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In principio l’Homo Narrans

51sozlebsbldi Orietta Sorgi 

«Il racconto – scriveva Roland Barthes (1969:7) – è presente in tutti i luoghi, in tutte le società, il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità. Non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti. Siamo una specie che racconta, che si racconta, lo abbiamo sempre fatto in varie forme e con vari linguaggi».

A questo tema è stata dedicata la tredicesima edizione dei “Dialoghi di Pistoia”, festival di antropologia contemporanea intitolato Narrare Humanum est. La vita come intreccio di storie e immaginari, confluito successivamente in una raccolta di saggi pubblicata dall’Utet. Dai graffiti preistorici ai miti cosmogonici dell’antichità, dai poemi omerici alla letteratura, dal cinema alla televisione, dal web allo storytelling, alcuni autori si confrontano da vari punti di vista, concordi tuttavia nel ritenere la narrazione un bisogno innato dell’umanità.

Ad introdurre i lavori del festival è stato Marco Aime, il quale, con Barthes, ha sottolineato nell’uomo la priorità esclusiva del linguaggio: 

«che non è solo una sequenza di suoni ordinati, ma una sorta di lente attraverso cui guardare e leggere il mondo. Cambiare lingua vuol dire anche cambiare modo di pensare. Ciascuno di noi è il prodotto di storie che abbiamo vissuto e abbiamo ascoltato. In questo modo noi costruiamo il nostro essere umani, la nostra appartenenza a una o più comunità, la nostra capacità di convivere. Quando perdiamo la capacità di ascoltare quelle degli altri, allora nascono le incomprensioni, i pregiudizi, che sono anch’essi il prodotto di narrazioni. Cominciamo a raccontare una storia in cui l’altro, il diverso diventa l’icona di ogni male. È da queste narrazioni che nascono il razzismo, l’odio per l’altro, le guerre. Un pericolo che dobbiamo evitare e l’unico modo per farlo è ascoltare le storie di tutti» (Dialoghi di Pistoia 2022). 

Su questi presupposti, la ricerca interculturale, la pratica etnografica di chi è deputato per professione ad ascoltare il punto di vista degli altri, diviene una risorsa essenziale. Soprattutto in tempi bui come questi, dominati dal razzismo e dall’omofobia, in cui sembrano definitivamente crollate le grandi certezze progressiste del Novecento. È quanto osserva James Clifford, nel saggio di apertura del volume, riferendosi in particolare allo stato di confusione generale che regna nella nostra contemporaneità con la crisi dell’Occidente, della globalizzazione capitalistica e con la fine dell’ottimismo liberista fondato su una crescita economica ritenuta “inarrestabile”.

Oggi – osserva l’antropologo statunitense – si aprono scenari inquietanti che hanno messo in discussione anche il concetto stesso di democrazia: in diverse parti del mondo fioriscono dittature e regimi totalitari per il venir meno del pensiero laico razionalista, cui fanno fronte, al contrario, movimenti religiosi intrisi di fanatismo ed estremismo. La decolonizzazione e l’irruzione nella storia dei popoli cosiddetti “primitivi”, le crisi ambientali e climatiche hanno mostrato la fragilità del modello capitalistico. Ciò che sembrava ormai consegnato alla storia, come il pericolo di una guerra atomica, si profila nuovamente all’orizzonte e tutto l’assetto internazionale è divenuto estremamente precario, anche per le drammatiche conseguenze dei popoli migranti in fuga dai loro paesi in cerca di salvezza e accoglienza, che spesso si risolvono in ulteriori tragedie.

clifford-marcus-scrivere-cultureDi conseguenza – alla luce dei fatti – anche il modello di un’antropologia centralizzata fondata sull’osservazione partecipante di Malinowski, quello sguardo occidentale sulle culture “altre” di chi riteneva l’informatore solo una fonte di dati grezzi da restituire al lettore attraverso la scrittura antropologica, non è più sostenibile. Lo stesso Clifford, peraltro, pubblicando con Marcus Scrivere le culture, invocava un’antropologia dialogica, condivisa, che rendeva parimenti narratori sia il ricercatore che l’informatore, coautori della produzione di un testo. La titolarità della scrittura si spostava così dallo studioso maturato in Occidente al nativo dell’alterità, attore e protagonista del processo narrativo. Oggi più che mai si avverte il bisogno di un’antropologia decentrata che faccia tesoro dell’arte dell’ascolto, da cui possa emergere una sensibilità nuova, attenta a soluzioni alternative e a realtà diverse, seppur periferiche.

Ma – si potrebbe aggiungere – se, come sostiene Clifford, tutto il corso della storia non è lineare e procede per sbalzi e interruzioni, risultando, in ultima analisi, il frutto di narrazioni diverse, relative e transitorie, bisognerebbe prendere atto, una volta e per tutte, che nulla vi è di oggettivo e neutrale e che ogni costruzione umana, culturalmente intesa, è frutto di un artificio e dunque di una finzione.

Da questo punto di vista Stefano Bartezzaghi esamina il significato o i significati del termine storytelling, già diffuso da tempo nel mondo anglosassone ma entrato in voga anche in Italia, soprattutto a partire dal 2008, anno delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti e della vittoria di Obama. In quell’occasione la conquista dell’elettorato da parte del primo presidente nero, fu dovuta, secondo l’autore, non tanto a condizioni oggettive, ma a espedienti narrativi costruiti appositamente, secondo un giusto modo di rappresentare i problemi e con tecniche di persuasione proprie dello storytelling. Nessuna storia – ribadisce l’autore – è di per sé vera o falsa, perché l’atto di narrare indica sempre una strategia, un impiego di artifici.

Un esempio cruciale del nostro tempo: l’immigrazione. Chi è a favore dell’integrazione multietnica racconterà storie dolorose di guerra, fame, povertà malattie e mortalità infantile, mostrando sorrisi di bambini e soluzioni di accoglienza. Chi al contrario è ostile e difende i propri confini nazionali dall’intrusione dello straniero, troverà a suo favore racconti di criminalità, di sporcizia e mancanza di igiene fino a congegnare trame e complotti di sostituzione etnica. Anche sull’invasione russa in Ucraina esistono due narrazioni discordanti: una, più credibile, per cui una nazione più potente ha invaso una più debole provocando veri e propri crimini e massacri sui civili; l’altra, più mistificante, secondo cui la nazione più debole avrebbe sviluppato piani internazionali contro quella più potente.

9788845290923_0_536_0_75Del resto, a ben riflettere, anche i miti cosmogonici dell’antichità sono frutto di un artificio narrativo come dimostra, in ultima analisi, Maurizio Bettini partendo dal Protagora di Platone. Nel racconto il celebre sofista è ospite da Callia in compagnia di un gruppo di ateniesi ai quali rivolge una storia, adottando le tecniche del mythos, più efficace e suggestivo del lógos, il ragionamento. Egli allude alla virtù, necessaria per esercitare l’arte della politica, e a come si possa trasmettere tramite il rispetto e la giustizia. E rimanda alla nascita del genere umano da parte delle divinità che hanno conferito loro quelle caratteristiche per organizzarsi in società, differenziandosi così da tutte le altre specie viventi: l’uso delle armi, del fuoco e della religione. Gli uomini sono l’unica specie vivente che onora gli dèi e costruisce altari in loro favore.

Il racconto di Protagora partito da una premessa – che la virtù sia insegnabile – si estende così verso temi più ampi che riguardano la nascita del genere umano. Queste caratteristiche, proprie del mythos nell’antica Grecia, sono in grado di ricoprire uno spettro di significati molto più ampio dei propositi enunciati, e questo lo rende, a differenza del lógos, un discorso autorevole, dotato di grande ricchezza comunicativa ed estremamente efficace. Solo più tardi il mito assumerà le valenze del racconto fantastico, privo di quella credibilità che resterà appannaggio del lógos. Dal mito si svilupperà la tragedia, basata sulla finzione e sull’inganno: anche se, come dice Gorgia, si tratta di un inganno giusto perché accresce, nel pubblico, la conoscenza e la saggezza.

Ed è ancora la Grecia classica il punto di partenza di Lina Bolzoni sul legame fra narrazione e memoria che, attraversando Roma, percorre tutta la cultura europea moderna. In società prive di scrittura dove la comunicazione è esclusivamente orale, il rapporto fra memoria e poesia è fondamentale. Nell’antichità Mnemosyne, la memoria, è una dea, da cui discendono le Muse, generatrici della poesia, che cantano gli dèi e gli eroi, fondatori della civiltà. Così si costruisce la memoria collettiva, patrimonio comune delle comunità, l’insieme dei valori che stanno alla base dell’identità culturale. Per questo Gorgia esalta la virtù della parola: nell’Encomio di Elena, dice che la parola può tutto, può compiere «…azioni veramente divine…far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione». Nello Ione di Platone, Socrate attribuisce alla parola la forza di un magnete che passa, attraverso una catena, dal dio alla musa, dal poeta al rapsodo che recita i suoi versi in pubblico.

9788807902406-1La scrittura – secondo Platone – perde questa capacità d’incantamento, non dialoga, non risponde. In realtà – obietta l’autrice, anche la parola scritta interagisce col lettore, anzi è uno speculum animi fra l’autore e il lettore che vi si riflette. Ricorda, a questo proposito, Marcel Proust quando parla di «quel meraviglioso miracolo della lettura che è la comunicazione nel cuore della solitudine», di quel meraviglioso paradosso per cui si è soli, ma la solitudine è popolata dalle voci degli scrittori che stiamo leggendo, che ci aiutano a riconoscere noi stessi.

Nell’età della scrittura – conclude la Bolzoni – «è proprio la lettura di un testo altrui che ci aiuta a narrare la propria storia; la lettura diventa uno specchio magico, un’occasione creativa, che aiuta a conoscersi, a dirsi e a raccontarsi». E invoca quell’atmosfera incantata della biblioteca in cui si entra in contatto con scrittori di altri tempi e luoghi, con cui non si è vissuti direttamente ma attraverso le loro opere, creando quella familiarità che lega il passato col presente. Un mondo che ha dato vita alle opere di Petrarca e al Principe di Machiavelli.

Sul potere della parola torna ad insistere Ivano Dionigi, guardando con preoccupazione all’impoverimento linguistico che affligge il presente. Come in un paradosso «a fronte della globalizzazione e del suo profeta internet, reagiamo con un apparato di muri fisici e mentali; a fronte del web planetario e del maximum dei mezzi di comunicazione sperimentiamo il minimum della comprensione…Ai molteplici squilibri in atto – sociali dell’immigrazione, ambientali del pianeta, sanitari della pandemia, politici della guerra, demografici della denatalità, si aggiunge quello linguistico, per cui la parola oggi non gode di buona salute». Si assiste così ad un vero proprio scempio della parola, che si consuma sotto i nostri occhi con l’uso di termini mascherati, ambigui, inautentici. Solo il ricorso all’etimologia può porre rimedio a questa situazione, trattandosi di una disciplina che restituisce il vero senso della parola, le sue radici, così come avviene nella conoscenza di una casa dalle fondamenta.

Anche se le parole cambiano in relazione al contesto e bisogna riconoscere il piano denotativo da quello connotativo, la consapevolezza linguistica ci induce ad una riflessione più profonda: cum – petere ad esempio, non ha nulla, nelle origini, di antagonistico e competitivo come lo intendiamo oggi, ma significa al contrario, andare insieme, verso un’unica direzione. Oppure contestare che rimanda all’antico significato di testimoniare insieme: un significato di solidarietà e non di rivalità come oggi comunemente si intende. Ancora, esaminando i termini Oriente «dove la realtà ha inizio» e Occidente «dove la realtà finisce», l’etimologia può fornirci alcune dritte sulla crisi degli europei e l’avanzare dei popoli orientali. Che ci debba essere alleanza fra l’Oriente e l’Occidente è di nuovo la lingua a ricordarcelo prima ancora dei teatri di guerra. In definitiva la parola non può essere considerata creazione del presente, ma ha una sua dimensione storica e sociale che affonda nell’eredità greca e romana. Da qui la sua potenza, la forte carica simbolica che tiene salda la storia e le tradizioni. Secondo la grande lezione di Aristotele quando afferma che l’uomo è il solo essere vivente che possiede il lógos.

2560005059311_0_0_464_0_75A una persona, a un gruppo puoi togliere tutto, averi, affetti, lavoro, ma mai la parola. Ricordiamo, a questo proposito, i versi una bellissima poesia di Ignazio Buttitta (1970) dal titolo “Lingua e dialetto”: Un populu/ mettitilu a catina/spugghiatilu/attuppatici a vucca/è ancora libiru/livaticci u travagghiu,u passaportu/a tavula unni mancia/u lettu unni dormi/è ancora riccu/Un populo/ diventa poviru e servu/ quannu ci arrubbanu la lingua/ addutata di patri/. È persu pi sempri.

La mancanza o la mutilazione della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. L’homo faber diviene sapiens proprio perché oltre al gesto, possiede la parola (Leroi-Gourhan 1977). Il lógos è al contempo parola e pensiero, filologia e filosofia, simbolo della grecità, dove la parola si fa pensiero e il pensiero si fa parola. Attraverso la parola inizia la civiltà: in principio era il verbo, nella versione biblica, e il verbo era il lógos, che presiede sia al momento della creazione che al momento dell’incarnazione.

Su queste premesse Silvia Vegetti Finzi guarda ora alle fiabe come eredità dei miti. E ne sottolinea l’importanza, sotto il profilo psicopedagogico, nella crescita evolutiva del bambino. Anzitutto in quell’incipit, tipicamente fiabesco, del “c’era una volta” che determina una sospensione del tempo su un piano metastorico. Poi nella lentezza del racconto che assegna al bambino la facoltà di immaginare e fantasticare su tante possibili alternative, di poter sbagliare e riprovare prima di raggiungere il cosiddetto lieto fine. Il bambino si identifica con l’eroe della fiaba e impara ben presto che, per quanto le strade siano impervie, alla fine, dopo tante prove e tanti antagonisti, ci sarà anche un aiutante magico (Propp 1966) che lo aiuterà a conseguire la vittoria.  Contrariamente ai videogiochi dove le sfide virtuali sono già prefissate e la decisione giusta è una sola che deve essere individuata rapidamente, nelle fiabe invece, l’intreccio narrativo segue uno schema che mette ordine nel caos della fantasia, organizza il ragionamento, elabora le emozioni.

Per questo, secondo Italo Calvino, le vicende dell’eroe sono ordinatrici, perché ribaltano lo scompiglio e il caos che irrompe nelle trame, apportando valori come l’armonia e la solidarietà. Le fiabe contengono una morale e un insegnamento che si deposita nell’inconscio e nella memoria che orienta in futuro i nostri comportamenti, sia pur in modo inconsapevole.  

libri-dispense-fumetti-padova-vivere-per-raccontarla-gabriel-247beb4d9597d213a08b49f7a2c96baaIn ultimo ma non l’ultimo Luigi Zaja, psicanalista, ritorna sulle varie forme e generi di narrazioni che si sono succedute nel tempo e sulle ragioni del loro tramonto: dai grandi poemi come l’Iliade e l’Odissea, fondatori della civiltà occidentale, attribuiti solo per convenzione ad un cantore cieco di nome Omero, alle tragedie corali del mondo classico fino ai vari generi di intrattenimento commerciale, stile hollywoodiano, basate sullo happy end. In realtà, malgrado la massificazione narrativa invalsa nell’età contemporanea, il bisogno di raccontare nell’uomo non si è mai sopito, soprattutto quello autobiografico che porta alla luce una dimensione inconscia del proprio vissuto. Questo ha fatto sì che nel Novecento il racconto autobiografico si spostasse all’interno di una sfera più intima e privata e divenisse lo strumento principale della terapia analitica. Un percorso di narrazione ma anche di ascolto, che trova molti punti in comune con la tragedia greca, intenta a ricercare il senso di alcuni temi cruciali della vita. Si tratta di un percorso che non può trovare mai un punto di arrivo, essendo la ricerca in continuo svolgimento. In fondo la psicanalisi invita a raccontare la sfera più intima e interiore dell’individuo, quella segnata dal dubbio e dall’ambivalenza. E ad accettare il fatto che ogni discorso sulla vita incrocia la vita stessa.

Viene ora alla mente un bellissimo romanzo di Gabriel Garcia Marquez, scritto nel 2003: Vivere per raccontarla. La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. A conferma di quanto osservava Antonino Buttitta e cioè che gli scrittori hanno interpretato la realtà molto meglio di qualsiasi scienziato. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
Riferimenti bibliografici 
Aime, Marco
2022    Aspettando i Dialoghi di Pistoia 2022, lezione introduttiva del 18 marzo 2022, Il posto delle parole, Pistoia, https://il postodelleparole.it/ 
Barthes, Roland
1969    Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, in «L’analisi del racconto», Milano, Bompiani.
Bolzoni, Lina  
2023    Lo specchio della memoria e la narrazione, in «Narrare humanum est. La vita come intreccio di storie e immaginari», Milano, Utet: 61-77. 
Buttitta, Ignazio
1970    Lingua e dialetto, in «Il poeta in piazza», Milano, Feltrinelli 1977. 
Calvino, Italo
1988    Sulla fiaba, a cura di M. Lavaggetto, Torino, Einaudi. 
Clifford, James – Marcus, G.E.
1998    Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia, Roma, Meltemi. 
Dionigi, Ivano
2023    Il potere della parola, in «Narrare humanum est. La vita come intreccio di storie e immaginari», Milano, Utet: 81-91. 
Gorgia,
2004    Encomio di Elena, a cura di Guido Paduano, Napoli, Liguori. 
Leroi-Gourhan, Andrè
1977    Il gesto e la parola, Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, 2 voll., Torino, Einaudi. 
Marquez, Gabriel Garcia
2003    Vivere per raccontarla, Bompiani, Milano. 
Platone,
2001    Ione, Bompiani, Milano.
2001    Protagora, Bompiani, Milano.
Propp, Vladimir Ja
1966    Morfologia della fiaba, con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, a cura di Gian Luigi Bravo, Torino, Einaudi. 
Proust, Marcel
2016    Il piacere della lettura, prefazione di E. Trevi, Milano, Feltrinelli. 

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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