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In fuga dal clima

copertinadi Chiara Dallavalle

Milon è un cittadino bengalese poco più che ventenne, costretto a lasciare il suo Paese a causa delle ripetute alluvioni che lo hanno forzato a vendere la propria terra, unica fonte di reddito per la famiglia. Ritrovatosi in una condizione di estrema povertà e senza possibilità di provvedere alla propria famiglia, Milon ha deciso di abbandonare il Bangladesh e fare rotta verso l’Europa. Tuttavia le motivazioni che lo hanno spinto ad affrontare il viaggio, e a presentare domanda di protezione internazionale in Italia, evidentemente non sono state ritenute in linea con la Convenzione di Ginevra, in quanto l’esito di tale domanda è stato il diniego. Ma Milon non si è arreso e ha proseguito la sua lotta per il diritto ad una vita dignitosa, presentando ricorso. Ricorso che, con una sentenza datata 18 febbraio 2018, è stato accolto dal Tribunale de L’Aquila, che ha concesso a Milon la protezione umanitaria per motivi ambientali.

Il caso è sicuramente emblematico perché pone la questione dell’inquadramento giuridico dei rifugiati ambientali, una categoria che formalmente non esiste. Infatti lo status di rifugiato implica una storia di violenza e persecuzione, che apparentemente nulla ha a che fare con le problematiche legate ad alluvioni, uragani o periodi siccitosi. Pertanto chi abbandona il proprio Paese per condizioni di estrema povertà subentrate a seguito di mutamenti ambientali sostanziali non rientra nel quadro dell’asilo politico previsto dalla Convenzione di Ginevra. Tuttavia la questione si fa più complessa proprio in virtù del fatto che le migrazioni forzate sono sempre il frutto dell’intersecarsi di svariati fattori, tra cui quelli ambientali giocano un ruolo sempre più di primo piano. L’immagine mediatica delle migrazioni forzate, fatta di persone che fuggono da guerre e persecuzioni, e che tentano di penetrare le barriere della Fortezza Europa, è in realtà ben più complessa. L’elevatissimo numero di sfollati interni che superano di gran lunga l’ammontare complessivo dei rifugiati nel mondo (Altiero, Marano 2016), mostra l’esistenza di dinamiche migratorie silenziose, che raramente si affacciano alla ribalta del grande pubblico. I migranti ambientali spesso sono persone dislocate all’interno dei propri confini nazionali, flussi migratori difficili da identificare e quantificare in quanto associati a mutamenti lenti dei territori. E quando oltrepassano le frontiere internazionali, sfuggono alle etichette comunemente usate per le migrazioni forzate.

Se la Convenzione di Ginevra ha avuto origine in un periodo storico in cui il rifugiato poteva essere identificato quasi esclusivamente come una persona in fuga da violenze e persecuzioni, ad oggi i mutamenti storici e geo-politici impongono una revisione delle motivazioni alla base del principio di asilo, che tengano conto della molteplicità di fattori scatenanti i processi di dislocazione delle persone. Il modello di sviluppo alla base del libero mercato, che prevede uno sfruttamento intensivo dei beni primari nell’ottica della crescita illimitata, produce inevitabilmente squilibri e disuguaglianze che sfociano spesso in conflitti armati, origine delle ondate di profughi che ben conosciamo. Appare chiaro allora che i requisiti richiesti dalla Convenzione di Ginevra per il riconoscimento dello status di rifugiato sono, implicitamente o esplicitamente, derivanti anche da meccanismi che hanno a che fare con gli squilibri ambientali e con i processi di mutamento del clima, causato dall’utilizzo eccessivo di risorse naturali e dai livelli drammaticamente elevati dell’inquinamento globale.

1L’urgenza della questione è stata ben colta dalla Nuova Zelanda, che si candida ad essere il primo Paese a riconoscere i cambiamenti climatici come motivazione per l’ottenimento della protezione internazionale. Sicuramente la Nuova Zelanda si confronta molto più da vicino con il tema, essendo “vicina di casa” di nazioni che stanno affrontando movimenti di persone verso l’esterno proprio a causa del pericoloso innalzamento del livello del mare [1 ]. Tuttavia la questione riguarda la comunità mondiale a tutto tondo, essendo quello dei mutamenti climatici un problema che in senso trasversale riguarda l’intero Pianeta Terra. In questa prospettiva anche l’UNHCR sta iniziando a prendere posizione rispetto alla stretta connessione tra rifugiati e ambiente, riconoscendo che il cambiamento climatico funziona come moltiplicatore di rischio per le persone che già vivono in situazione di vulnerabilità in quanto esacerba il livello di conflitto per le risorse.

In occasione della ventitreesima conferenza sul clima promossa dall’ONU (COP 23), tenutasi a Bonn lo scorso novembre, l’UNHCR ha incoraggiato le nazioni partecipanti a realizzare quanto sottoscritto durante gli Accordi di Parigi nella COP 21 del 2015, riconoscendo il ruolo chiave dei mutamenti ambientali nell’indurre la mobilità forzata di intere popolazioni. Purtroppo ancora una volta gli esiti della COP 23 sono stati tiepidi, soprattutto in considerazione della scarsa volontà dei Paesi industrializzati ad impegnarsi in azioni concrete sul tema. Si tratta infatti degli stessi Paesi che, a fronte di un consumo energetico nazionale estremamente elevato, contribuiscono maggiormente alla crescita del livello di inquinamento del Pianeta. Al tempo stesso le conseguenze più devastanti ed immediate del cambiamento climatico hanno luogo nei Paesi del Terzo Mondo, cosa che accentua ancora di più la forbice di disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo.

Le migrazioni conseguenti ai cambiamenti climatici altro non sono se non un aspetto del più ampio fenomeno definito Antropocene (Crutzen 2005), ovverosia il fatto di vivere in un’era geologica in cui i mutamenti del Pianeta Terra sono da imputare essenzialmente all’opera dell’uomo. Le dinamiche antropiche sono alla base degli squilibri mondiali non solo ambientali ma anche socio-economici, essi stessi causa di guerre e conflitti. Varrebbe quindi la pena considerare le migrazioni forzate in generale come frutto di un sistema globale di sfruttamento delle risorse sia ambientali sia umane che ormai è sul punto di crollare, e che ha dato luogo ad asimmetrie sempre più grandi tra diverse parti del mondo. È facilmente intuibile che il futuro vedrà solo aumentare le disparità legate al depauperamento di fette della popolazione sempre più ampie, alla diminuzione di risorse primarie e al conseguente spostamento massivo di persone alla ricerca di condizioni di vita sostenibili.

Parlare di profughi ambientali significa quindi non solo affrontare le conseguenze a breve termine di questi “nuovi” flussi migratori, in termini di impatto sui Paesi di accoglienza, ma soprattutto aprire una riflessione su un modello di sviluppo che sta mostrando sempre più tutti i suoi limiti. Non solo l’attuale sistema di produzione basato sulla crescita illimitata e sullo sfruttamento intensivo delle risorse del Pianeta è una forma di controllo politico che accentua le disuguaglianze e favorisce una distribuzione iniqua della ricchezza, ma non è nemmeno più sostenibile da un punto di vista ambientale. Non a caso sono proprio i Paesi che meno hanno beneficiato del benessere indotto da questo modello di sviluppo economico, ad accusare maggiormente gli effetti negativi del cambiamento climatico. E al loro interno sono le fasce meno abbienti della popolazione ad andare incontro alle perdite maggiori sia di tipo umano che economico. Nel concreto vaste zone del Sud del mondo vanno ormai frequentemente incontro a fenomeni a lenta insorgenza, quali ad esempio lunghi periodi di siccità, desertificazione e perdita di suolo conseguente all’innalzamento del livello del mare; oppure ad insorgenza rapida, quali uragani, straripamento di fiumi, frane e altri fenomeni legati al dissesto idrogeologico. L’esito dell’intersecarsi di questi eventi con processi locali e globali di tipo sociale, economico e politico dà luogo a movimenti di mobilità forzata sia interna che esterna, che connotano i cosiddetti profughi ambientali.

2Se l’argomento sembra in modo fuorviante rimandare a dinamiche in corso soltanto in zone del mondo estremamente lontane da noi, in realtà il movimento forzato di persone a causa di fenomeni ambientali riguarda sempre più da vicino anche la nostra quotidianità, in quanto le conseguenze dei cambiamenti climatici sono ormai osservabili anche nel nostro Paese. Basti pensare alla forte siccità che ha colpito l’Italia nell’estate del 2017, e che ha messo in ginocchio non solo buona parte della produzione agricola, ma anche molte città italiane che si sono ritrovate a fare i conti con un severo razionamento dell’acqua potabile.

Viene allora da chiedersi se la dislocazione di popolazione a seguito del mutato scenario ambientale sia una realtà poi tanto lontana anche da noi, o se possiamo considerare l’impatto del clima sulle nostre vite come qualcosa che riguarderà soltanto le generazioni future. Oggi noi paghiamo scelte economiche e produttive fatte oltre 70 anni fa, quando un vecchio modo di fare agricoltura maggiormente incentrato sui ritmi della terra è stato letteralmente spazzato via dalla cosiddetta rivoluzione verde, che con nuove modalità di produzione agricola intensiva ha fortemente compromesso molti micro-ambienti naturali locali. E se oggi la pianura Padana, nota per la produzione massiva di mais e riso, due colture che necessitano di quantità ingenti di acqua, fa i conti con periodi sempre più siccitosi non solo durante l’estate ma anche in stagioni notoriamente piovose come l’autunno e la primavera, questo deve necessariamente far pensare. Se gli effetti dell’innalzamento dei mari saranno sentiti in modo particolarmente drammatico nel Sud-Est Asiatico e nella Micronesia, con la scomparsa di intere isole, anche gli Stati europei andranno incontro a cambiamenti radicali, molti dei quali già in atto. Le attività produttive del Nord del mondo, soprattutto quelle legate all’agricoltura, un settore che in primis si fonda sui cicli naturali e sull’alternanza dei diversi stati climatici, dovranno necessariamente adattarsi a condizioni differenti, e non è detto che tale transizione avvenga in modo indolore. Non è detto neppure che tra i milioni di profughi ambientali in movimento entro il 2050 [2], non ci sia anche qualcuno del cosiddetto Primo Mondo. La sindrome della rana nell’acqua calda [3] dovrebbe fare venire un po’ di ansia anche a noi, dopotutto.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
Note
[1] Kiribati, situato nella Micronesia e costituito tra tre arcipelaghi che sporgono dall’acqua solo di pochi metri, sarà forse il primo Stato a scomparire se lo scioglimento dei ghiacci dovesse far salire ulteriormente il livello degli oceani.
[2] Secondo lo studioso inglese Norman Myers, entro il 2050 si raggiungeranno tra i 200 e i 250 milioni di profughi ambientali. L’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite sull’Ambiente, stima entro quella data 50 milioni di profughi climatici solo in Africa.
[3] Il riferimento è all’interessante metafora proposta da Marty Rubin, che ci paragona ad una rana che nuota dentro una pentola piena d’acqua fredda. Quando il fuoco sotto la pentola si accende, l’acqua si riscalda pian piano e rende ancora più piacevole la situazione per la rana, che continua a nuotare tranquillamente. Nel tempo la temperatura continua a salire, ma la rana non se ne preoccupa anche perché il calore tende a stancarla e a stordirla. Quando l’acqua è diventata davvero calda, la rana è ormai così debole che non può far altro che sopportare il calore e tentare di adattarvisi. La temperatura dell’acqua continua a salire fino al punto in cui la rana finisce per cuocere e morire senza mai essersi tirata fuori dalla pentola (Rubin 1987).
Riferimenti bibliografici
Altiero, S. Marano, M., 2016,  Crisi Ambientale e Migrazioni forzate. L’ondata silenziosa oltre la Fortezza Europa, Associazione A Sud – CDCA, Roma.
Crutzen, P. J. ,2005, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era., Mondadori Editore, Milano.
Myers, N., 2002, Environmental refugees: a growing phenomenon of the 21st Century, Philos Trans R SocBiol Sci 357: 609-613.
Rubin, M., 1987,  The boiled Frog Syndrome,  Alyson Press, New York.
UNEP., 2011,  Climate change, conflict and migration in Sahel, Risorsa online
Vandana Shiva., 2015, Earth Democracy: Justice, Sustainability, and Peace, North Atlantic Books, New York.
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Chiara Dallavalle, già assistant lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, ha lavorato per oltre un decennio in servizi di accoglienza per rifugiati, e oggi si occupa di facilitazione culturale. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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