’individuo nel divenire stesso. Devo quindi ammettere, forse con un certo gusto, che, se anche la mia quête non dovesse mai realizzarsi e rimanere un agire processuale, in costante divenire, non mi dispiacerebbe punto questa mia tensione verso il tutto che caratterizza, in fondo, tout court l’antropologia. Rimando concettuale e proiezione nella quête, tensione aspettuale e divenire asintotico si coniugano nel mio slancio individuale, di singolo antropologo immerso nella cultura.
Ma non è forse così anche nella vita? E non è forse così, più in generale, nelle pur diverse prospettive antropologiche? Dagli evoluzionisti, agli strutturalisti e interpretativisti e, perfino, ai postmodernisti (con le loro mire estreme a carattere soggettivante e puntinista), la tensione essenziale – come direbbe Kuhn (2006) – rimane, ovviamente nelle diverse e specifiche declinazioni, lo sguardo verso l’insieme, il ‘tendere verso’ un tutto di volta in volta ripensato. Si potrebbe dire, a ben vedere, che l’“insieme” di cui parla Tylor (1871) nella sua famosa definizione di cultura verrà nel tempo, man mano, dalle diverse scuole antropologiche, riformulato tramite le nozioni di “funzione”, “struttura”, “ragnatela di significati”, “collage”, etc. Ciò non deve stupire: le riformulazioni e traduzioni sono modalità discorsive sulla base delle quali, per livelli teorici diversi, la cultura dialoga con se stessa e con le altre culture.
Qui, il fatto interessante è però che, per quanto variamente riformulata nelle varie scuole, la nozione di “insieme” non perde un tratto strutturale, d’ordine semanticamente aspettuale: il contatto tra il simile (e il dissimile) orientato alla pertinentizzazione di un qualche “tutto” comprensivo, non terminativo del processo. Le culture in movimento (e in traduzione, proprio grazie al viaggio e alla diaspora), di cui parla Clifford (1999), se non sono più entità isolate e raccolte in sé, sono certo, nel loro dinamismo, entità che producono maggiori interrelazioni. In questo, sembrerebbe esserci un accordo di massima tra un postmodernista come Clifford e uno strutturalista come Lévi-Strauss. Non era forse Lévi-Strauss che diffidava i colleghi dal considerare la struttura alla stregua di un ‘corpo concreto o organico’ (il riferimento critico andava soprattutto a Radcliffe-Brown), ma la definiva in termini di relazione tra i vari elementi costituenti? E la focalizzazione sul movimento, di cui tesso qui l’elogio, non accomuna, da una parte all’altra dell’Atlantico, studiosi comunque per altri aspetti diversi quali Balandier e Rosaldo? Nel saggio “Mettere la cultura in movimento”, prendendo le distanze dalle ottiche che equiparano rigidamente la cultura all’ordine, Rosaldo afferma che, per ricostruire l’analisi sociale, è necessario studiare anche quei fatti che parimenti la costituiscono, benché in maniera più disordinata, quali «le passioni, il divertimento spontaneo e le attività frutto di improvvisazione» (Rosaldo, 2001, 160). Similmente, Balandier sostiene, elogiando così il valore originario del movimento, che «le società e le culture nascono dal disordine e si sviluppano come ordine, sono vitali in virtù dell’uno e dell’altro, contengono l’uno e l’altro» (Balandier, 1991, 305).
Non so – e non intendo – quindi definire la cultura una volta per tutte in una sua versione statica o, comunque sia, in maniera unicamente ordinata, neutralmente oggettivata. Una oggettivazione è pur sempre stata un processo che procede dall’applicazione di un punto di vista, il quale si trasforma, volente o nolente, in un fermo immagine. Si tratta, semmai, di decostruire la rigida dicotomia soggetto/oggetto e mettere in conto, nella definizione di cultura, il rapporto inevitabile instaurato tra umani e non-umani (Latour 1995); nel fare questo sarebbe sommamente utile, al contempo, cercare di cogliere i ‘luoghi teorici e pratici’ della costante trasformazione del ‘darsi’ in ‘dato’, delle modalità attraverso cui la realtà viene selezionata attraverso descrizioni puntuali e punti di vista singoli. Tutto ciò che spacciamo per ‘dato’ è infatti, prima di tutto, un ‘darsi’; ciò che diamo per ‘risultato’ viene immancabilmente preceduto dal ‘processo’. Come ricorda Bateson: «i ‘dati’ non sono eventi o oggetti, ma sempre registrazioni o descrizioni o memorie di eventi o di oggetti […] poiché la totalità dell’universo, passato e presente, non può essere osservata da alcun singolo punto d’osservazione assegnato» (Bateson, 1977, 22-23, corsivo mio).
Indipendentemente dalle mie specifiche inclinazioni etnografiche (mi aggradano particolarmente le etnografie che tendono a stravolgere le convenzioni date e mettono soprattutto l’accento sul darsi), diciamo che questo sapere non-risultativo – processuale e non totalizzante, comunque in ossimorica tensione verso l’insieme – lo considero, nell’evoluzione della storia complessiva del pensiero antropologico, un insegnamento fondamentale, irrinunciabile. Non sono quindi, quelle mie, posizioni staticamente radicate in un sapere monologico e monolitico, ma, come direbbe Derrida (1999), forme dialogiche del – disseminate nel – rimando all’alterità che abbisognano di un’incertezza esistenziale minimale per mantenersi nel movimento fertile della quête non risolta. Come potrebbero sottolineare i Surrealisti, a me cari, tutto ciò che è dato una volta per tutte è pure privo di vita e, dunque, non ha più valore: la quête deve rimanere sempre attiva – una forma di vita – perché individui e culture sono dinamismi vivi, in movimento. Sono profondamente, assolutamente incerto dunque per opzione epistemologica, ma so per certo una cosa: alterità e identità vanno pensate insieme e nel rimando alle culture. Il pensiero sull’Altro produce una rifrazione sul Sé; simmetricamente, la riflessione volta a scandagliare il Sé non può fare a meno della figura dell’Altro: l’identità dell’‘uno’ si definisce infatti, oltre che sostanzialmente, in termini differenziali rispetto ai suoi molteplici ‘altri’. L’identità e l’alterità, a loro volta, si ritagliano spazi culturali in movimento, in tensione reciproca l’uno verso l’altro, il cui dinamismo dischiude le porte al situarsi sinestesico dei sensi, ai flussi – purtroppo poco esplorati – di coscienza. In fisico e concreto ossequio al (mio elogio del) movimento, cosa faccio per ovviare allo studio in solitudine? Se traduco la questione in chiave personale, non avrei esitazione a dire: io passeggio.
Tutto qui? Non proprio, non ancora. (Come ricorda Rosaldo, anche ciò che appare spontaneo e frutto di divertimento improvvisato o rilassamento meritato rientra nelle mire di un’analisi culturale da ricostruire). Dopo una giornata intera di studio a casa o in biblioteca, prendo il largo, mi dirigo, a piedi, verso il centro città, mi catapulto per le strade di Palermo. Vado al centro con un’idea per la testa che non ho mai realizzato, accipicchia, nemmeno quando, in passato, meditavo accanitamente: fissare i pensieri, isolarli l’uno dall’altro, tenerli, se non proprio fermi, almeno a bada, scioglierli dalla loro indiavolata, autonoma successione che ci accompagna continuamente, nell’esotico e nel quotidiano. Un haiku di Tomas Tranströmer rappresenterebbe bene questo, mai raggiunto, da me agognato, stato: «I pensieri stanno fermi/come tessere di un mosaico/nel giardino del palazzo» (Tranströmer, 2011, 35).
Che calma, che pace, in questo giardino, reale o immaginario, i cui pensieri sono tessere separate, ma formano, comunque, un insieme unico, un mosaico! Nonostante la mia tensione intellettuale verso l’insieme e il movimento, devo ammettere che la rarefazione e la tranquillità, veicolate dai versi haiku di Tranströmer, mi affascinano. Il motivo? Il motivo è personale, ma costituisce inoltre una sorta di buco nero dell’antropologia: l’impossibilità di controllare totalmente i propri pensieri e la scarsa attenzione prestata dagli antropologi all’inarrestabile flusso di coscienza che attraversa la mente di ogni individuo. I miei pensieri – lo confesso apertamente – non stanno mai fermi, prendono anzi il controllo, pensano addirittura ciò che io non vorrei, si configurano talvolta come alterità interiore, a me purtroppo in parte ignota. Io sono tanti altri, i miei pensieri sono flussi molteplici. I miei pensieri sono in disordinato movimento. Ecco tutto. Ne prendo atto. Personalmente. E per quanto riguarda l’antropologia? Sarebbe fruttuoso studiare, in chiave antropologica, questo movimento disordinato che abbiamo – pensiamo di avere – nella testa: se non altro per scardinare questa idea comune secondo cui un individuo è un’entità autonoma, all’interno di una cultura, che vive la propria vita sulla base di pianificazioni coerenti, pensate unilinearmente, senza improvvisazioni; se non altro perché sarebbe finalmente chiaro, una volta per tutte, che i modelli della mente (al singolare) non possono prescindere dai modelli delle menti (al plurale) e dei flussi di coscienza (e incoscienza) in divenire.
A questo riguardo, in questo senso una prospettiva fenomenologica potrebbe bene coniugarsi con una prospettiva più post-strutturalista: l’atto di proiezione in uno spazio e tempo del soggetto non è, a mio modo di vedere, in contraddizione con il relazionarsi di atti e spazio-tempi diversi che si richiamano l’un l’altro e rivelano connessioni. Le situazioni-frontiera, di cui parla Jackson in chiave fenomenologica, potrebbero per esempio essere considerate un caso specifico di una più generale prospettiva semio-antropologica che focalizza l’attenzione sull’inevitabile ritaglio del divenire in situazioni dove si pongono e si frantumano frontiere, si situano o si superano fluidamente barriere. Il divenire stesso delle culture si fonda sul riposizionamento incessante di frontiere. Le culture si definiscono attraverso questo duplice movimento: immaginano frontiere simboliche e materiali per prendere le distanze dall’alterità e costituirla come se fosse tale; immaginano il superamento o abbattimento di frontiere per aderire alla pluralità o integrare l’Altro al Proprio. Ciò vale pure per le esperienze individuali.
Contro una definizione ristretta di religiosità, nonché di rituale e di esistenza, Jackson scrive per esempio, a questo riguardo, di aver deciso di rivolgere l’attenzione «a quelle situazioni critiche nella vita, in cui, pur venendo alle prese con i limiti del linguaggio, della nostra forza e del nostro sapere, noi siamo talvolta proiettati verso nuovi modi del comprendere il nostro essere-nel-mondo, così come verso nuovi modi di essere in collegamento con gli altri» (Jackson, 2009, XI-XII). Le ‘situazioni critiche’, così come i ‘limiti’ o le ‘proiezioni’, di cui parla Jackson non sono forse tutte forme di frontiere liminari, da accettare o rifiutare, produrre o smantellare? Per ritornare a Tranströmer, quindi, la stessa rappresentazione di tranquilla immobilità resa dai suoi versi può essere intesa come un fermo-immagine di un flusso più ampio, in divenire e in relazione con altri fermo-immagine e altre situazioni-limite. Questa rappresentazione di immobilità può acquisire inoltre, ai miei occhi, il senso di impotenza che proviamo nei confronti dei nostri stessi pensieri incontrollati, autonomi e capricciosi, può divenire insomma una sorta di frontiera, esistenziale ed epistemologica, da prendere nella giusta considerazione in antropologia.
Non intendo, con ciò, dire che l’esperienza epifanica dell’immobilità del flusso di pensiero sia al di fuori del vissuto personale di un normale individuo: non intendo dire che sia una frontiera insuperabile. Per alcune religioni o persino per forme di vita individuali – si pensi, per esempio, al Buddismo – si prospetta come traguardo raggiungibile, frontiera da oltrepassare, per comprendere uno stato di impermanenza, per sconfiggere l’illusione di un ego permanente attraversato da successioni di stati di coscienza. Più specificamente e semplicemente, quindi, voglio dire che all’interno stesso dell’individuo si situano livelli di ego che coesistono posizionandosi in forma di pensieri sparsi, più o meno controllati, più o meno diretti. Vale per tutti, vale anche per me.
Una volta, me lo ricordo ancora, mi sono ritrovato, proiettato a mia insaputa e senza vera intenzione, in uno stato d’animo simile a quello descritto da Tranströmer in cui la rivelazione del niente e la rivelazione del momento hanno preso estaticamente il sopravvento sul mio flusso di coscienza incontrollato: mentre sbirciavo all’interno di una chiesa del centro, con il mio corpo ancora sulla soglia, il viso già dentro, il mio sguardo è stato tutt’a un tratto risucchiato verso l’alto, catturato come in un vortice, dalle colonne alte e robuste, e io mi sono sentito sollevato da una forza quieta, i miei pensieri si sono trasformati in immagini sciolte in lento divenire, la cui composizione potevo preparare a piacimento; mentre salivo con l’immaginazione verso il tetto, sorprendentemente l’essenza del mio ego si è rannicchiata tutta in un puntino minuscolo. Non sono praticante, non posso dire che questa sia stata una chiamata dall’alto da parte di un qualche ente supremo. Se non altro perché io galleggiavo insieme ai miei pensieri divenuti istantanee fotografiche dalla forma rotonda, grandi bolle di sapone che potevo liberamente decidere di fare scoppiare, eliminandole dalla mia testa troppo piena. A volere prestare fede, fino in fondo, a Van Gennep (1981), le soglie spaziali e temporali hanno un valore potenzialmente rituale che tende a proiettare nell’inconsueto e straordinario: «‘varcare la soglia’ significa aggregarsi a un mondo nuovo» (Van Gennep, 1981, 18). La torsione inusuale del corpo avrà sicuramente contribuito a questo effetto di straniamento: da una parte, si situava il mio corpo in bilico sulla soglia; dall’altra, il mio viso incedeva verso la pienezza dello spazio ascendente della chiesa, verso il soffitto imponente.
Non è una spiegazione, questa. Me ne rendo conto. Soltanto un richiamo alla situazione in cui mi trovavo e un accento posto sul montaggio composito degli elementi. Tirate le somme, come scrive Crapanzano, è talvolta più opportuna «la perplessità generata dal montaggio alla compiacenza offerta dalla spiegazione facile» (Crapanzano, 2007, 17). Chissà, poi, perché, quando non sappiamo spiegarci qualcosa, ci vengono in soccorso le immagini! Se hanno, effettivamente, il potere di cristallizzare attimi fuggenti, renitenti alla messa in forma linguistica, sono pur sempre una selezione di un flusso complesso e instabile che mi piacerebbe sapere rendere nella sua interezza e non nella sua volatile frammentarietà. Diciamo che la compensazione prodotta dall’effetto di reale, insito nell’immagine (fotografica e non), ci solleva dalla sofferenza di dover tradurre i flussi di pensiero in parole, il visibile in testo scritto. Ce lo ricorda Barthes, a proposito di effetto di reale: «la carenza del significato a vantaggio del solo referente diventa il significante stesso del realismo» (Barthes, 1988, 158).
Ritorna, comunque sia, quale che sia la forma di codificazione del messaggio, la questione che mi ero posto all’inizio – sulla quale insisto per brevi istantanee d’autore e fermo-immagine di flusso di pensiero – e di cui parla efficacemente Bateson nella sua celebre etnografia: «Se fosse possibile presentare una cultura nella sua interezza, dando ad ogni aspetto esattamente lo stesso peso che quella cultura gli attribuisce, nessun elemento apparirebbe strano o arbitrario. Tutto sembrerebbe naturale e ragionevole al lettore come agli indigeni che da sempre in quella cultura vivono. I modi per farlo sono due, servirsi delle tecniche scientifiche oppure servirsi delle tecniche artistiche» (Bateson, 1988, 7). Anche Bateson, pur innovando, si pone cautamente, per non inimicarsi i suoi maestri, il problema della presentazione di una cultura nella sua interezza. Nella sua etnografia, Bateson opta per un metodo scientifico, ma ‘ripiega’ sull’analisi di un singolo rituale di travestimento compiuto dagli Iatmul per celebrare il primo atto eroico di un adolescente. Rifiutare di focalizzare l’attenzione su una ‘cultura nella sua interezza’ equivale, per Bateson, al rigetto di un punto di vista funzionalista che coniuga il concetto di ‘cultura’ con quello di ‘insieme’ e di ‘funzione’; la focalizzazione dell’attenzione sul dettaglio di un rituale gli consente, ad ogni modo, di ridurre le difficoltà derivanti da un esame olistico delle diverse componenti della cultura. Con la sua etnografia, Bateson si pone in definitiva, con forza critica mal dissimulata, la questione relativa al rapporto – da individuare – tra l’insieme (o la totalità) e il singolo elemento (o la parte).
Che dire di più? Tanto per incominciare, proprio ricorrendo a un altro testo di Bateson, si potrebbe affermare che «Due descrizioni diverse sono sempre meglio di una sola» (Bateson, 1984, 191). In questo senso, non sarebbe necessario scegliere tra un approccio artistico e uno scientifico, ma si potrebbe fare ricorso ad ambedue prospettive. In secondo luogo, fatto non sorprendente, nelle sue future ricerche Bateson sposterà l’accento dalla questione dettaglio/insieme a quella relativa alla ‘registrazione’ del reale, utilizzando la macchina fotografica, ovviando così a quella che sentiva, già in Naven, come una carenza: «visto che è impossibile far rientrare tutta una cultura simultaneamente in un unico quadro, dovrò cominciare l’analisi da un punto scelto arbitrariamente. Poiché le parole devono necessariamente essere organizzate in righe dovrò presentare questa cultura che, come altre, è realmente un complicato reticolo di cause ed effetti intrecciati tra loro, non con una rete di parole ma con parole in serie lineari» (Bateson, 1988, 8-9). In un futuro lavoro di campo a Bali, svolto congiuntamente con Margaret Mead, Bateson cercherà di ovviare a questo problema mettendosi a fotografare e lasciando il compito alla moglie di prendere appunti da usare per le didascalie: in modo, così, da fare ricorso allo stesso tempo al “quadro” e alle “serie lineari” di cui parlava in Naven. Il lavoro di cui parlo, mai tradotto in italiano, è Balinese character. A photographic analysis. Ed è una strada possibile nelle ricerche etnografiche: coniugare l’immagine e le parole al fine di meglio cogliere ciò che altrimenti passerebbe inosservato contestualmente. Questo non va fatto, però, nell’intento di dare priorità all’immagine (sulla parola) o a un suo ipotetico significato referenziale. Come mostra Goodwin, nelle sue “Visioni professionali”, persino il significato ‘evidente’ delle immagini può essere ricontestualizzato in funzione delle pratiche professionali specifiche dei membri di una comunità (Goodwin, 2003). Per quanto riguarda Bateson, più particolarmente, ovviato il problema della resa sintattica derivante dall’uso di parole, si pone un altro problema – tutt’ora aperto in antropologia visuale – creato dall’accostamento di immagini e parole: il rimando, talvolta instabile e polisemico, da una forma di senso all’altro, dall’immagine alla didascalia, dall’etnografia al contesto.
Accipicchia però! Passeggiando, passeggiando, affascinato dalle sempre attuali considerazioni di Bateson, il mio flusso di pensiero ha preso il sopravvento su me stesso e sulle conclusioni da trarre per questo breve saggio. Mi sono lasciato andare a me stesso, un altro me stesso che prende talvolta le redini del comando. I flussi disordinati di pensiero servono anche a questo: allentare per qualche tempo l’irreggimentazione del sapere sotto un’unica autorità centrale. E le conclusioni? Fortunatamente, una riflessione sul divenire non richiede conclusioni indifferibili. Come variamente ricorda Derrida nelle sue opere, la differenza è anche differimento spazio-temporale. Altrimenti, che sorta di divenire sarebbe mai, se volessi arrestarlo senza almeno concedergli lo spazio del confronto con l’Altro? Avrei dovuto parlare di Eraclito e del suo modo di concepire il divenire; avrei dovuto parlare della sua eccezionale riformulazione, in chiave moderna, da parte di Deleuze; avrei dovuto parlare di alcune etnografie che affrontano la questione del divenire e dell’ordinario. Avrei dovuto? Troppo tardi, sono fuori tempo. Sono appena rientrato a casa. Ho altro a cui pensare. Ma anche questo fa parte del gioco: il divenire è una cornice che rimanda ad altri “quadri” e altre “serie lineari” di parole. Allora, in finale di partita, solo un paio di puntualizzazioni per chiarire, differendo dalla forza di continuità della linea, per ritornare al divenire frammentario della passeggiata. Dal mio punto di vista, non si tratta soltanto di fare una storia della passeggiata o del camminare – pur benvenuta e importante che sia (Solnit 2002) – ma di riflettere sulla passeggiata come modo di proiezione di un soggetto nello spazio e nel tempo, i quali si pongono, a loro volta anch’essi, come elementi agentivi. La passeggiata non è ovviamente che un esempio, da me privilegiato tra tanti altri, riguardante il divenire del soggetto proiettato in uno spazio-tempo preciso, praticato e riflessivo. A questo spazio realizzato dalle scelte individuali, dalle pratiche vissute, non si oppone, nella mia prospettiva, un soggetto monolitico con un’identità tutta racchiusa in se stesso o tutta investita nell’interazione con gli altri altrettanto monoliticamente intesi. Il ‘soggetto a passeggio’ è qualcuno che interagisce con gli altri e con gli spazi ed è, al contempo, attraversato da flussi di pensiero stratificati. Il fatto strano, a ben vedere, è che questo soggetto che interagisce con se stesso e con gli altri, con gli spazi e con il tempo, con i suoi stessi flussi di pensiero, più che in antropologia, è preso in conto in letteratura, per esempio, da James Joyce o da Virginia Woolf. È doveroso ammetterlo: sovente, la letteratura anticipa le scienze sociali. In questo senso, però, si apre una prospettiva di ricerca a tutto tondo anche in antropologia: sia studiando i dispositivi messi in atto dagli scrittori di letteratura nei loro testi per presentare un soggetto mobile e attraversato dai suoi pensieri disordinati, sia confrontandosi direttamente con il divenire nella scrittura (propria e altrui) di etnografie del presente concepite da scienziati sociali. Per quanto mi riguarda, visto che ho pensato questo scritto come una proiezione personale nello spazio-temporale inquadrato da una passeggiata, devo ricordare che proprio la passeggiata può declinarsi come metafora del pensiero a briglia sciolta. E, attraverso la metafora e i suoi rimandi semantici, si aprono nuovi spazi dell’essere, non necessariamente letterari o artistici, non esclusivamente etnografici.
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014