omaggio a Guatelli
di Vincenzo Padiglione [*]
Collezioni e Musei che originano dalla distruzione. È il Moderno, Bellezza!
«Gli oggetti quotidiani… proliferano, i bisogni si moltiplicano, la produzione accelera la nascita e la morte degli oggetti [e] sembra che il vocabolario non basti più per nominarli» (Baudrillard, Il sistema degli oggetti).
Dalla soglia di ingresso percepiamo che qualcosa di grave è accaduto. Nel mezzo della navata centrale della sala, il crollo di una vecchia casa (stampelle che come croci spuntano in mezzo alle rovine) ha disseminato sotto e intorno cose che ora ci appaiono antiquate.
La prima opera accoglie il visitatore ricordandogli quello che facilmente viene rimosso: proponendogli di entrare in questo tipo di musei con la percezione di una compiuta tragedia, con la disponibilità ad avvertire negli stessi oggetti non solo bellezza e ingegno ma anche storie di lutto e di strenua memoria: quella realizzata dai collezionisti contro la direzione e il senso della Storia. Siamo al confine fra le rovine del Moderno. Incontriamo Semar, personaggio del teatro tradizionale indonesiano (wayang), accompagnato da uno dei suoi figli. Semar è il buffone sacro della mitologia javanese. La sua ironia veicolata, anche con il linguaggio del corpo, contrasta le idealità aristocratiche e religiose. Brutto, goffo e oscuro, rappresenta il punto di vista realistico dei contadini, lo spirito guida degli umani che tenta di rallegrare coloro che sono nella disperazione e di ridurre l’orgoglio di chi si mostra trionfante.
Come un violento terremoto il Moderno ha lasciato distruzione e rovine. Per l’intensità e la velocità del cambiamento mondi quotidiani compatti e tenaci sono andati in frantumi. Forme di vita a lungo resistenti si sono ritrovate fragili. Sopraffatti da scintillanti merci, oggetti d’affezione (Clemente, Rossi 1999) e strumenti di lavoro sono apparsi di colpo desueti e hanno conosciuto irrilevanza e abbandono.
Senza questo disorientamento epocale – che certamente nel Novecento fu anche progresso, conquista civile e sviluppo economico – non avremmo avuto collezioni estese, sulla condizione contadina, la sua storia, il suo immaginario.
«Avanzi di un mondo di sogno», chiamava Benjamin (2007) le tracce dell’esigenza di un futuro liberato impresse nella prima produzione industriale, nei libri di infanzia presto abbandonati e logori. Senza il sommovimento di vite, lo sradicamento di famiglie, lo spaesamento delle genti, senza lo stravolgimento di habitat quotidiani e il declino di tecniche tradizionali, non sarebbero potute nascere motivazioni e poetiche del risarcimento simbolico come quelle che hanno animato il maestro Guatelli (Clemente, Guatelli 1996). E, come lui, altri collezionisti estremi, artefici di tesori della cultura materiale, protagonisti di un eroico tentativo di salvare le tracce di mondi stravolti in breve tempo (Padiglione 2029). Come angeli della storia, non potendo impedire lutti e disastri, hanno almeno sottratto all’oblio piccole e grandi memorie. Hanno raccolto – non senza azzardo e squilibrio – dai campi di battaglia le pietose testimonianze, ancora vivide, di una sparizione radicale, invitandoci a cogliervi anche altro. A ricercare nei frammenti il vuoto e il mistero di quello che si è perduto, a ritrovare in queste rovine bellezza e ingegno, a ricercare inedite esperienze, accarezzando con sguardo intimo e contemporaneo quelle cose che si erano rese silenti e fatalmente straniere.
InBilico. Cifra dell’allestimento
«Se ogni passione… confina con il caos, quella del collezionismo confina con il caos dei ricordi. Qualsiasi ordine è, proprio in questi ambiti, null’altro che lo stare sospesi sopra un abisso» (Walter Benjamin, Aprendo le casse della mia biblioteca. Discorso sul Collezionismo).
Stare sospesi sopra un abisso, collocarsi in un equilibrio di estrema precarietà, più che valutazioni psicologiche sono modalità di raccontarsi assai ricorrenti nelle storie di vita dei collezionisti. Quelli estremi – da me incontrati nei loro luoghi, tra le loro opere (in mostra le proiezioni video delle loro storie) – che della raccolta hanno fatto un modo di stare al mondo, una ragione passionale di vita, oltre che un impegno defatigante a trovare opere e a offrire loro una casa, eroica seppure provvisoria ricontestualizzazione (Stewart 1992).
Quelli estremi ormai consapevoli che il collezionare li ha resi ad un tempo più protagonisti e più vulnerabili, si sono abituati a convivere con un sé creativo, socialmente riconosciuto strano, bizzarro. Domenico Agostinelli di Roma chiama la sua immensa raccolta il museo del Mondo. «Io vorrei – diceva Ettore Guatelli – un museo dell’estremo ieri all’estremo domani». Theodor Adorno suggeriva in Minima Moralia (2015) di considerare l’estremo la stravaganza, un modo di coltivare la ragione in tempi sconvolti, come quelli che viviamo.
Il suo amico Walter Benjamin attribuiva nel 1929 al surrealista Breton il merito di aver compreso che nelle cose invecchiate si annidano energie rivoluzionarie. Abituarsi a vivere in mezzo a liste e collezioni extra large è un indubbio rilevatore di eccesso, intemperanza, smoderatezza.
Ho raccolto l’invito di Walter Benjamin di gettare uno sguardo dentro la relazione che un collezionista ha con le sue raccolte, documentare i modi in cui (da autore) subisce, ricostruisce e, sovvertendo ordini e classificazioni degli oggetti, rende precari gli argini che pur con convinzione ha edificato per contenere una memoria in piena, per orientare il flusso incessabile della vita.
L’installazione etnografica partecipa dello spazio di incontro, conversione e sperimentazione tra arte ed etnografia.
«È opera totale, lavoro tridimensionale che incorpora oggetti disparati (materiali scultorii, ready-made, video) e caratteristiche del luogo, in una rappresentazione di un loro imprevisto, temporaneo legame; Artefatto con la missione di evocare pensieri, ricordi e sensazioni, progettato per alterare la percezione dello spazio e ristrutturare l’esperienza sensoriale del visitatore, che è stimolato e considerato parte integrante dell’opera» (Padiglione 2016).
In questo caso l’installazione etnografica è un tentativo di riflettere insieme ai collezionisti, sulla loro poesia, sui nostri tic, sulla passione della raccolta come stile estremo di vita. È stata pensata per vivere in simbiosi e nella differenza con l’allestimento museale del Maestro Guatelli: ne cita l’opera e ne offre un commento interpretativo dando voce anche ad altri collezionisti. L’esposizione, situata nella ex Stalla ora rinnovata ed adibita alle Temporanee, raccoglie oggetti di mie collezioni mettendo in tensione gli spazi della navata centrale e delle due gallerie laterali: il caos imponente delle rovine (lo stravolgimento causato dal Moderno) e i minuti tentativi di curare il senso, ricomponendo frammenti in nuovi ordini (il lavoro del collezionista).
La dialettica rovine/collezionismo è centrale e invita a considera l’obsolescenza (ovvero la perdita di valore ed efficienza dei prodotti vecchi rispetto ai nuovi, conseguente alla competitività tra le merci), l’identità culturale del nostro tempo.
La modernità ha reso ogni generazione un mondo a sé, destinato con i suoi oggetti e con le sue idee a ridursi a rovine, a scomparire fatalmente sino a produrre un senso di pervasiva incomunicabilità tra le persone. Le rovine del Moderno costituiscono la materia prima dei collezionisti qui presentati. Gli scarti del mondo contemporaneo rimangono impigliati nella cultura materiale immanente, in un limbo di scarsa visibilità ma di rilevanza fantasmatica, impastati con reliquie, rifiuti, avanzi che tutti noi, a livelli diversi di potere e consapevolezza, siamo costretti ad attraversare e governare.
I collezionisti estremi si ergono, nel loro disequilibrismo, a signori di queste macerie. La loro testimonianza di vita è una battaglia culturale per la memoria pratica, uno scontro dagli inevitabili personali riflessi portato sin dentro le forze del caos, dell’indifferenza, della distruzione, del disordine e dell’oblio perpetuo. Cumuli alti circa mezzo metro (sassi, barattoli, scatole, valigie, cassetti, libri, carte da gioco…) segnalano in modo ricorrente la presenza di entità precarie disseminate nei luoghi del collezionista, come nello spazio espositivo. La loro esistenza costruisce risonanza visiva all’installazione InBilico come tratto culturale della vita del collezionista estremo. I cumoli di pietre sono anche ammassi, cataste, pile che possono rievocare la pietās delle tombe improvvisate lungo le antiche consolari romane. L’installazione etnografica tenta di favorire sguardi riflessivi. Alcuni oggetti esposti appaiono in vari modi trasfigurati (alcuni circondati come da aureola di fili elettrici, altri collocati in scene teatrali e tableaux vivants) come per segnalare la ridefinizione operata dai collezionisti con relativa liberazione dell’oggetto dal servizio precedente e inedita messa in rete comunicativa. Le installazioni ai margini della navata centrale sono un omaggio a due artisti dell’avanguardia novecentesca (Duchamp, Magritte) che hanno reso più vicino il lavoro dell’antropologo e del collezionista a quello dell’artista, ormai divenuto operatore di mutazioni simboliche, di trasfigurazioni alla Danto. In nove movimenti, lungo le gallerie laterali, prendono corpo le narrative dei collezionisti estremi. Un tentativo di raccontarli, non senza azzardo, nei modi in cui amano ritrarsi ovvero caratterizzano e legittimano il loro operato:
“Eroe culturale”, “Possessore posseduto”, “Regista onirico”, “Imperterrito puer”, “Terapeuta”, “Viaggiatore comunque”, “Uomo dei transiti”, “Etno-Archeologo del contemporaneo”, “Maestro delle meraviglie”, “Ultimo enciclopedico”, “Sabotatore”.
Eroe culturale, io vi salvero’ / io mi salvero’
Un vecchio carretto – come quelli che ancora negli anni sessanta giravano nelle campagne e nelle periferie alla ricerca di stracci e ferri vecchi dando in cambio bambole da letto – espone il suo carico. Dentro e appena fuori custodisce in scatole di diverso formato – in precario equilibrio: frammenti di attrezzi, vasellame artigianale, arti di bambole, marionette ferite ed altri oggetti di piacere e di uso quotidiano, ormai abbandonati e solo dai collezionisti ambiti. Antimerci, di quanto il Moderno ha rimosso e i letterati per un verso e i collezionisti per un altro si sono impegnati a far sopravvivere o almeno a documentare.
ll collezionismo soprattutto quello etnografico, trovò vigore nel dare forma e rappresentazione a quel sentimento verso ciò che non era più funzionale. Gambe, braccia, teste di bambole, arti di burattini, sporgono da contenitori occasionali. Tragici lacerti, frammenti recuperati e amorevolmente riposti. Scatole di diversa misura, semi aperte, collocate per terra o impilate un po’ in bilico. Narrano di un accanimento museale, di un salvataggio di oggetti in fine vita. Un desiderio di resuscitare le cose, di ricomporre storie, di far nascere a nuova vita oggetti destinati all’estinzione.
Con in mano un pesante scarpone di legno Ettore Guatelli usava raccontare, durante la visita al museo, che quelli di Lega Ambiente lo avevano ritrovato pulendo il canale e gli avevano chiesto: “lo vuoi?”. E lui con aria furba diceva di aver risposto: “E che lo butto?”.
Ad ascoltarli dappresso i collezionisti estremi si rappresentano come protagonisti di vite bizzarre, piene di sfide incomprensibili ai più. Ricercano gli avanzi che altri scartano, i frammenti che altri rifiutano. Frequentano luoghi liminali e rischiosi. Vincono l’altrui riluttanza e ignoranza. Ottengono gli oggetti grazie ad un misto di sacrifici, competenza, determinazione e astuzia. Riescono senza aiuti istituzionali ad acquisire, sistemare, salvaguardare e valorizzare tesori di opere e documenti dedicandosi da visionari e con un impegno squilibrato a realizzare la propria collezione. Sono queste narrative eroiche, ardue, impossibili imprese di salvataggio nei confronti dei resti di un mondo, che legittimano il collezionare (cfr. Hinsley 1992), e che giustificano sul piano morale e culturale («trasmettere al futuro la testimonianza di tanti aspetti dell’umana civilizzazione») un processo che potrebbe anche essere considerato di appropriazione di cose e memorie altrui.
La bellezza delle cose antiche è da salvare: ci salverà! Il primato dell’antico nel Rinascimento trova una eco nella sensibilità dei collezionisti. Gli oggetti del passato sono ritenuti cose uniche, personalizzate nella produzione e nell’uso. Sono “cose autentiche”, non come quelle moderne, “americane” come si diceva ancora negli anni ‘60. Guatelli decantava l’ingegnosità di umili strumenti e la perfezione di alcuni ritrovati tecnici, desiderava che non si perdesse nulla della civiltà del passato. Anche le maniglie delle bare avevano diritto ad essere conservate. De Pasquale di Piana delle Orme era affascinato dell’ingegnosità dei congegni meccanici della prima metà del Novecento e nei suoi capannoni vicino Latina aveva stipato depositi innumerevoli delle impronte lasciate dalla prima meta del XX secolo. Agostinelli ritiene che le cose antiche, come quelle appartenute a persone defunte, emanino un’energia vitale, che non hanno gli oggetti contemporanei, per la forma, i materiali e il colore. Lineri raccoglie sassi di diversa forma nelle anse dell’Adige e ritiene che siano forme di un antico codice, di una arcana scrittura tutta da ricostruire. Cavaliere Campo di Macerata si definisce un “tramandatore” e nel suo Parco della Fantasia, vicino alla ferrovia, raccoglie con entusiasmo resti del passato Novecento e del contemporaneo appena trascorso
Possessore posseduto. That’s ammore
«Non si può dire se è lo sguardo o sono le cose a comandare» (Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile).
A bocca aperta. Stupore Sorpresa Incredulità Meraviglia Incanto Delusione Sconforto Rabbia. Maschere provenienti da tanti altrove (molte dal Nepal), liberate dal loro originario servizio rituale, possono convocare le emozioni descritte dal collezionista come fondamento della sua relazione con l’oggetto sognato, conquistato, perduto. Passioni trasparenti o celate. Maschere esposte di fronte o nel retro, affiancate da calchi, come ad indicare il segreto potere delle cose di mettere in forma i possessori, di adattare la materia prima.
Come una maschera, come uno stampo, l’oggetto collezionato offre una doppia identità per l’esterno e per l’interno. Modella il soggetto che lo incorpora nei suoi luoghi di vita e ne forma misteriosamente l’habitus. La sua immagine, il suo uso e il suo significato entrano in intimità con l’appassionato possessore.
Acquisire un oggetto del passato o di altra cultura significa collocarlo in un nuovo contesto, ricontestualizzarlo, ovvero farlo rivivere nel presente appropriandosene. Ma in nome di quale virtù il collezionista giustifica agilmente l’arbitrio del possesso e della ricollocazione? In nome dell’Amore, del sentimento che coltiva proprio per quella cosa, e che gli dà il diritto (abuso?) di usarla nella maniera a lui /lei più consona. Ma c’è un risvolto della medaglia. La passione autorizza il farsi mediatore incarnato, una possibile identificazione mimetica.
Il collezionista presenta gli oggetti dando loro voce, parlando a nome di chi li ha prodotti o di chi li ha usati. Traduce spesso con proprie movenze il senso e la funzione per chi non li ha conosciuti. Appropriazione e passione lo hanno reso come un membro elettivo della comunità di un tempo. Possiamo giungere a dire che il collezionista finisce per sentirsi “posseduto dalla cosa”, rimodellato, adattato ad essa e questa percezione lo autorizza a coltivare l’idea che conosce l’oggetto come nessun altro.
Regista onirico. Il tocco magico
«Stracci e rifiuti… ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli» (Walter Benjamin, Passagen Werk).
«Se un poeta moderno dice che per ciascuno esiste un’immagine che fa sprofondare tutto il mondo, per quanti essa non si leva da una vecchia scatola di giocattoli» (Walter Benjamin, Giocattolo e gioco).
Animali a carica fanno la fila per giocare proprio con noi. Altri li osservano seri e impettiti. Altri ancora compiacenti si lasciano apprezzare in un fermo immagine dell’azione o sospesi in equilibrio tra tiranti e molle. Tra tutti primeggia un cavallino a dondolo.
Come in uno specchio deformato ritroviamo un po’ noi stessi. Nella veste di chi agisce e di chi è agito. La proiezione ci torna indietro per commentare il nostro immaginario, le nostre attese, di ricominiciare da capo, quelle riposte nella scatola di legno colma di giocattoli.
Nel “Manuale di zoologia meccanica” in video (regia L. Pizzi, collezione di V. Padiglione) automi di specie animale diventano vitali grazie ad un tocco magico troppo umano. Metafora del collezionista “regista onirico” dei suoi oggetti.
Nel suo regno agisce come un Dio Briccone che anima e distrugge, scherza, monta, smonta e rimonta, le sue creature per gioco e fantasia. Il montaggio di oggetti ed ancor più di classificazioni è – lo suggerisce Benjamin – la cifra del suo operare conoscitivo ed espressivo. E questo suo agire trova il suo meglio se applicato al kitsch onirico, agli avanzi di un sogno, ovvero a collezione di giocattoli come aspirazione a un’edenica felicità.
Il cavalluccio a dondolo, animale che si muove a comando, è il giocattolo per eccellenza e al tempo stesso il prototipo dell’oggetto collezionato. Ha una sua spiccata identità e intenzionalità ma riceve indicazioni, comandi e proiezioni, come il Gioco del rocchetto analizzato da Freud (e da Lacan, de Martino…) nel suo piccolo nipote Ernest che di continuo faceva scomparire ed emergere da sotto il letto un rocchetto legato ad una cordicella.
Ma c’è dell’altro. La “gaiezza straordinaria” di questi animali è traccia di un oltre atteso: è apertura ad un mondo di sogni molto più colorato di quello reale, più vivace e armonioso. È nostalgia di presenze vive mai vissute. È “animazione dell’inorganico” (Bodei 2009:89) come forma di resistenza alla cultura egemone e al primato dell’uso e dello scambio economico. È convocazione delle fantasie infantili, riprese dalle fiabe. Ne Il Tenace soldatino di stagno Hans Christian Andersen narra dell’animazione giocosa dei giocattoli nelle ore notturne quando il bambino, regista dei giochi di giorno, ora dorme sogni lievi o incubi.
Imperterrito puer. Non è mai troppo tardi
«Il nucleo del godimento del collezionista non sembra risiedere genericamente nel possesso quanto nel processo di costruzione di un sistema di oggetti (ricerca, individuazione, acquisto, selezione, ordinamento, classificazione, restauro, esposizione, ecc.), a propria disposizione. È convinzione del collezionista di valorizzare gli oggetti trasformando la loro prosa quotidiana in poesia, in un trionfante discorso inconscio» (Baudrillard, Il sistema degli oggetti).
Burattini monelli si agitano e sembrano interrogarci (con sguardo patetico?) su quale destino intendiamo riservare loro. Da barattoli e scatole ne escono altri come richiamati dal nostro arrivo.
Altri ancora arrampicati sino al soffitto, sospesi in bilico su gabbiette ci invitano a giocare, o a pensare? Comunque a ricordare.
Il collezionismo di giocattoli trova oggi nuovo alimento in quel sentimento (misto) di nostalgia e di preoccupazione che molti adulti manifestano riguardo il radicale cambiamento avvenuto nei modi di giocare negli ultimi decenni del secolo XX, nei giocattoli a disposizione, nel protagonismo o meno dei bambini. Tanti collezionisti di diverse età conservano reliquie dell’infanzia, difendono i simboli di una generazione, dando visibilità ad una memoria spesso più immaginata che vissuta.
La ricerca del giocattolo di una volta configura un ritorno all’infanzia dai molti e talora contraddittori significati: denuncia di un presente vissuto come assenza, negazione delle speranze, delle utopie, delle promesse ricevute e custodite nell’infanzia, coscienza degli alti prezzi pagati al diventare adulti, regressione, oblio, dimenticanza della realtà di ieri e di oggi, estetizzazione del passato e della miseria, desiderio di conservare lo sguardo del Puer.
Nell’immaginario di molti collezionisti estremi la loro raccolta si configura come una specie di orfanatrofio, un asilo, dove vi giungono in condizioni ormai precarie artefatti una volta vissuti. Dove oggetti acquistati a pochi soldi e belli di una bellezza malinconica, si suppongono feriti dalla vita, orfani, comunque rifiutati. Quando questo sentimento si rende pervasivo, si può supporre che parla di noi e dei nostri rapporti.
Ed è ragionevole credere che il collezionista sposti il lutto o le preoccupazioni dal sé o dalle persone alle cose reali o ipotetiche. Ovvero che Nostalgie Risonanze Assenze Promesse di felicità, elaborazioni di ferite e disillusioni vissute trovino nei giochi di una volta o in altri oggetti collezionati una indiretta dicibilità, una forma simbolica, solo in parte occulta di memoria pratica, di elaborazione del lutto.
Molte vocazioni nascerebbero dall’essersi ritrovati-collocati in mezzo tra due epoche (Puccini 2007), chiamati all’impresa di testimone-intermediario per aver preso parte nel corso della propria biografia a grandi trasformazioni storiche e culturali ed esserne uscito indenne, ma non privo di memorie dolorose, che suggeriscono ora sia il memento che il monito.
Salvare/salvarsi il collezionista terapeuta
Omaggio a Renè Magritte, The Therapist (un’interpretazione di V. Padiglione e C. Spiteri)
Una figura arcimboldesca, richiama “Il Terapeuta” di Magritte. È un viandante dal volto celato che porta un messaggio da interpretare. Seduto davanti a noi ha per torace una gabbia aperta. Qui due uccellini, un po’ dentro e po’ fuori, sembrano interrogarci sui segreti e le ambivalenze che custodiamo, sui limiti desiderati e sui paradossali vantaggi dell’illibertà. Che sia questa esperienza il messaggio che il viandante vuole donarci? E che relazione ha con il collezionismo?
La gabbia nel cuore. Solo chi ha viva l’esperienza di un lutto, di una ferita, di una costrizione, può forse recare sollievo. Magritte ha ripetutamente dipinto The Therapist (1937), sempre diverso. L’artista stesso si fece fotografare, nella stessa posa, con una coperta sulla testa e una tela accanto al petto, al posto della gabbia. È possibile che Magritte si identificasse con questa figura e credesse nei poteri restaurativi/riparativi dell’arte?
“Collecting saves my life”. Mi hanno ripetuto molti collezionisti che credono ai poteri terapeutici, riparativi, lenitivi del collezionare. Frugano tra le rovine. Rovistano le macerie. Ricercano oggetti dispersi: narrano storie dimenticate. Non temono disagi e discredito.
Solo chi ha nel cuore la gabbia, chi conosce il disagio dell’illibertà può alleviarne l’altrui? Il disorientamento come mito di fondazione della raccolta. Tra le narrazioni che ricorrono più di frequente vi è la perdita di un affetto e un sopraggiunto spaesamento. Sono memorie traumatiche raccontate proprio dai collezionisti per far capire l’origine e la motivazione della loro passione.
I collezionisti come macchine celibi. Lo sconquasso ovunque prodotto dal Moderno ha convocato una genia di anticoformisti, attratti dal passato, imprigionati in una meravigliosa ossessione, in una gabbia aperta che si sono costruiti. Alimentano un mondo parallelo, che li isola e al tempo stesso offre loro una modalità di relazione, una presenza forte nel mondo. Con il loro agire commentano in modo puntuale l’esperienza di distrazione e di focalizzazione, di libertà e di autocostrizione
Viaggiatore comunque. L’altrove nel mercatino
«Le mie piccole statue e immagini mi aiutano a stabilizzare idee evanescenti, a trattenerle da dissolversi totalmente» (Sigmund Freud, Lettera 20/3/33).
«Nella collezione di antichità di Freud, lavoro e piacere, impulsi precoci, sublimazioni adulte sofisticate fanno tutt’uno» (Peter Gay, Freud: A Life for Our Time).
Valigie old style colme di bambole souvenir. Prede e trofei conquistati a buon mercato. Mementos (oggetti di ricordi, di visioni e di incontri in luoghi esotici) o semplicemente acquisti, in quel viaggiare simulato dentro la propria cultura alla ricerca dell’altrove, con regolare assiduità nei mercatini per collezionisti.
Oggetti sparsi, belli, esotici, misteriosi, indecifrabili, giunti tra di noi mutilati della propria origine e funzione, del loro senso. Da indovinare. Al collezionista spetta di riparare l’iniquità provocata dai mercati globalizzati assumendosi l’onere e il piacere di indovinare provenienze, usi e i significati, come prendersi cura, ricucendo addosso a oggetti giunti nudi e sperduti un nuovo abito narrativo.
Collezioni e Viaggi, reali o vaneggiati che siano, sono territori dell’esperienza assai contigui che non è raro coincidano, o che l’uno simuli l’altro. Appaiono equiparabili in quanto promettono un contatto non rarefatto con storie e culture lontane. O più semplicemente evocano quell’irrequietezza di fondo che spesso anima il collezionista come il viaggiatore (Chatwin ne ha rappresentato un modello). Come cercare in un altrove, nel tempo e nello spazio, immagini per poter comunicare esperienze ineffabili; referenti simbolici per oggettivare l’invisibile (i “semiofori” per Pomian), per riparare vuoti di senso o diradare gli incombenti troppo pieni.
In questa direzione nei processi di trasfigurazione /artitificazione il collezionista incontra e alimenta le poetiche del surrealismo proprio dando enfasi ai cambiamenti di senso che attiva l’oggetto trovato e alla deriva.
Omaggio a Marcel Duchamp “Ruota di bicicletta” (1913). Marcel Duchamp (Subrizi 2008) compera in un mercatino dell’usato uno sgabello e una ruota di bicicletta. Gli piaceva osservare i raggi muoversi come se fossero le fiamme che danzano in un focolare. Gesto concettuale di spostamento del contesto, di denudamento semantico, svuotamento culturale dell’oggetto.
“Scolabottiglie” (1914). Altro oggetto trovato e anche questa volta reso straniato. “Fontana” (1917). Ovvero un orinatoio firmato con uno pseudonimo e inviato ad una mostra. Ready made, oggetti trovati e pronti per essere risemantizzati.
L’artista sembra fare ben poco. Partecipa al flusso della vita e sottrae all’incuria, alla non evidenza, oggetti quotidiani che stanno ultimando il loro ciclo: ne opera un prelievo e uno spostamento; non dissimili da quelli che fa oggi il collezionista. L’effetto allora fu uno sberleffo, un non sense, un gesto concettuale e ironico nei confronti del confine tra vita e morte, tra il soggetto e l’opera. Chi è l’autore dei ready made?
L’uomo dei transiti. Che azzardo!
Grazie all’iconografia popolare scopriamo l’origine dei porcellini salvadanaio. Le immagini devozionali mostrano il maialino che viaggiava di fianco a Sant’Antonio. La sua presenza aveva per molti secoli legittimato nelle comunità rurali la protezione del santo sugli animali domestici e soprattutto l’allevamento in casa del suino. La festa che di solito corrispondeva al giorno del santo, con le conseguenti provviste in salsicce, ventresca, ecc.., avrebbe arrecato alla povera famiglia contadina la speranza di un inverno superabile.
Trasformatisi in contenitori asettici di piccoli risparmi, i porcellini salvadanaio di terracotta, e poi di ceramica, hanno per buona parte del XX secolo costituito un artefatto culturale indispensabile nella formazione morale e sociale del bambino. Abituavano ad un esercizio quotidiano di economia domestica, di controllo dei desideri.
Accantonare lirette, spiccioli, resti per acquisti più importanti, controllare gli appetiti del momento in vista di un progetto ben pensato, avrebbe fatto del bambino una persona morigerata, un padrone di sé in grado di risparmiare per meglio investire (un apprendista capitalista?). Solo quando il desiderio avrebbe prodotto impegno e sacrifici e si sarebbe presentato nella forma di un progetto era allora il momento di rompere il salvadanaio e scoprire la meraviglia celata da tempo nel suo ventre. Integrava questo addestramento in famiglie borghesi l’avvio casalingo di piccole collezioni, francobolli, cartoline, che col passare del tempo (anni ‘50/’60) divennero figurine. Anche qui l’esercizio risiedeva nel risparmiare per scegliere il pezzo ricercato da acquistare o da recuperare attraverso baratti e scambi. Una socializzazione all’impegno, a conoscere in dettaglio gli oggetti, a descriverne la specificità. Ma anche un apprendistato al possesso, alle lusinghe e ai dolori dell’economia di mercato (rarità, domanda e offerta) che si inseriva dentro un’attività ludica mossa dalla socialità degli scambi e dal fascino degli oggetti.
Cumuli di capitale simbolico. Fuoriesce in parte dalla disciplina di questa formazione, la pratica dei collezionisti estremi, il cui inizio data forse nelle raccolte di conchiglie, rospi e altri naturalia. Affascinati dalle trasfigurazioni, dalla magia della dinamica culturale e sociale, dal poter salvare dall’indifferenza o dal macero oggetti a cui nessuno donerebbe credito e valore, attratti dal poter trasformare una res nullius in cosa, in bene, in opera.
I collezionisti estremi partecipano di economie tradizionali di “caccia e raccolta”, del dono, della reciprocità, della elargizione dissipatoria, del colpo di fortuna. I sogni (di pienezza vitale e di abbondanza) giocano un ruolo formidabile del tutto riflesso nell’horror vacui dell’allestimento, nella densa, pacifica coesistenza di oggetti eterocliti. Si intravedono in queste pratiche percorsi alternativi a quelli del collezionismo classico che possono portare esiti puramente naif e ironici oppure concreti in termini di ascesa sociale. Nel senso dell’evidente azzardo di accumulare antimerci, cose inutili, oggetti in disuso, ciarpame, che solo in pochi casi riescono a costituire un capitale simbolico a disposizione del collezionista e del suo proprio prestigio per proseguire e incentivare la sua “opera sociale e morale”.
Etnoarcheologo del contemporaneo. La cosa sexy
A gambe all’aria. Il piatto è servito. Siamo negli anni 60 e un paio di calze qualsiasi entra di diritto nell’immaginario collettivo. Si chiama Omsa e il nome del marchio allora faceva ricordare un famoso jingle di Carosello: l’espressione di meraviglia “Che Gambe!” associata al movimento femminile sinuoso, ancheggiante, allora assai provocatorio. L’audace supporto espositivo di quella pubblicità nei negozi può oggi ben meritare di essere collezionato in quanto documento e artefatto che segna il suo tempo, che mostra coerenza formale e pertinenza culturale con gli anni di avvio della emancipazione femminile.
Un oggetto può restare per tutta la vita più o meno anonimo, meramente utile (un chiodo, un bullone, una molletta), oppure diventare una cosa, un oggetto desiderato. La pubblicità e i suoi artefatti fanno uscire dall’indistinto “il prodotto da acquistare” attribuendogli rilevanza simbolica, creando una stuzzicante enfasi visiva, un certo appeal, erotizzando la scena sociale che si rende effervescente.
Agli albori del consumismo, in piena società industriale, Walter Benjamin percepisce il fascino discreto della moda e chiama “sex appeal dell’inorganico” l’attrazione per le merci, l’abbigliamento. Come un rendere soggetti le cose ovvero, suggerirà Perniola (2004), “cosificare” la persona. La visione degli oggetti come status symbol da ostentare, come simulacri, da esibire per creare differenza, distinzione, appartenenza, è dovuta al passaggio alla produzione di massa, a un consumismo che si articola nei marchi affermati dalla pubblicità.
Il collezionista, come Etno-Archeologo del contemporaneo spia il tempo che passa, le soste, le accelerazioni, soprattutto i ritorni di fiamma. Gioca in anticipo con perspicacia su quale presente si può trasformare in passato, in patrimonio, in eredità (“oggi domani ed è già a ieri”, diceva Guatelli). Conosce la stratificazione temporale e simbolica degli oggetti e scommette sui lasciti dell’obsolescenza programmata. E fa di più: ricerca per la sua collezione non solo la merce ma anche la pubblicità stessa (oggetti e immagini), che ormai passata, ha lanciato il prodotto rendendolo una cosa riconoscibile anche oggi. Del resto non è tanto la riconosciuta efficacia dell’oggetto quanto la sua fama (precoce o successiva) che ne ha fatto un simulacro, e decretato nella cultura visiva il suo inserimento nel rango del vintage. Quel fascino discreto dei simulacri appena passati, quel certo non so che ricercato anche dalla moda retrò dichiarano un interesse ormai di massa a sorvegliare il destino che ci attende torcendo lo sguardo (nostalgico?) al passato, e facendosi aiutare, per ricordare, da oggetti un tempo desiderati, ora acquisibili.
Maestro delle meraviglie. Non cerco, trovo
«La collezione è una forma d’arte come il gioco una forma che implica la redifinizione di oggetti all’interno di un mondo di attenzione e manipolazione del contesto. Come altre forme di arte, la sua funzione non è il ripristino dell’originale ma piuttosto la creazione di un nuovo contesto» (Susan Stewart, On Longing).
«Il davanti è chiaro e rischiarato, ma nessun uomo sa ancora di che cosa è fatto il dorso delle cose, che noi ci limitiamo a vedere, né sa di cosa è fatto il sotto delle cose in cui tutto fluttua. Si conosce solo il davanti delle cose e il lato superiore della loro compiacenza tecnica, della loro amichevole incorporazione del nostro mondo» (Ernst Bloch, Lo Spirito dell’utopia).
Frammenti di motore si trasformano in calciatore. Robottini accroccati da un puer futurista sembrano soldatini. Ciottoli di mare ligure sembrano volti lavorati da Francis Bacon. Assemblaggi, Attrezzi, Brandelli. Ibridi nati per caso.
La pratica artistica del collezionismo estremo: un’ars combinatoria dei residui. Lo sforzo compositivo tende in modo imperioso verso la decorazione o il figurativo. Si vedano del maestro Guatelli le pareti grafiche realizzate con oggetti, cicatrici, ferite, pieghe di una pelle animale antica, come anche il coro dei pupazzetti fatto con ippocastani essiccati. Spesso il collezionista ricrea da frammenti (salvati e ricomposti) nuove vite seguendo un’idea popolare di metamorfosi. È per assegnare agli oggetti possibili nuove esistenze.
La disposizione a collezionare si è intrecciata con la vocazione artistica secondo una modalità che è divenuta un modello tuttora attivo. Pittori e scultori della avanguardia storica usavano esporre negli atelier, oggetti esotici e comuni comprati nel mercato delle pulci. Proprio perché l’arte si spostava verso il concettuale e diminuiva quell’esigenza di realismo che ormai la fotografia poteva pienamente soddisfare, l’atelier assumeva una nuova centralità. Spiare il luogo di lavoro dell’artista avrebbe consentito di meglio comprendere l’ispirazione, resasi nel frattempo più oscura. Nel laboratorio del fare creativo l’artista in azione esponeva tra le sue cassette degli attrezzi statue di altre culture, collezioni di maschere ed oggetti di eteroclita funzione e provenienza.
Più che la Camera delle Meraviglie degli studioli rinascimentali, l’atelier semmai rappresentava quella caotica fucina del nuovo che si alimentava di schegge, resti del passato e del diverso culturale nel frattempo slargato. Luoghi assai amati da surrealisti e cubisti (Gabellone 1977) per l’atmosfera ludica e teatrale dell’acquisto mercanteggiato, per la probabilità di sorpresa, le ricercate coincidenze che prospettavano l’incontro con cose desuete, resti di serie, frammenti espulsi.
La frase famosa di Pablo Picasso - “Io non cerco, trovo” – è rilevatrice di un’attitudine dell’artista come collezionista e viceversa: elogio della sincronicità e della serendipidy, due processi creativi che coinvolgono livelli diversi di intelligenza sensoriale (es. l’immaginazione) e soprattutto la percezione che si è dentro un gioco, dentro un sistema dinamico degli oggetti che alimenta motivazioni, non potendo contare su contenuti e regole prefissate a priori del fare artistico. La maniera di giustapporre oggetti in forme precarie, instabili, ironiche, di accostare opere/documenti dentro cornici improprie e inattese, rinvia alle Camera delle Meraviglie e al Collage Surrealista. Due modi di esporre ben familiari ai collezionisti estremi, accumulatori appassionati di oggetti eterogenei. Due forme dell’esibire che agli Esordi del Moderno (quando il primato delle classificazioni era ancora un miraggio) e secoli dopo all’Annuncio del suo Declino (quando grandi narrazioni e taxa si andavano rivelando inadeguati e contraddittori), hanno offerto rappresentazione all’espansione e al disorientamento culturale, fornendo un’estetizzazione dell’incertezza che ne ha favorito l’appeal e consentito l’elaborazione.
Ultimo enciclopedico. Ad honorem
Cataloghi di mostre, inventari, frammenti di archivi, libri di e su collezionisti segnalano come questi amatori delle cose siano da considerare parte integrante delle comunità patrimoniali, del sistema della cultura e dell’arte, anche in virtù delle richieste costantemente a loro rivolte di difficili expertise. Con il loro agire, con le loro raccolte, mostrano, oltre a tanta effervescenza sociale ed espressiva, un’acuta visione esperta. Basta loro un rapido colpo d’occhio per scegliere se prendere o lasciare un blocco di cose in un appartamento o in una cantina. La conoscenza che producono è spesso inedita rispetto a quella accademica. Frutto di una formazione altra, cresciuta in contatto diretto con gli oggetti, con gli altri amatori, con lo spirito del tempo e del mercato.
Una conoscenza maturata nella pratica, nel rapporto prolungato con le varianti delle cose, con le diverse storie raccolte o impresse nel visibile consumo che un oggetto usato rivela. È “come una Laurea” (da qui le feluche degli universitari anni ‘30-’50 in esposizione) – mi diceva uno di loro – conquistata sul campo, che produce spesso orgoglio e rispetto.
In immagini video assai conosciute Guatelli mostra come si faceva la pagnotta utilizzando il forno e gli attrezzi antichi in esposizione. Non si limita a raccontare, esegue con stupefacente mimetismo i gesti dei saperi incorporati dai contadini. Arriva a farci immaginare il pane appena sfornato, che profuma e scotta, simulando il ritrarsi stizzoso di chi lo tocca e si brucia. La sua performance rivela come la museografia per lui fosse animata da una intenzione multisensoriale, olistica e ricompositiva. Non si esauriva nell’esporre la sola cultura materiale (Guatelli 1999). Se una civiltà (quella contadina) finiva in briciole, per effetto della modernizzazione, questi frammenti potevano trovare proprio nel museo e nelle pratiche didattiche una possibile cura del senso ormai lacerato, una riconciliazione con il passato e il futuro, una ricontestualizzazione all’interno di una visione slargata della storia dell’umanità. Impresa – si dirà a ragione – forse troppo ambiziosa e ormai anacronistica, ma di certo in linea con i primi musei scientifici enciclopedici e con la loro edificante missione universale.
Molti collezionisti estremi sembrano gli ultimi eredi di un enciclopedismo che, per decenni anche nel secolo appena trascorso, musei e pubblicazioni illustrate hanno divulgato e reso popolare. Oggi che il Postmoderno ha decretato l’inesorabile crepuscolo di questo modello culturale anche per i musei naturalistici, se ne possono ritrovare lucenti e significative tracce in luoghi marginali e di resistenza culturale quali le esposizioni non normalizzate né standardizzate dei collezionisti estremi. Personaggi, questi, mossi da una smisurata fame di sapere che li rende, agli occhi dei più, formidabili eruditi, abituati come sono a mettere in difficoltà l’interlocutore, con il sorriso, raccontando incredibili aneddoti tratti da storie antiche, ponendo domande su dettagli di tecniche dimenticate.
Nel coltivare una memoria pratica espansa, perseguono l’aspirazione di ricostruire una conoscenza articolata, oggettuale e universale. Ma proprio i mezzi espressivi messi in campo rendono fatalmente espressiva e ironica l’impresa.
Ironico/accumulatore. Il collezionista sabotatore
Sopra la cassapanca un idolo votivo, giunto da noi in modo misterioso porta un fardello per copricapo. Nell’estremo ovest del Nepal è una figura ancestrale che concede protezione a luoghi, relazioni ed eventi. Lo farà anche qui da noi? Ora sostiene in bilico a mo’ di cappellino una gabbietta toscana da grilli, anche essa non più in uso. Conviveranno in pace? Saranno di buon auspicio?
Antimerci alla deriva, buone da collezionare e buone da pensare. Ma che cosa? Forse al fatto di essere postumi, inattuali, alla differenza che le oppone alla fantasmagoria delle merci del presente.
Accumulatore? Sì. Ma ironico per la capacità di vedersi agire e di sapere che il proprio costruire tesoro ha fragili basi. Meglio ancora il collezionista è un sabotatore. Agisce contro la smemoratezza che fa girare il mondo. Mette sabbia con le sue cose desuete negli ingranaggi del cambiamento (Padiglione 2019). Ancor più lo è quello estremo che ignora o manipola le leggi del mercato, sovverte la durata delle cose, pretende di accumulare e conservare anche il futile e l’inutile, lo scarto e l’anomalo. Lui vi coglie unicità e bellezza. Vecchi utensili, quaderni di scuola, giocattoli in disuso, piume cadute a terra, arnesi superati, giornali impolverati, articoli usciti da cataloghi, maschere ormai tarlate, scartoffie. E quanto di altro che faticando a rimanere in superficie, se non scompare incenerito definitiva- mente, si inabissa nelle case, nelle cantine stipate, improbabili archivi dei collezionisti estremi. Quelli che, se non di tutto, di una ampia tipologia di oggetti vorrebbero coltivare una memoria concreta, ed esaustiva. Perché una cosa, anche la più umile o inutile, è come una vita e ha diritto ad un asilo, a essere conosciuta e (con accanimento) salvata dall’abbandono. Quelli che di prima mattina si agitano nei mercatini domenicali per accaparrarsi ciò che per gli altri è robaccia, immondizia, ciarpame. Loro forse segretamente lo sanno di essere dei disadattati in questo mondo, irriducibili antagonisti.
Ripostiglio del ciarpame, cosi chiama Engels, ne L’Anti-During, tutto ciò che con l’avvento della borghesia e il suo moto innovativo distruttivo ha dovuto giustificare la propria esistenza davanti al Tribunale della Ragione. I vecchi oggetti come le antiche concezioni tradizionali rigettate.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
[*] Presso il Museo Ettore Guatelli di OzanoTaro (Parma) si è conclusa a novembre 2018 l’installazione etnografica: InBilico. Poetiche / Politiche dei collezionisti estremi (2018). È stato per me un incredibile privilegio allestire nei luoghi del Maestro Guatelli una mostra impegnata a interpretare con sguardo etnografico proprio il modo in cui si raccontano coloro che del recupero di oggetti dismessi hanno fatto la loro quotidiana missione, il loro stile di vita.
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Vincenzo Padiglione, professore ordinario MDEA/01 all’Università di Roma “La Sapienza”, ha tenuto sino al 2020 gli insegnamenti di Antropologia culturale, e di Etnografia della comunicazione presso la Facoltà di Medicina Psicologia, e insegna tutt’ora presso la Facoltà di Lettere, Antropologia museale nella Scuola di Specializzazione in Beni Demo Etno Antropologici, Museologia nella Scuola di Specializzazione in Beni Storico Artistici; e Antropologia culturale sia presso la Facoltà di Sociologia e sia presso la Facoltà di Medicina e Psicologia. Ha tenuto corsi in Spagna, Stati Uniti e Brasile. Ha svolto ricerche nell’area del Mediterraneo sull’identità locale e il patrimonio culturale, il brigantaggio, il familismo e la relazione uomo – paesaggio nella caccia e nella pastorizia. Ha curato il progetto e la realizzazione di numerosi musei civici ed è autore di diverse pubblicazioni. L’ultima sua opera è stata edita dal Museo Pasqualino (2020): Musei del sé. Etnografie di giovani in camera, (in coll. S. Settimi).
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