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In sordina a Auschwitz. Tra sensibilità e razionalità, ordinario e straordinario

Tra terra e cielo (foto Montes)

Tra terra e cielo (foto Montes)

 di Stefano Montes

Cinque anni, appena compiuti da qualche giorno, Emanuele si è svegliato stamattina presto con un pensiero in testa: non andare all’asilo. Ha ribadito più volte, incalzante, che vuole rimanere, in casa, a giocare con me, in un modo o nell’altro: giocare è ciò che gli interessa, lo dice e lo ripete, sicuro della mia comprensione, della nostra solidarietà, della fiducia instauratasi nel tempo tra noi. Parole e verbi sono talvolta esigui e abbisognano del vigore dei gesti, della loro forza motoria. Io lo so. Per professione. Lui lo sa già, adesso, a cinque anni, da piccolo ometto qual è: lo sa e lo sente a fior di pelle. E mette in scena le sue intenzioni, teatralmente: con razionalità e sensibilità insieme, senza distinguerle, eccessivamente, l’una dall’altra. Poggia platealmente un piede sul mucchio di libri impilati in un angolino di casa, alza il dito in aria e ripete scandendo con cura le parole: «non ci vado, non ne ho voglia». Oggi, si è proprio incaponito: non andrà come al solito all’asilo. Non ci andrà, non vedo perché dovrei costringerlo. Dovrei? «Avrà le sue buone ragioni», rimugino stranito, comunque interdetto. Le rispetto. L’infanzia ha le sue ragioni, diritti e responsabilità, doveri e piaceri. Più che uno stadio nettamente separato dalla vita adulta, l’infanzia può rappresentare un periodo di estrema fluidità, in diretta connessione con l’intero ciclo di vita, in cui diritti e responsabilità sono in continua acquisizione, posti ed esperiti fin da piccoli. Con rispetto, per il rispetto. Vale per i bambini, vale per gli adulti, per la vita intera. Se lo è per i Chillihuani del Perù (Bolin 2006), non vedo perché non possa infatti esserlo per la nostra società.

 Per gioco a Palermo (foto Montes)

Per gioco a Palermo (foto Montes)

«Bisogna rispettare la decisioni di Emanuele», continuo allora a riflettere, mentre il libro in testa al mucchio rotola rovinosamente per terra. Stranamente, il libro arresta la sua corsa proprio tra le mie gambe e il mio sguardo cade su un brano che attira subito la mia attenzione: «La propensione al genocidio cresce indubbiamente sul terreno preparato dalle logiche di violenza nate dal XIX secolo o dalla Grande guerra, ma dipende comunque quasi sempre dalle razionalità individuali e collettive proprie del XX secolo» (Bruneteau 2005: 245).

Il genocidio ha una qualche base su forme congiunte di razionalità? Il termine “razionalità” mi sembra di primo acchito il meno adatto, ma Bruneteau non ha incertezze a riguardo. Emanuele, nel frattempo, mi distoglie. È svelto. Raccoglie il libro. Lo richiude. Lo rimette a posto. Si riposiziona in equilibrio sul mucchio sbilenco. Richiede attenzione con una smorfia buffa della bocca. Raccoglie, richiude, rimette, riposiziona, richiede. Io rimando a mente le sue azioni, prestando attenzione alle allitterazioni del suono. Lui arriccia le guance. Io cingo i suoi fianchi con le mie mani. Lo aiuto così a tenere l’equilibrio, ripensando alle logiche della violenza, ai percorsi molteplici all’interno dei quali si potrebbe rinchiudere la significazione del concetto di razionalità. Lui ripete infine il mio gesto, per scherzo, imitando alla lettera i movimenti. Chissà poi perché, nel nostro gioco, nei nostri movimenti, ritorna il suono /r/! Non so nemmeno poi perché la razionalità ritorna nei miei pensieri mentre ero dedito a fare altro, a rilassarmi e distrarmi! Altro risuona di alterità, altro mi piacerebbe rimasse con altruismo. Tutto ciò che so, adesso, nel corso dello scorrere spicciolo della mattinata, è che la funzione poetica s’insinua dappertutto: nelle nostre azioni, nei nostri pensieri. Fa da collante tra me ed Emanuele, tra l’ordinario e lo straordinario che mi attraversa. Perché non dovrebbe essere così, d’altronde? La poesia raddolcisce la vita e allo stesso tempo aiuta a esprimersi laddove la ragione in prima istanza, in molti casi, esita e vacilla. Nonostante Adorno e la paralisi intellettuale che comporta una riflessione approfondita sul genocidio. Mi concedo dunque, data la difficoltà, con un argomento così delicato come il genocidio, uno spazio di flessibilità argomentativa e interculturale. Rifletto e narro, vivo nel mio quotidiano e sono consapevole di fatti straordinari e tragici, vissuti da altri nel passato e nel presente.

Sono a casa mia e ripenso alle baracche dei sopravvissuti nei campi di concentramento: vivo una realtà ordinaria e penso a una straordinaria, quasi inconcepibile e inimmaginabile. L’ipotesi scientifica, dunque, data in sé, mia o altrui, forse è qui meno importante delle contrapposizioni in gioco, della narrazione che dà loro corpo, dei punti di vista messi a fronte: «non per relativizzarli, nel gioco infinito delle immagini incrociate, ma per far apparire, al contrario, […] ciò che risulta dallo scontro tra visioni del mondo diverse o antagonistiche» (Bourdieu 2015: 39). Meglio, dunque, nel mio piccolo mondo borghese, dare spazio ai punti di vista, miei e altrui, incompatibili o meno, e fare in modo che la narrazione faccia il suo corso, dando pienezza a quelle che altrimenti rimarrebbero categorie isolate o contrapposte quali razionalità o sensibilità, genocidio di massa e violenza individuale. A un’idea d’ipotesi scientifica, bell’e pronta, solida e precostituita, affianco allora, per differenza, il procedere della narrazione non finalisticamente intesa, una narrazione adagiata nel processo in corso, qui e lì, a casa e fuori, nella mente e fuori di testa. Ripartiamo, per questo, da Bruneteau: riandiamo indietro con calma. Secondo lui, totalitarismo, modernità e nazionalismo sono forme di razionalità la cui mistura genera spinte al genocidio. Razionalità? Che c’entrerebbe la ragione con il genocidio? Lui è uno storico di rilievo, uno specialista di totalitarismi. Io, da persona comune, tutt’al più antropologo dell’infimo ordinario, non mi rassegno affatto all’associazione tra razionalità e genocidio. La prima reazione che registro in me stesso è infatti proprio questa: da comune mortale, non mi rassegno, mi rivolto, come sempre, contro la monovalenza giustificatrice dei linguaggi. In fondo, che «cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no» (Camus 1951: 27). E io dico no, mi rivolto per ragionarci meglio e valutare gli usi astratti e concreti di categorie. La mia sensibilità, se non altro, mi impedisce questa brusca associazione, di primo acchito, benché il problema si riproponga comunque visto che la sensibilità stessa è a mio parere, anch’essa, una forma culturale traducibile secondo logiche in cui è possibile ritrovare tipologie diverse di razionalità a me talvolta aliene. Allo stesso tempo, penso pure che alcuni concetti non si escludano così nettamente, reciprocamente, come si vuole credere comunemente: per quanto strano possa sembrare, la razionalità può essere irragionevole e diventare comunque sistema complesso e interrelato al cui interno ciò che pare di primo acchito irragionevole (soprattutto a coloro che si trovano al di fuori del sistema) trova il suo posto – in vari casi – senza colpo ferire, nell’ordine della società, aggirando le resistenze di molti, traducendosi in senno e senso comune accettato. Come nel genocidio: per i carnefici e talvolta per le vittime.

 Razionalità dell'attesa in Polonia (foto Montes)

Razionalità dell’attesa in Polonia (foto Montes)

Certamente, quindi, Bruneteau non adopera i termini a casaccio: il suo è ovviamente il frutto di una lunga riflessione. Io, da parte mia, da antropologo del linguaggio, devo registrare le mie resistenze a un uso indiscriminato di razionalità, riflettendo sulle interrelazioni con altri concetti, vicini e lontani, quali sensibilità e irrazionalità; d’altronde, non posso non manifestare, nel mio quotidiano, una adesione partecipata per il rispetto di valori umani e per una cultura del rispetto dell’altrui sofferenza, specialmente in un momento storico di così grande sommovimento con diaspore continue, migrazioni forzate e de-soggettivazioni strutturate dei rifugiati. Mi lascio andare a queste osservazioni, intanto che le parole di Emanuele mi colpiscono per la sua determinazione, proprio oggi in cui mi prende una strana e vissuta indolenza dell’anima e della mente. Sfilo dal mucchio Il secolo dei campi di Kotek e Rigoulot, leggo rapidamente qualche rigo d’inizio:

«Il XX secolo potrebbe essere raccontato attraverso la storia del sistema concentrazionario. La guerra di liberazione cubana e quella algerina, la repressione coloniale in Africa, la rivoluzione bolscevica, la seconda guerra mondiale – dall’Indonesia agli Stati Uniti, passando per la Francia e Vichy – la disgregazione della Iugoslavia, la repressione in Cecenia sono infatti accomunate dalla presenza dei campi detti ‘di concentramento’, nonostante dietro tale definizione si nascondano realtà non del tutto omogenee tra loro»  (Kotek, Rigoulot 2001: 3).

Rimango di stucco. Tra le tante cose interessanti di questo brano, un termine prende infatti prepotentemente la scena del mio ragionamento: “sistema”. Ci risiamo. Ancora. Forse io non avevo tutti i torti allorquando macchinavo, tra me e me, giocando e narrando: razionalità significa tante cose, la razionalità è prodotta anche dalla comunicazione efficace, la razionalità cela un fondo argomentativo, la razionalità risponde a un ordine che camuffa il disordine e si fa passare per stato normale di cose. E nemmeno Bruneteau, tutto sommato, aveva torto, se il principio di fondo è che logiche della violenza e forme di razionalità vanno studiate insieme. La parola “sistema”, però, mi frulla capricciosa per la testa e non vuole saperne di spostarsi altrove. Emanuele continua a saltellare da una parte e dall’altra del mucchio di libri. La mia mente fa anch’essa le piroette da un testo all’altro, da una sensazione all’altra, dalla Polonia dove sono stato ieri, all’Italia dove vivo solitamente. La mia mente? La Polonia? Chi la ferma più, la mente in subbuglio! Prende il largo, per associazioni a me stesso impreviste, si diverte a dissociarmi da me stesso, da quel blocco compatto che pensiamo essere, da una parte, la razionalità e la sensibilità dall’altra. A me non va giù l’idea, ma devo farmene una ragione, mescolare le acque per venirne meglio a capo, per avere qualche sicurezza su cui situarmi. Una ipotesi, a questo punto, non nuocerebbe certo, se non altro per raccapezzarmi un po’ tra i vari approcci e dare respiro al lettore. Eccola, in maniera provvisoria, formulata soprattutto per procedere nella narrazione che ho il privilegio di potere condurre in prima persona: non soltanto risultato di moti irrazionali, esplosioni folli di atti assurdi collettivamente ripudiati, il male e la violenza sono più spesso irreggimentazioni di logiche d’insieme finalizzate a scopi precisi, sono ‘elementi’ in gioco resi coerenti all’interno di complessi unitari di ragioni le cui connessioni mirano, come nel caso dei campi di concentramento, a particolari fini tecnici e persino tecnocratici. Dirlo a casa propria, lontano dalla violenza e dal male, mentre si gioca con il proprio figlio, è facile; accettarlo, pensando che, nei campi, «soccombere è la cosa più semplice» (Levi 2005: 81), lo è molto meno. Ecco perché resisto: resisto a un’idea monolitica di razionalità. Ecco pure perché non rinuncio: alla comparazione dei luoghi e delle atmosfere, dell’ordinario e dello straordinario.

 Notturno a Cracovia (foto Montes)

Notturno a Cracovia (foto Montes)

E allora? Il primo passo forse sarebbe proprio questo: accettare il fatto che il male e la violenza si costituiscono in quanto forme congiunte, confuse e sovrapposte di razionalità e irrazionalità, sovente subdolamente dissimulate, in termini segnici, da connotazioni ideologiche prodotte ad uopo per sventare resistenze e modellare persuasivamente la ricezione altrui. Questa è la ragione per cui la varie forme di produzione culturale non andrebbero dissociate dallo studio delle forme della loro ricezione: che si tratti di traduzione e interpretazione, comunicazione e significazione, diaspora e migrazione, il principio è sempre valido (Montes 2007). Ovviamente, il secondo passo è sventarne la costruzione materiale e simbolica, rifiutarne la costituzione ideologica d’insieme nel suo stesso divenire processo interno ed esterno alla cultura, nella sua adesione quotidiana manifestata spesso da impliciti automatismi e sostegni inconsapevoli frutto di operazioni mediatiche. Roba difficile, complicata se si pensa che gli «attori, le istituzioni e la società cristallizzano ed elaborano in modo sistematico il male. Fanno ciò, ironicamente, perché sono alla ricerca del bene. Diventa quindi necessario prestare attenzione a questi processi peculiari e paradossali» (Alexander 2006: 171). Può darsi. È allora deciso. Non me la sento però oggi di pensarci. La violenza e il male. La solitudine e la disperazione. Non sono proprio in vena oggi, non voglio rimanere da solo in casa, pensare con la testa, fare l’antropologo o altro: Emanuele oggi non andrà a scuola, passeremo un po’ di tempo a giocare, tra noi, io e lui, nell’intimo della casa, al riparo dai brutti pensieri. Sono risoluto nel dirlo, soltanto un po’ intontito dalla sua e mia determinazione. Auschwitz non è altro che un suono per lui. Che la sua presenza allievi pure la pesantezza dei miei pensieri! Forse, ha intuito qualcosa. Come solo i bambini possono fare. Con sensibilità. Forse sa. Fin troppo. Lo sente. È percepibile. Ne avverte il ritmo nelle mie azioni affannate, in disaccordo con la fiacchezza con cui le accompagna il mio dire sfrangiato dall’essere già franto. Sa, sente e percepisce. E questo è forse il suo modo inconsueto, di bimbo, di darmi una mano: giocando, ricordandomi il dovere di essere padre, la responsabilità di apprezzare comunque il senso in fondo inesplicabile della vita (e, simmetricamente, della morte).

«Una volta tanto, marinare la scuola avrà pure i suoi benefici effetti», mi dico, rimarcandolo a voce alta come se fossi solo, pizzicando per scherzo Emanuele sul braccio, sulle guance, sul pancino, in attesa della sua reazione certa e ostinata. Sicuramente avrà i suoi buoni effetti per me, se non altro almeno di tipo perlocutivo, consolatorio. È il caso di accontentarlo, di fare una pausa nel corso in apparenza inappuntabile degli eventi: dal lavoro e dal passato recente che chiede il conto all’antropologo e all’uomo. Sì, perché sono tornato ieri dalla Polonia, da Auschwitz, e una strana sensazione mi è rimasta incollata addosso, sulla coscienza e sulla pelle, sui panni puliti e sul respiro pesante che riverso sul mondo indaffarato nel solito trantran di sempre. Routine? Ordinario e straordinario si richiamano e s’intrecciano: da qualche giorno, Auschwitz non è più per me una parola, per quanto terribile, ma un riferimento concreto, materiale, ancorato a un mio pezzo di vissuto, di pellegrino del passato, attento a ciò che succede intorno al suo presente. Meglio allora giocare: mi farà bene. Ne conveniamo, io ed Emanuele, con una strizzatina d’occhi, intanto che gli soffio sul volto le parole della poesia che stringe come una morsa il pensiero truciolato dal mio cruccio. Anche se non so bene se lui capisce pienamente le mie ansie e ragioni, il mio senso di irrequietezza interiore e di viscoso appiccicaticcio esteriore, le poche frasi che gli ripeto, di nuovo e ancora, più a me stesso che a lui, mentre ci apprestiamo a scegliere i giochi da fare e i giocattoli da utilizzare: «Voi che vivete sicuri/Nelle vostre tiepide case,/ Voi che trovate tornando a sera/Il cibo caldo e visi amici:/Considerate se questo è un uomo/Che lavora nel fango/Che non conosce pace/Che lotta per mezzo pane/Che muore per un sì o per un no» (Levi 2005: 7). Emanuele ha solo cinque anni, ma la cantilena guadagna la sua attenzione: fissa il suo sguardo sul mio. Quel “che” che a scuola ci dicevano di evitare con tanta attenzione nei compiti d’italiano – che ritorna incessante come un monito in Levi, che s’incarica di iniziare i suoi versi, che non mi stanco di ripetere fino alla noia, che mi aiuta a tenere a mente la poesia – riesce invece a tenere Emanuele fermo per qualche secondo. Giusto qualche secondo. Incollato a un so che. Poi, fortunatamente, si ricomincia col gioco e le corse a perdifiato per casa. Riprendiamo. Fortunatamente – dico – perché, grazie a Emanuele, posso adagiarmi come uno straccetto vuoto nel presente, risoluto a svuotarmi, per qualche ora, di intenti a lunga gittata, privo di intenzioni indefesse e ricerche di spiegazioni razionali. Grazie a Emanuele posso far sì che nella mia mente come pastafrolla si sfaldi il ripercuotersi dei resti della poesia inquietante di Levi: «Considerate se questa è una donna,/Senza capelli e senza nome/Senza più forza di ricordare/Vuoti gli occhi e freddo il grembo/Come una rana d’inverno» (Levi 2005: 7).

Non solo museo (foto Montes)

Non solo museo (foto Montes)

Emanuele non vuole andare a scuola. Prendo soltanto atto della sua decisione, del mio assolo di sofferenza vissuto in sordina: lo considero un intervallo nella mia pianificazione del fare, di studioso dell’ordinario e dello straordinario, del loro intrecciarsi inevitabile. Che altro potrei fare? Oggi, Emanuele rimane a casa, io metto da parte il mucchietto di carte e appunti caotici da trasformare in materia disciplinata, regolata. La parola d’ordine è: divertiamoci, svaghiamoci pure, lasciamoci andare senza precisa posta in gioco all’evoluzione dell’interazione tra me e lui. Per allontanare gli spettri del passato. Per dimenticare il senso di oppressione ottusa e affilata al contempo dagli scampoli di versi che si agitano ancora nella mia testa:

«Meditate che questo è stato:/Vi comando queste parole./Scolpitele nel vostro cuore/Stando in casa andando per via,/Coricandovi alzandovi;/Ripetetele ai vostri figli./O vi si sfaccia la casa,/La malattia vi impedisca,/I vostri nati torcano il viso da voi» (Levi 2005: 7).

Una presenza, quella di Emanuele, dunque, per dimenticare ciò che ho visto nel museo-lager, la sensazione ossimorica di pieno-vuoto, di straniamento interiore dalla mia vita, di morte in agguato dietro ogni angolo delle baracche di Auschwitz. Di spaesamento, ruggine interiore, tentativo ridicolo di rivivere alcuni passi di Levi sul luogo: se non altro, perché il complesso di Monowitz, dove era stato assegnato Levi, non esiste più, cancellato dagli uomini in guerra e dal tempo trasformatore. Qui, a casa, invece, che faccio per prendere le distanze dall’immaginazione del male? Con una leggera spinta del piede nudo, riesco a spedire dall’altra parte del salone La natura della natura, il bel libro di Morin che tenevo ancora in mano, poi posto con uno scatto felino per terra, in attesa di una mia decisione sul da farsi. Mentre compio con deliberata lentezza questo atto – forse, con studiata flemma, proprio per sentirmi meno in colpa con il lavoro arretrato da ‘portare a termine’ – dico a me stesso che rimango, nel mio piccolo, in argomento: «il problema della relazione ordine/disordine è di livello radicale o paradigmatico: la definizione di una tale relazione controlla ogni teoria, ogni discorso, ogni prassi ed evidentemente ogni politica» (Morin 2001: 82). Tutto sommato, anche il quotidiano più infimo è attraversato dalla continua traduzione di ordine in disordine e viceversa. Lo è anche ciò che tendiamo a racchiudere monoliticamente nel concetto di straordinario o estremo. E, poi, ripensandoci, cosa vuol dire esattamente ‘portare a termine’ o ‘arrivare a un punto’? È più adeguato, per me, in questo momento di greve pesantezza soprattutto, indugiare nel divenire dell’ininterrotto che non chiede con insistenza di pervenire a uno scopo. Semmai, se proprio si vuole arrivare da qualche parte, sarebbe meglio dire ‘mettere in relazione’: la piacevole mattinata che mi appresto a passare spensierato con mio figlio, i libri che sto leggendo con intenzionale disordine, di proposito aperti qui e lì per le stanze come a voler segnare un percorso materiale dell’ideazione, il volumetto che sto mettendo a punto sui pensieri in azione e che non riesco per l’appunto a trasformare in un blocco immagine definitivo, il mio sofferto passaggio di qualche ora ad Auschwitz dopo la conferenza sul turismo a Cracovia, la mia insoddisfazione per il baronale sistema universitario. Tutto tende a confondersi. Come trasformare il disordine caotico delle mie sensazioni in quieto ordine, in appagamento non provvisorio? Non saprei. Sono però consapevole dal fatto che ciò ha ripercussioni sulla mia identità. Io, se solo potessi, desidererei riuscire a trasporre per iscritto, qui e adesso, la sensazione conseguente all’apertura di un varco, di una immersione nel passato e di un lento riemergere in superficie: affetti e percetti che mutano, tutti, la solidità imperturbabile e apparente di un ‘io’ “in una soglia, in una porta tra due molteplicità” di primo acchito incomparabili (Deleuze, Guattari 1980: 305).

Forte di questo presupposto – o scappatoia? – mi tuffo allora, senza pensarci su due volte, nel quotidiano: mi immergo nella piacevole sicurezza del gioco con mio figlio, nel fresco tepore dell’aria mattutina, confondendo il mio corpo con i raggi lunghi del sole che reclama già l’attenzione della mia coscienza intorpidita dalla notte trascorsa a leggere Dark Shamans di Whitehead, ad ascoltare in televisione il programma sui Rolling Stones, a scribacchiare qualche appunto fresco prima che la memoria si affretti a seppellirlo nella cintura di sicurezza di cui avrei ora bisogno per salvarmi dall’espansione verso l’esterno del senso di vuoto e dalla sua trasformazione in aria compressa sulla superficie del mio corpo. I ricordi recenti legati al mio passaggio a Auschwitz si mescolano inevitabilmente con il quotidiano. Niente è più lontano, per me, in questo momento, dalla “rana d’inverno” di cui parla Levi nella poesia che introduce la sua narrazione sulla vita vissuta penosamente in un campo di concentramento al quale è riuscito a sfuggire per un fortuito concorso di circostanze. Fortunatamente. Non ho freddo, non soffro la fame, non lavoro nel fango, qui, a casa mia. Sarei tranquillo. Sento soltanto qualcosa di strano intorno a me, nello stomaco e al petto. Eppure, Se questo è un uomo riletto – per l’ennesima volta, per prepararmi psicologicamente alla visita del museo-lager, per anteporre l’apparente distanza del testo alla prossimità del vissuto, per prendere tempo e accumulare riserve di vita da spendere al momento opportuno, per costruire scopi molteplici al fine di distogliermi dalla compresenza percepita di intrecci conflittuali – prima ancora di partire mi ha proiettato, una volta di più, in un mondo di sensi estremi e sfuggenti che opprimono «come un coperchio sull’anima che geme» (Baudelaire 1983: 72). Cause e nessi continuano tuttavia a sfuggirmi. Termini quali “razionalità” e “sistema” non trovano il mio ragionevole consenso interiore. Il male fa sistema? La violenza ha una sua razionalità? Il quotidiano tende a prevalere con la forza dei suoi automatismi? L’anima geme. La sensibilità protesta, la ragione cerca cause e connessioni. Come ribadisce Baudelaire,

«l’anima mia […] sente nell’aria perdersi il suo fievole fiato/come il rantolo sordo d’un ferito, scordato/sotto un mucchio d’uccisi, che già immobile langue/ fra immani sforzi, in riva a un gran lago di sangue» (Baudelaire 1983: 70).
 Al passeggio per il campo (foto Montes)

A passeggio per il campo (foto Montes)

Lasciamo parlare la poesia, senza dimenticare i nessi della ragione. Dovrei, se fossi capace, lasciare prendere il sopravvento alla poesia, disordinatamente, mescolando altrui riflessioni e mie espressioni. Il rimando indefinibile tra testi e vissuto si fa, solo a ripensarci per un attimo, incalzante nella mia coscienza: elementi del testo di Levi si mescolano alle mie impressioni provate a Auschwitz; così come, simmetricamente, i miei pensieri in azione a Auschwitz si perdevano, appena ieri, sulle tracce di possibili percorsi raccontati da Levi. Per poco. Meno male. Emanuele torna per buona sorte alla carica. Mi mostra alcune carte con figure di strani mostri. Io gioco per non pensare. Scrivo sul gioco per prendere tempo. Mi rendo conto che l’ipotetica narrazione che avevo in mente per il mio passaggio a Auschwitz prende un’altra piega, va per un altro verso, imprevisto, si radica nell’intimità di casa mia. Per difesa. Racconto il mio presente, a casa, per tenere a bada il malessere percepito nel museo di Auschwitz. Sì, perché questa è l’insegna che accoglie i visitatori del campo di concentramento. Ne capisco le ragioni: ciò che è stato, per quanto terribile – anzi proprio per questo – deve diventare parte integrante della memoria. A futuro monito. Non me lo aspettavo, ma dovevo prevederlo: il campo di concentramento è un luogo che appartiene in parte al passato, adesso in parte sostituito dall’opera di mantenimento dell’uomo. Come qualsiasi altro museo. Richiede l’intervento dell’uomo. È giusto che sia così. Ma sono sorpreso. E lo sono ancor di più quando mi incammino verso l’entrata vera e propria del campo. Come succede spesso, i testi precedono l’esperienza diretta e l’orientano. Comunemente, si crede che l’esperienza vissuta venga prima e la consapevolezza segua: prima l’‘essere sul posto’ in prima persona e poi la ‘conoscenza che ne deriva’, con la relativa ‘trascrizione scritta’. Nel mio caso, non è andata così. La mia immagine mentale di Auschwitz era in bianco e nero. Leggendo i testi dei sopravvissuti, vedevo gli spazi che li circondavano senza colore. Prima di partire per la Polonia, mi ero inoltre messo a guardare alcune immagini tratte da un libro contenente tante foto su Auschwitz (Baxter 2009). La prima impressione che ho avuto entrando nel campo di concentramento è stata quindi di totale spaesamento rispetto a questa immagine mentale che avevo acquisito lentamente nel mio al di qua. Il campo era immerso nel verde, gli uccellini cinguettavano, io passeggiavo come se fossi in aperta campagna a contatto con la natura. Pace e silenzio si mescolavano. In apparenza. Perché, una volta entrati nelle baracche, riprendeva l’esposizione della morte, dei resti, capelli, uniformi, valigie. Il bianco e nero non sfumava nel grigio indistinto delle foto che avevo visto: il grigio, che pensavo tale, era invece a colori, oggi, a Auschwitz con la bella giornata assolata. La mia esperienza del campo di Auschwitz rimarrà quindi legata – per sempre? – a questa unione di sensazioni contraddittorie proveniente dalla mia immagine mentale acquisita attraverso le foto e dall’esperienza vissuta in prima persona, strana e inattesa. Se dovessi sintetizzare la questione in una parola, utilizzerei la figura dell’ossimoro: gli elementi in contraddizione convivevano, producendo, anzi, una sorta di tensione generale, di indecisione.

 No way out (foto Montes)

No way out (foto Montes)

Il fatto è che, sul posto, i colori facevano a pugni con il grigio di alcuni oggetti e con la rappresentazione solitamente in toni sfumati della morte. Mi muovevo continuamente in un modo bipolare, nella compresenza di elementi opposti: da una parte, i toni sfumati del grigio e del bianco e nero a cui ero abituato grazie alle foto; dall’altra, i colori del verde circostante, gli alberi e il cielo attraversato dal blu intenso e dalle nuvole invadenti e vivaci. Questa oscillazione tra il grigio e il colore vale un po’ per tutto a Auschwitz. Il dolore, si sa, non può prendere colore: va rispettato con i toni del grigio. Persino la guida che ho comprato all’ingresso, con tante fotografie e didascalie, non sfugge alla regola: è in bianco e nero. L’immagine dell’umano malgrado tutto, di cui parla Didi-Huberman (2005), è veicolata da alcune regole di rappresentazione del dolore, dai modi di presentazione dell’essenziale che è necessario tramandare affinché la memoria sia tramandata in un museo di questo tipo. L’interno delle baracche segue la regola: è rigidamente concepito in toni smussati, grigi, graduati. Non potrebbe essere altrimenti. Si scontra tuttavia con il procedere ossimorico delle mie sensazioni. Io, da parte mia, decido deliberatamente di non dare un ordine alla mia visita. Procedo spinto da elementi casuali, lasciandomi trasportare da una razionalità improvvisata, da ciò che sento sul momento. Faccio tante foto. Questo sì, intenzionalmente: per pensare, più che tenere traccia del mio passaggio. Mentre fotografo, infatti, la mia mente è più libera, lascia scorrere fluidamente, lascia correre all’impazzata. Come se non fossi io. Mi si fiondano, così, in mente – repentinamente e al di fuori del mio stretto controllo cognitivo – alcune parti del testo di Se questo è un uomo in cui, accanto ai fatti terribili, Levi racconta pure il quotidiano, la vita stranamente vissuta nel campo come se l’ordinario fosse possibile persino in un luogo d’eccezione. Una frase mi stordisce: «Noi avevamo creduto che ogni cosa sarebbe stata preferibile alla monotonia delle giornate uguali e accanitamente lunghe» (Levi 2005: 105). E questo dà forza alla mia idea che ordinario e straordinario, ordine e disordine, fatti estremi e più regolati, dovrebbero essere studiati insieme, secondo le reciproche forme di smussamento dell’uno nell’altro. È infatti importante capire, oggigiorno, come l’ordinario si innesti nello straordinario, e viceversa. Questa ipotesi dovrebbe valere pure per la violenza ordinaria e il suo intreccio con quella genocidaria. A questo riguardo, Scheper Hughes ha parlato di una connessione, di primo acchito sconcertante, tra genocidi e violenza ordinaria:

«La ragione per cui ho introdotto nei discorsi sul genocidio le esperienze quotidiane, normative di reificazione, spersonalizzazione e morte resa accettabile è dovuta al fatto che così ci si può aiutare a meglio rispondere alla domanda ‘Che cosa rende possibile il genocidio?’. Nella mia idea, il genocidio costituisce parte integrante di un continuum, discretizzato socialmente per gradi, spesso vissuto dai carnefici, dai collaboratori e dal pubblico – finanche dalle vittime stesse – come un evento atteso, ordinario, persino giustificato» (Scheper Hughes 2002: 373).

L’ipotesi sul continuum della violenza andrebbe, secondo me, vista di pari passo con quella di Goffman secondo cui le istituzioni totali, quale che esse siano, tendono a produrre meccanismi di esclusione e di violenza simbolica e materiale (Goffman 1968). In altri termini, sfumare la distinzione tra violenza ordinaria e straordinaria dovrebbe procedere di pari passo con l’indagine sulle varie istituzioni che generano internamento, persino le più innocue apparentemente, quali potrebbe essere un normale ospedale o un comune pronto soccorso. I pizzicotti di Emanuele mi riportano alla realtà. Quale delle due? Il museo-campo o casa mia, il testo di Levi o la mia narrazione, le foto o lo scrivere? Emanuele vuole guardare i cartoni insieme a me. Ci piazziamo davanti la televisione, per terra, braccia dietro, gambe avanti, incrociate. La guardiamo. Alle acrobazie del pesciolino che sfugge al pescecane, ridacchiamo. Sembrava non farcela, il pesciolino rosso, allorché gli eventi prendono improvvisamente una piega del tutto diversa, e lui si salva. Come la mia narrazione, tesa a raccontare Auschwitz, ma costantemente in fuga invece verso il presente, gli affetti, l’intimità della casa. Chi lo avrebbe mai detto? Il pescecane è rimasto con un palmo di naso. Succede. Il debole l’ha avuta vinta. Chi se l’aspettava?

Allora e adesso (foto Montes)

Allora e adesso (foto Montes)

Guardo fuori la finestra. L’estate è già arrivata, in punta di piedi, con tutta la sua forza di attrazione. Intanto, Emanuele propone qualcos’altro. Vuole disegnare gli animali sul cartoncino e ritagliare le sagome. Disegniamo e ritagliamo. Vuole giocare a nascondino. Mi catapulto dietro il divano, a un pelo dalla pila di libri sul genocidio e la Shoah, ammucchiati alla bell’e meglio, prima di partire per la Polonia, recuperati da un paio d’anni di polvere. Emanuele vuole giocare e giochiamo. Vuole guardare i cartoni e ci stravacchiamo davanti la televisione. Vuole disegnare gli animali sul cartoncino e ci muniamo di pennarelli. Vuole giocare a nascondino e non la finiamo più. Facciamo a turno. Saltiamo da una parte all’altra di mobili e sedie, libri e strumenti musicali. Mettiamo scompiglio in casa. Il disordine è dappertutto. E ciò che ho visto a Auschwitz è invece tremendamente ordinato: terribile, ma ben ordinato. Forse, avrei preferito vedere un po’ più di disordine, benché simulato. Magari avrei voluto solo un po’ di quel fango e di quei cavi elettrici di cui parlava Levi e che gli impedivano il libero corso del pensare: «Finché si cammina non c’è tempo di pensare, bisogna badare di non togliere gli zoccoli a quello che zoppica davanti e di non farseli togliere da quello che zoppica dietro» (Levi 2005: 92). Ripensando a queste frasi di Levi, mi viene pure da pensare alla storia delle persone comuni, meno importanti, alle forme di storie più adatte a rappresentare il genere umano. Dopo Auschwitz, non è più cosi scontato pensare la storia come un miglioramento inarrestabile; dopo Auschwitz, bisogna inoltre prendere in conto, in qualche modo, in qualche misura, le ferite inferte dalla violenza e la presenza del male all’interno e all’esterno dei sistemi culturali. Anche per rispetto agli altri genocidi, meno ‘istituzionalizzati’ simbolicamente di quello degli ebrei, perpetrati prima e dopo Auschwitz (si pensi agli indiani d’America oppure, in un altro contesto, si ricordino gli armeni). Tra le altre cose, si dovrebbe mettere pure l’accento, sempre più, sulle storie di vita individuali, di persone ordinarie, sottoposte a eventi straordinari: alle diaspore, migrazioni e internamenti in campi per profughi. Un fatto è certo. Da un punto di vista antropologico, non è più possibile definire le culture con una figura retorica quale l’enumerazione (à la Tylor) contenente elementi tutti in positivo o con una metafora (à la Geertz) che lascia troppo spazio all’interpretazione individuale e tiene poco conto del valore differenziale, positivo e negativo, degli eterogenei elementi culturali.

 Resti (foto Montes)

Resti (foto Montes)

Un insegnamento che si dovrebbe trarre dal passato riguarda i tragici fatti odierni, cercando di porvi ‘umanamente’ rimedio: i processi di disumanizzazione e di violenza a cui sono sottoposte intere popolazioni in fuga dalla guerra, le masse di rifugiati sottoposte a penose umiliazioni, i migranti desoggettivizzati nel processo di spostamento. Più concretamente, non bisognerebbe lasciarsi cogliere alla sprovvista, individualmente e collettivamente, da questi fatti tragici odierni: sia prima che questi fatti accadano sia nel corso degli eventi, ci si dovrebbe opporre a questi processi di disumanizzazione con altrettanti e opposti provvedimenti tesi a riequilibrarne gli effetti negativi, abbandonando una mentalità generalizzata tesa più al profitto che al rispetto umano. Se non lo si fa, credo, è proprio perché un ‘atteggiamento economicista’ si trincera dietro frontiere materiali e simboliche, nonostante gli insegnamenti che la storia ci trasmette. È necessario opporre un ‘orientamento culturale’ (il riferimento va a Mary Douglas) fondato sul rispetto (e per il rispetto delle differenze) a un ‘orientamento culturale’ fondato sulla logica dell’indifferenza e del radicamento in valori esclusivi, autocentrati, stereotipati. Che fare di più? Io, nel mio piccolo, vorrei continuare a mettere in luce le convenzioni implicitamente accettate nel mondo ordinario per renderle meno tacite e superare gli automatismi mediatici e politici che ce le fanno accettare in quanto tali. Vorrei, da antropologo, capire in che modo l’ordinario contiene tracce di straordinario (o di estremo) e, viceversa, in che modo lo straordinario (o l’estremo) viene smussato in dato ordinario, accettato, mediaticamente e irrimediabilmente divenuto senso comune. Vorrei continuare a pensare e scrivere per decentrare me stesso e categorie aprioristicamente prestabilite o imposte. Vorrei, in sostanza, persistere nella ricerca del decentramento di alcuni automatismi che i flussi mediatici e politici fanno sovente passare per dati assodati. Anche poeticamente, lo vorrei, con le dovute sensibilità e razionalità, immaginandomi soglia mobile tra molteplicità in divenire.

Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015 
Riferimenti bibliografici
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Montes S., “Les structures de la réception et les passions du traducteur. D’une note de Levi à une sémio-anthropologie de la traduction”, in Studia Romanica Tartuensia, n. V, a cura di S. Montes, T. Lepsoo, K. Talviste, Tartu Ülikooli Kirjastus, Tartu, 2007: 215-271
Morin E., Il metodo. 1. La natura della natura, Raffaello Cortina, Milano, 2001 (1977)
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.

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