di Maria Rosaria Di Giacinto
Aporia della Storia
Da un anno a questa parte, ovvero dall’esplodere dell’influenza da Covid-19, la retorica dell’emergenza e dell’invasione sembra essersi attenuata [1]. Altri sono i temi che riempiono le pagine dei giornali, altri i perni su cui costruire il consenso dell’elettorato: le corsie d’ospedale e le sale del potere hanno preso il posto dei barconi sovraffollati in mare aperto e dei volti senza nome dietro al filo spinato. Nonostante ciò, il movimento, su media e larga scala, dei profughi non ha cessato. Poiché si è in presenza di un fenomeno di lunga durata, il termine emergenza risulta inadatto [2], ma se si guarda da una prospettiva macro si evince il bisogno di occuparsene in maniera prioritaria.
Il quadro, infatti, è tutt’altro che confortante. Attualmente, nel mondo, gli sfollati sono 79,5 milioni, di cui il 40% non ha raggiunto i 18 anni di età [3]. Alla maggior parte di essi è pericolosamente preclusa ogni possibilità di istruzione, salute, cittadinanza, libertà e lavoro e interdetto il movimento, situazione che sta avendo un peggioramento a causa dell’espandersi del Coronavirus [4].
Formalmente, ogni individuo sulla Terra gode di diritti fondamentali, inviolabili e inalienabili. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, infatti, gran parte degli Stati si impegna a collaborare attraverso gli organismi sovranazionali per la loro tutela: il 10 dicembre del 1948 viene sancita la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il 14 dicembre del 1950 viene fondata l’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR), il 28 luglio del 1951 viene stilata la Convenzione di Ginevra. Grandi passi che sembrano tracciare un futuro di pace, rispetto e apertura verso l’altro. Si manifesta, a livello globale, il desiderio di una sana tolleranza, la spinta ad affermare l’appartenenza a un solo genere umano nonostante le diversità, ad andare oltre la nazionalità e a riconoscere il diritto di ciascuno a un’esistenza sostenibile. Certamente, la Guerra Fredda degli anni successivi rende difficile l’applicazione di questi principi e, sebbene sia vivo il ricordo della carneficina dei due conflitti mondiali, nuove divisioni e pesanti guerre, ideologiche e fisiche, separano e sfigurano luoghi e persone.
A distanza di più di mezzo secolo dai propositi di pacifica convivenza e miglioramento delle condizioni di vita di ogni individuo, sembra si sia giunti a un vicolo cieco: un’aporia del presente che vede la formale adesione degli Stati alle Convenzioni che tutelano la dignità della persona e più o meno celati accordi bilaterali e pratiche di fatto che ne ledono l’integrità. Un paradosso, ma anche un circolo vizioso che, invece di estirpare il problema alla radice, fornisce rimedi temporanei ed inefficaci che lo alimentano. Si pensi al Memorandum tra Italia e Libia del 2017 che l’attuale governo non ha messo in discussione o alla cooperazione tra l’Unione Europea e la Turchia del 2016; al muro che divide gli Stati Uniti dal Messico, che dagli anni di Nixon fino alla presidenza Trump non ha cessato di incrementarsi; alle intese tra Australia e Stati come Papua Nuova Guinea, Repubblica di Nauru, Cambogia e Malesia, stipulate a partire dal 2011, che destinano i migranti a luoghi segregati e non sicuri. Nonostante i cosiddetti Paesi sviluppati, settant’anni fa come oggi, mantengano l’adesione ai trattati internazionali di tutela della vita, si macchiano di crimini contro l’umanità, quando sono conniventi con governi che attuano reclusioni forzate, deportazioni, sevizie, torture e abusi, quando praticano il mancato soccorso in mare o incoraggiano deviazioni verso enclave inospitali del pianeta. Eludendo le proprie responsabilità, «l’Europa [e con lei gran parte del Nord del mondo] continua a comportarsi come se il naufragio fosse un elemento della natura nascondendosi che è invece della Storia» (de Spuches, 2013: 112).
La lenta, ma inesorabile, sussunzione dell’individuo a capitale fa sì che non tutte le vite abbiano lo stesso valore (Butler, 2013). Se è la corsa al profitto a guidare agende nazionali e internazionali, se è l’ossessione per il gradiente di crescita positivo a far pendere l’ago della bilancia, l’alterità diventa minaccia, l’esistenza statistica e i diritti fondamentali possesso formale di cui è impossibile godere. Si percorre in loop un nastro di Möbius, in cui al moltiplicarsi esponenziale di (dis)accordi politici in materia di migrazione corrisponde una mancata volontà di risollevare le sorti materiali e simboliche non solo di chi si mette in viaggio, ma dell’umanità intera.
All’interno di questa cornice, che valore è ascritto alla vita in movimento? Che nome dare alle speranze e ai drammi che, seppur inseriti all’interno di dinamiche strutturali quantitativamente significative, vengono vissuti singolarmente? Che presente vivono quei soggetti altri che fino a ieri animavano una grossa fetta del dibattito mediatico?
Vite in movimento e frontiere linguistiche
Il movimento è inscritto nell’esistenza. Ogni giorno, migliaia di persone si muovono per i più svariati motivi. La vita di ognuna di esse incrocia i grandi cambiamenti della Storia, serbandone a livello del corpo carezze e cicatrici.
Nonostante la stretta pandemica del Covid-19 abbia visto gran parte della popolazione globale costretta per diversi mesi all’interno delle proprie abitazioni, resta chiara l’impossibilità di pervenire a un controllo totale sul territorio che inibisca le molteplici attività umane. La facoltà di moto, inoltre, non può essere praticata in egual modo da soggetti differenti (hooks, 1998): sebbene si esplichi ormai da secoli a livello internazionale, che si tratti di un colletto bianco in carriera del Nord o di un profugo di guerra del Sud del mondo la differenza risulta sensibile. La globalizzazione, infatti, ha posto ciascuno in condizioni di estrema precarietà, ma la volontà di muoversi è spesso legata a fattori sistemici, oltre che a valutazioni di tipo personale (Staid, 2020).
Ad un anno dalla comparsa del virus, se da un lato l’assenza di politiche chiare ed efficaci si traduce ancora nella riduzione degli spostamenti al minimo indispensabile, dall’altro ha avuto un prezzo alto sulla pelle dei più fragili [5]. Fra di essi stanno coloro i quali ogni giorno si mettono in moto alla ricerca di un avvenire migliore: i cosiddetti rifugiati, i migranti ambientali e i migranti economici. Per questi soggetti in carne e ossa il confine segnato da tali classificazioni è il confine di attraversamento delle frontiera, che diventa non solo linea immaginata e performativamente attuata tra gli Stati, ma limite di separazione tra la vita e la morte. Prima di tutto, dunque, non bisogna trascurare i risvolti criminalizzanti, marginalizzanti o paternalistici di determinate categorie concettuali, più o meno consapevolmente selezionate. È poi utile comprendere se sotto la dicitura migrante non si celi una moda [6] o non si tratti dell’intento di desoggettivizzare, stereotipare e omogeneizzare la diversità, ovvero di una negazione della singolarità, della libera scelta, dell’agency individuale e, soprattutto, delle legittime ragioni di richiesta di accoglienza in un Paese diverso dal proprio. Come scrive Dal Lago a proposito dell’immagine ascritta all’altro, spesso straniero:
«gli stranieri giuridicamente e socialmente illegittimi (migranti regolari, irregolari o clandestini, nomadi, profughi) sono le categorie più suscettibili di essere trattati come non-persone. Si pensi soltanto, per cominciare, ai limiti che il linguaggio pone alla rappresentazione di queste categorie di esseri umani. Come si è già visto a proposito dell’immagine dei migranti nella stampa e in generale nei media, uno straniero sarà volta per volta un “extracomunitario”, un “immigrato”, un “clandestino”, un “irregolare” – categorie che non si riferiscono mai a qualche autonoma caratteristica del suo essere, ma a ciò che egli non è in relazione alle nostre categorie: non è europeo, non è un nativo, non è un cittadino, non è in regola, non è uno di noi. A partire da questa opacità linguistica, che corrisponde a una totale invisibilità sociale si pongono le premesse perché egli non sia una persona e quindi possa essere letteralmente neutralizzato» (2012: 213).
Vi sono, in questo passaggio, due punti controversi che riguardano la «totale invisibilità sociale» del migrante e il suo «essere letteralmente neutralizzato». Queste due espressioni rendono bene la forza con cui l’intolleranza mira all’annullamento concettuale e materiale dell’altro attraverso la negazione, ovvero piuttosto che sottolinearne le caratteristiche, ne evidenzia le mancanze: una sorta di vacanza ontologica, come si fosse al cospetto di un vuoto, di un’assenza di civiltà. Si tratta, però, di un’operazione vana e mai pienamente realizzata: ogni singolarità e ogni società, infatti, dona il proprio contributo al mondo e non potrà mai essere annullata in toto, a discapito dei tentativi di minimizzarne gli effetti. D’altronde, gli esseri umani tutti per funzionare necessitano della cultura (Geertz, 1988).
Nonostante gli sforzi di arginare l’alterità, dunque, la contaminazione osmotica, seppur diluita, avviene in ogni caso. Particolarmente interessante nel pensiero di Dal Lago è, invece, l’idea che la marginalizzazione operi attraverso il linguaggio. Ogni giorno diverse donne e diversi uomini intraprendono lunghi e pericolosi viaggi per motivazioni che vengono variamente classificate. Oltre ogni etichetta, essi portano con sé la speranza di affrancarsi da condizioni di invivibilità, anche se, durante il percorso, troppo spesso trovano un tragico esito. Alla luce di quest’ultimo drammatico dato, si deve tener presente che, in determinati contesti, mantenere categorie che fanno dei soggetti anonimi numeri, possa avere risvolti disumanizzanti. Che si scelga di abbandonare casa a causa di mancanza di cibo, condizioni ambientali impervie o violenza, resta preminente il fatto che in gioco vi sia la sopravvivenza. Non è trascurabile, inoltre, che l’accezione migrante rischia di incatenare in una condizione invalidante di eterno movimento e che spesso e volentieri viene appositamente mantenuto uno status giuridicamente indefinito, così da circoscrivere la capacità di esercitare quei diritti formalmente posseduti.
Quando il ponte diventa frontiera
Senza dubbio, che quotidianamente migliaia di persone siano costrette a fuggire dalle proprie case, a causa di guerre, persecuzioni, carestie o catastrofi ambientali, rende pressante la necessità di agire a livello strutturale su cause ed effetti, pur cercando di non mortificare diversità culturali e singolari. Eppure, molti governanti sembrano muoversi in direzione opposta al buon senso, in nome di momentanei e opinabili benefici economici: praticando la retorica dell’invasione, cercano di accattivarsi il consenso popolare. Ciò non soltanto risulta inaccettabile dal punto di vista etico, ma sembra essere un palliativo inefficace e autodistruttivo. Inibire quel brulicare e mischiarsi di genti che ha dato vita a secoli di varietà umana, al fine di preservare una presunta identità monolitica, rappresenta una riduzione delle possibilità sociali e personali e, di conseguenza, un suicidio individuale e collettivo.
Non si dovrebbe dimenticare, infatti, che parte delle responsabilità delle due guerre mondiali è da ricercarsi nel processo di degenerazione del mito patriottico romantico nel lungo Ottocento. Pericolosi revival nazionalistici, che rispondono nell’immediato alle insicurezze sociali e individuali, rischiano di far sprofondare l’umanità in nuovi esacerbati conflitti. Se piuttosto si prendesse ad esempio il Mediterraneo del 1500, come già scrive Braudel (1953), si riscoprirebbe quel prolifero crocevia di persone, merci e idee: un incessante pullulare di culture e un luogo di incontro tra civiltà. Poiché queste ultime, piuttosto che mantenersi nettamente separate, ineluttabilmente e vicendevolmente si contaminano, l’aver fatto oggi di un mare una frontiera non soltanto offende il rispetto verso l’esistenza, ma contraddice tanto la Storia quanto la stessa integrità culturale che si vorrebbe difendere.
È dalla creazione dello spazio di Schengen che gradualmente si matura l’esigenza politica di costruire un’identità europea (Verga, 2004), ma se un’affinità culturale esiste, è proprio quella plasmata lungo tutto il bacino mediterraneo, protagonista e non semplice sfondo di eventi che hanno coinvolto popoli vicini e lontani. La pandemia in corso irrigidisce i confini nazionali e transnazionali: gli Stati minimizzano il movimento interno e al confine e l’Europa conferma il suo proposito di mantenersi fortezza. La chiusura verso il non-europeo, secondo meccanismi di costruzione identitaria ben noti alla Storia, dovrebbe rafforzare l’appartenenza alla condizione di europeo (Said, 1978), allora perché il tentativo di unità transnazionale del Vecchio continente – chiaro esempio ne è la Brexit – oggi vacilla? In altre parole, se esiste l’altro, in un’accezione negativa di minaccia all’integrità collettiva, perché permangono ulteriori divisioni all’interno della stessa fortezza Europa?
Il presente guarda alla Storia selezionando degli eventi ad esso significativi e ordinandoli secondo un filo logico che dia senso prima di tutto a se stesso: l’approccio all’alterità passa, però, dall’ineludibile filtro della tradizione (Gadamer, 2010). La risposta potrebbe celarsi, dunque, nel fatto che, come detto, non è possibile affermare un’univoca affinità culturale continentale, distinta rispetto alle coste mediterranee del nord Africa. Costruire un’identità europea che accomuni i popoli membri dell’Unione e recida con un taglio netto tutto ciò che si trova a Sud di Lampedusa significa ignorare la varietà e il carattere ibrido dei popoli che hanno animato ed animano tuttora il continente.
Difatti, volendo trovare un’essenza a ciò che un’essenza non ha, ovvero alla cultura, dobbiamo pensare in termini di diversità piuttosto che di uniformità. Dal mondo antico fino a tempi recenti, l’Europa è un concetto vago (Albertoni, 2004) e gli abitanti di questa porzione di Terra vivono delle vicissitudini varie che non è possibile pensare anacronisticamente secondo l’assetto politico odierno: dove oggi sorgono fratture, ieri si intessevano legami, dove oggi è la frontiera ieri era il ponte e viceversa.
Un’altra chiave di lettura, meno ancorata alla tradizione e più vicina al sentire contemporaneo potrebbe essere la precarietà del quotidiano. Le società sono oggi attanagliate da un senso di insicurezza trasversale. Colletti bianchi o sfollati abitano lo stesso presente e, sebbene colpi di coda dell’economia, crisi ambientali o sovvertimenti politici abbiano ripercussioni differenti su soggetti differenti, l’incertezza pare essere un sostrato comune. La flessibilità del lavoro o il dissolversi delle reti di relazione locale, ad esempio, privano l’individuo di chiavi di lettura fondamentali per la costruzione del sé (Lavanco e Novara, 2006). I risvolti a livello collettivo possono manifestarsi attraverso instabilità, tensioni e intolleranza: un fertile humus in cui la demagogia incubata può agire indisturbata.
In questo contesto, i nazionalismi forniscono risposte certe e immediate – seppur vane e autodistruttive –, inquadrando i soggetti entro i contorni rassicuranti della presunta identità granitica. Praticando la chiusura nei confronti dell’altro, però, non soltanto non si preservano comunità e singolarità, ma se ne preclude la crescita e si mette in crisi il potere democratico. Se l’altro è il non-europeo, è facilmente anche il non-italiano, il non-siciliano, il non-palermitano, il non-vicino di casa, il non-familiare: tale recisione delle reti di solidarietà collettiva esige una tale contrazione che la società si ripiega in se stessa, senza margini di miglioramento per sé e per i nuovi arrivati. Il rifiuto dell’alterità si trasforma, così, in rifiuto della parousia, ovvero del dibattito prima del voto (Burgio, 2012): un rischio per la buona salute della democrazia, oggi facilmente individuabile nella ripresa di quei partiti di estrema destra che, senza vergogna, predicano odio e razzismo.
La chiusura dello spazio Schengen, il blocco dei voli e le restrizioni sui movimenti hanno oggi un forte impatto su molte economie e sui molti soggetti fragili. La pandemia mette in luce le già evidenti carenze delle politiche europee in materia di migrazione. Mentre l’UE parla positivamente di un calo del 33% degli arrivi alla frontiera per effetto del Covid-19 [7], apolidi e profughi aumentano in tutto il mondo e la contrazione registrata risulta di breve durata [8]. Il dato potrebbe rappresentare un successo qualora si fosse in presenza di una stabile risoluzione delle cause e non di una cieca opposizione agli effetti di questi movimenti: carestie, guerre e persecuzioni ancora oggi affliggono milioni di persone e larghe aree del pianeta e ciò si ripercuote non soltanto sui diretti interessati.
Arrivati a questo punto, si comprende che, sebbene le pagine dei giornali abbiano diretto la propria attenzione verso nuove retoriche dell’emergenza, le condizioni di chi si mette in viaggio per necessità e volontà non sono affatto migliorate. Quando a dispetto di deserti, prigioni o mari aperti gli sfollati riescono ad espugnare le difese del Nord del mondo e far valere il diritto all’accoglienza, ad attenderli sta un contesto non meno impegnativo. L’esilio comporta il distacco materiale e mentale dalla propria terra (Calculli e Hamadi, 2016), è un trauma personale che assume proporzioni globali, ma è anche il pericolo di incorrere in sfruttamento del proprio lavoro (Soumahoro, 2019), stigmatizzazione sociale e rinuncia all’esercizio democratico (Calculli e Hamadi, 2016).
Per quanto riguarda l’Italia, il Coronavirus alimenta separazioni ed esclusioni su diversi fronti. Come si legge nel sito dell’Istituto Superiore della Sanità:
«la pandemia di Covid-19 ha evidenziato il significato di “salute globale”, non solo mostrando una propagazione secondo i movimenti e le relazioni degli individui a livello globale, ma anche il profondo legame che la salute ha con le altre dimensioni, quali il lavoro, l’ambiente e l’economia» [9].
Le possibilità di cura per gli stranieri stabilmente presenti sul territorio sono al di sotto della media registrata tra gli italiani. Secondo i dati IDOS, la curva epidemica manifesta un ritardo che va dagli 8 ai 10 giorni rispetto a quella nazionale e, di conseguenza, un livello di gravità clinica e rischio di ospedalizzazione maggiori [10]. Tra le ipotesi del ritardo sta una diagnosi meno precoce e, dunque, un ricorso posticipato ai servizi sanitari [11].
Anche sul versante occupazionale la situazione non è florida: nonostante il 30% dei lavoratori stranieri sia classificato come key worker, ovvero impiegato nei servizi essenziali di sanità, assistenza, pulizia – fondamentali non soltanto nel contesto pandemico –, la sanatoria prevista dal Decreto Rilancio del 19 maggio 2020 coinvolge solo 207 mila di essi, a fronte dei 621 mila lavoratori stranieri irregolari. La causa è perlopiù legata alla mancata volontà da parte del datore di lavoro e all’esclusione di settori come la ristorazione, il magazzinaggio o il commercio. Si registra, in aggiunta, la perdita di 13 mila posti di lavoro e l’inasprimento delle condizioni lavorative, con un incremento dell’orario di lavoro – dalle 8 alle 15 ore giornaliere, spesso non registrate – e un decremento della retribuzione [12].
Volendo ragionare in termini utilitaristici, c’è da chiedersi che ritorno possa avere mantenere al di fuori della soglia di vivibilità donne e uomini che donano il proprio contributo al mondo. Che presente e che futuro si prospettano all’umanità facendo di soggetti irrinunciabili, rumore di fondo relegato ai margini della visibilità? Che società si costruisce facendo dell’in-visibilità una in-influenza?
Pensare e agire collettivamente
A distanza da un anno dall’esplosione della pandemia, alla ricerca di un rimedio efficace contro il virus, si rischia di accantonare altre soffocanti presenze che contaminano la società. Se da un lato la retorica dell’invasione smuove dal fondo i liquami neri e decantati dell’odio, dall’altro il totale silenzio sulle tragedie quotidiane di portata locale e globale sortisce effetti non meno devastanti. In questo difficile contesto, probabilmente, sarebbe più utile guardare alla Storia, riscoprire antichi legami recisi e risignificarli nel presente.
Nel lontano secondo dopoguerra, non soltanto a livello internazionale, ma anche a livello locale si sono creati gli anticorpi contro il virus del razzismo. L’Italia stessa ha varato significative leggi contro i crimini d’odio e di apologia al fascismo. Questi strumenti, però, vengono oggi accantonati e si ricercano altre vie che puntualmente portano al fallimento.
Fino a quando si crederà che la diversità sia ostacolo e non possibilità, la società alimenterà e non spegnerà il proprio malessere. Il cerchio della frontiera, irrigidendosi, fomenterà odio e intolleranza non soltanto verso l’esterno, ma anche al proprio interno. Costruire un presente – e un futuro – fatto di tensione, invivibilità e insoddisfazione collettiva minaccia le libertà democratiche di tutti, nessuno escluso.
Che oggigiorno esistano uomini e donne, viaggiatrici e viaggiatori, lavoratori e lavoratrici, ammalate e ammalati che formalmente godano di diritti che nella pratica non riescano ad esercitare, rappresenta un fallimento della società tutta. Per tale ragione, risulta opportuno un cambio di rotta: se una minaccia esiste sta nella logica escludente che fa della diversità un nemico. La Storia è piena di virtuose convivenze e collaborazioni tra alterità: si pensi, ad esempio, ai movimenti ottocenteschi che hanno fatto la fortuna tanto dei Paesi di accoglienza quanto di partenza (Saija, 2006). L’idea che il benessere dell’altro sia il proprio benessere sembra essere una logica più sensata rispetto al «prima i padani/italiani/europei/ecc…». Riconoscere a ciascuno pieni diritti e non concessioni stentate appare una scelta che sul breve e sul lungo periodo incentivi e non inibisca la risoluzione delle sfide globali. Gli strumenti formali per realizzare tutto ciò sono stati concepiti settant’anni fa, ma l’epoca attuale nella pratica sempre più frequentemente li rinnega, riproducendo inutili ed inefficaci panacee.
Per arginare il dilagare di odio e chiusura, bisogna praticare l’altro, imparare a pensare ed agire collettivamente, intessere reti di solidarietà locale e globale, comprendere che il riconoscimento dei diritti dell’altro è il riconoscimento dei propri diritti. Poiché il movimento è inscritto nell’esistenza e esistere, come muoversi, come agire, è trasformarsi, non solo i migranti, nell’accezione moderna data a questo termine, ma ogni essere su questa Terra è in trasformazione. Ogni singolarità in relazione può riscoprirsi, così, ibrida, diasporica, in mutamento, può ritrovare l’altrove dentro e fuori di sé. Come Alessandro Staid ricorda, infatti, il viaggio permette la ri-strutturazione del sé e dell’altro. Questa condizione che accomuna tutti è bene espressa dalla parola tibetana a-Go ba dal duplice significato di essere umano e viandante (2020). Il viaggio, come rinuncia al quotidiano in favore dello straordinario, permette di vivere una dimensione esistenziale liminale, ambigua e sospesa: un sorta di rito di passaggio in cui si attraversano luoghi interiori ed esteriori simili al sogno.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] https://www.ismu.org/coronavirus-e-migrazioni-news-e-media/, consultato il 16 aprile 2021.
[2] https://www.unhcr.org/globaltrends2019/, consultato il 13.04.2021.
[3] https://www.unhcr.org/globaltrends2019/, consultato il 13.04.2021.
[4]https://www.unhcr.org/it/notizie-storie/comunicati-stampa/rapporto-unhcr-il-coronavirus-rappresenta-una-grave-minaccia-allistruzione-dei-rifugiati-meta-dei-bambini-rifugiati-di-tutto-il-mondo-non-frequenta-la-scuola/, consultato il 13.04.2021.
[5] https://www.epicentro.iss.it/migranti/dossier-statistico-immigrazione-2020-pandemia#writers, consultato il 15 aprile 2021.
[6] https://www.lindiceonline.com/incontri/interviste/igiaba-scego/, consultato il 13 aprile 2021.
[7]https://ec.europa.eu/italy/news/20210129_aggiornamento_statitische_migrazione_gli_effetti_del_Covid19_it, consultato il 15 aprile 2021.
[8]https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/med-gli-effetti-della-pandemia-sulle-migrazioni-28469, consultato il 15 aprile 2021.
[9] (Ibidem).
[10] Dossier Statistico Immigrazione IDOS, 2020.
[11] https://www.epicentro.iss.it/migranti/dossier-statistico-immigrazione-2020-pandemia#writers, consultato il 15 aprile 2021.
[12] (Ibidem).
Riferimenti bibliografici
Albertoni G. (2004), Europa in costruzione. La forza delle identità, la ricerca di unità (secoli IX-XIII) Dossier on line sul Reti Medievali: http:// www.rm.unina.it/didattica/strumenti/Albertoni.htm)
Braudel F. (1953), Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino
Burgio G. (2012), La metropoli guerrigliera. Soggettivazione democratica e organizzazione della moltitudine, in de Spuches G. La Città Cosmopolita. Altre narrazioni, Palumbo, Palermo
Butler J. (2013), A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, Roma
Calculli M. e Hamadi S. (2016), Esilio siriano. Migrazioni e responsabilità politiche, Angelo Guerini e associati SpA, Milano
de Spuches G. (2013), Mediterraneo in diaspora, in Migrazioni e differenze di genere a cura di Angelini A., ERMES, Ariccia (RM)
Gadamer H. G. (2010), Verità e metodo, Bompiani, Milano
Geertz C. (1988), Interpretazione di Culture, il Mulino, Bologna
hooks b. (1998), Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano
Lavanco G. e Novara C. (2016), Elementi di psicologia di comunità, McGraw Hill, Milano
Said E. W. (1978), Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano
Saija M. (2006b), Breve manuale di storia dell’emigrazione siciliana, Edizioni della Regione Siciliana, Palermo
Staid A. (2020), Dis-integrati. Migrazioni ai tempi della pandemia, Nottetempo, Roma
Soumahoro A. (2019), Umanità in rivolta. La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità, Feltrinelli, Milano
Verga M. (2004), Storie d’Europa, Carocci, Roma.
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Maria Rosaria Di Giacinto, si è laureata nel 2020 in Studi Storici, Antropologici e Geografici presso l’Università degli Studi di Palermo. Nel 2019 ha partecipato come relatrice al convegno Dai Vespri Siciliani a Strade Sicure e ne ha curato gli atti per la pubblicazione comprensiva del suo contributo: Ricerca sul campo e cambiamenti di prospettiva. Nel 2017 ha partecipato al convegno internazionale Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto, da cui è stato tratto nel 2019 un volume da lei curato e in cui è autrice del saggio Politiche di migrazione irregolare. Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto. Ha, inoltre, svolto le funzioni di ricercatrice e curatrice presso il Museo Eoliano dell’Emigrazione di Salina e preso parte a numerosi scambi all’estero, all’interno di progetti finanziati dall’Unione Europea.
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