a cura di Piero Di Giorgi
Giuseppe Modica, mazarese, è ormai un artista di fama internazionale, del cui linguaggio pittorico si sono occupati intellettuali e letterati, a partire da Leonardo Sciascia e poi Soavi, Tabucchi e Massimo Onofri e i più importanti critici d’arte come Fagiolo, Giuffrè, Sgarbi, Strinati, Di Capua, Faccenda, Simongini, Troisi. Moltissime le sue mostre in Italia e all’estero, tra cui, nel 2002, una mostra antologica nella sua città natale, dal titolo significativo “La luce è la luce”.
La luce è, infatti, la costante fondamentale che caratterizza l’opera pittorica di Giuseppe Modica, come è stato sottolineato dai tanti critici. É la luce del Mediterraneo, della sua Sicilia, isola del sole ma anche “isolitudine”, come egli la definisce in questa intervista. La luce, nelle sue diverse tonalità, da quella dell’alba a quella sfavillante del giorno a quella più tenue del meriggio e del crepuscolo, si può dire che rappresenta l’unico soggetto in un campo di solitudine, il mezzo attraverso cui si manifestano le cose, s’illuminano gli oggetti. Essa è presente sin dai suoi primi quadri degli anni ’80 (Città di notte, Nella città di notte 1980 e Luce urbana 1981), dove viene rappresentata la desolazione e la solitudine della città. La luce è anche un tutt’uno con la prospettiva, la quale si spinge oltre il visibile, superando il senso di finitudine e coniugando l’esprit de geometrie con l’esprit de finesse, lo spazio reale con quello figurato, e simbolico, il tempo dei vissuti con il tempo cosmico. Ma è anche la luce della memoria, che illumina la nostalgia dei luoghi, come il lungomare della sua Mazara, la freccia del tempo con le sue tracce mnestiche che l’artista porta dentro di sé in una dialettica tra il pensato e il non-pensato, tra il registro del razionale e la sfera del desiderio. Una memoria, non già come fotografia della realtà ma come ristrutturazione e ricostruzione a partire da frammenti di ricordi dell’origine, delle radici, che generano emozioni. La memoria è il passato presentificato. Ma il tempo, nell’opera di Modica, non è soltanto inteso come condensato di ricordi, come durata, come irreversibilità, come tempo entropico che divora e produce disordine ma è anche il tempo come riflessione sulla sua dimensione cosmica, sul senso della vita, sulla finitudine dell’uomo. Non è soltanto nostalgia o “recherche du temp perdu” ma è anche proiezione nel futuro e vibrazione metafisica. Da “Il fluire del tempo” (1982) agli “Slittamenti del tempo” (1983) e fino a “Interno-esterno vanitas” (2005) a “Atelier-Vanitas” (2006 e ancora a “Vanitas” (2007) e “Atelier-Malinconia” (2007), dove, se emergono, da un lato, i segni della freccia del tempo che tutto corrode, lasciandosi dietro macerie, disordine, senso di desolazione e di fine della storia, dall’altra s’intravvede, attraverso l’immancabile mare azzurro, una proiezione verso un possibile e inconosciuto infinito.
Il mare è consustanziale ai vissuti del pittore, è “Finestra autobiografica”, come il titolo di un suo quadro del 1989. É stanza dell’inquietudine” (1990) o “Riflessione improbabile”(1995), perché è il luogo delle radici, del rimosso che sempre ritorna. Il mare, illuminato di luce, restituisce un senso d’infinito, quel mare Mediterraneo, che unisce tre continenti, che sgrana millenni di storia, che racconta la nascita, l’evoluzione e l’intreccio di culture, sedimentate nell’inconscio collettivo, il “continente liquido” come lo ha definito Fernand Braudel.
Il pittore, raramente, è nell’atelier o dentro il quadro come nel famigerato “Las Meninas” di Velasquez, eppure lo si può immaginare immerso tra la tela e i colori, mentre riflette e con lo sguardo rivolto agli spettatori. L’ampia luce viene quasi sempre dal mare ma può venire da una finestra, da un balcone, percorrendo il quadro dall’alto in basso, o da destra a sinistra o in modo circolare. Inondando la scena, trascina lo spettatore verso il quadro.
La luce, come ci ha insegnato Isaac Newton, non si può separare dai colori. La luce del sole è composta di tutti i colori dell’arcobaleno e quella blu viene diffusa molto di più rispetto a quella degli altri colori. L’arte non sconfina soltanto nei territori della psicoanalisi (André Breton, Odilon Redon e poi Magritte, S. Dalì, Mirò, Chagall, Kandinsky, Münch, lo stesso Picasso). C’è un legame intrigante anche tra la fisica e l’arte, che il maestro Modica coglie in pieno. Non a caso un artista d’avanguardia come Otto Piene ha creato l’endiade “Skay Art” (arte del cielo).
Sebbene Modica, come egli rivendica, non sia un impressionista che dà sfogo alle emozioni e alle sensazioni immediate ma un elaboratore di idee, tuttavia la luce è anche per lui colore, movimento e vita, come aveva, d’altronde, ben intuito Caravaggio. Si può dire con Picasso, di cui il Nostro conserva, a mio modesto avviso, qualche impronta del periodo della c. d. “maniera blu”, che egli dipinge gli oggetti “come li pensa, non come li vede”. E, sulla scia del teorico del neo-impressionismo, Georg Seurat, il suo colore s’incarica di narrare la crisi di una società alienata e il dramma dell’esistenza umana, divenendo la sua creazione artistica una perenne ricerca.
L’azzurro dei quadri di Modica è quello del Mediterraneo, della sua Mazara, il palcoscenico della sua infanzia-adolescenza, con le sue barche, i pescatori, i limoni, le saline, i mulini a vento, i templi greci di Agrigento. Lo stesso “Autoritratto controluce” (2003) è uno sguardo sul mare, quasi a conferma della sua consustanzialità col mare, come viene evidenziato nell’intervista dallo stesso artista, come ricerca dei luoghi del “villaggio della memoria”.
Lo specchio è un’altra costante nella materia pittorica di Modica, che fa l’apparizione nel 1982 (La memoria riflessa: gli interlocutori). Esso, come memoria riflessa, è il mezzo per la diffusione-rifrazione della luce ma anche veicolo attraverso il quale si riflettono gli eventi, le cose, i ricordi evocati, le malinconie, il senso del mistero e di solitudine. Come nel citato quadro “Las Meninas”di Velasquez, è come se s’intrattenesse un’interlocuzione tra lo specchio e lo spettatore.
Mentre nella pittura olandese e fino al XVI secolo lo specchio svolgeva una funzione di duplicazione, qui lo specchio non dice nulla di ciò che già è stato detto, non fa vedere nulla di quel che il quadro rappresenta. Il suo sguardo mira a cogliere oltre il visibile, il lato oscuro, il non-pensato della psiche. “La luce e il buio” (2008) e “Luce e buio” (2009) sembrano, attraverso la dialettica luce-ombra, simbolizzare questa contaminazione tra pensato e non-pensato tra coscienza e inconscio, ma anche la metafora della vita.
Attraverso l’onnipresente azzurro del mare, la memoria diventa specchio dell’anima e lo specchio memoria riflessa, senso di perdita, riflessione sullo scorrere del tempo, come nell’opera “Il grande specchio”(1995). Lo sguardo dell’artista spesso si spinge oltre una finestra, una terrazza, librandosi in un infinito contemplativo e inquietante. Perfino “La grande stanza della pittura” (1997), ovvero l’atelier dell’artista che si trova a due passi dal Colosseo, lascia immaginare il mare oltre le arcate del Colosseo.
La luce, la memoria, il tempo sono interrelati nella poetica pittorica di Giuseppe Modica e raccontano, indagano le malinconie, le inquietudini, il senso della vita. Parafrasando Walter Benjamin, si può dire che, non solo quando si scrive, ma anche quando si dipinge, lo si fa sempre per conoscere la propria geografia, che è fondamentalmente una geografia dell’anima, un archivio della memoria ma anche il desiderio di dare senso alla vita e al mondo. Dietro l’archivio della memoria evocata emerge sempre una realtà altra, quella del non-pensato del soggetto desiderante.
Vorrei cominciare questa intervista dall’aspetto che più mi ha colpito nei tuoi quadri: la luce sfolgorante e che, come è stato sottolineato dai maggiori critici, rappresenta una costante nella sua dialettica con l’ombra ma che fa anche tutt’uno con il colore tra il celeste e l’azzurro, in cui si può cogliere, forse, tutta la tua mediterraneità. Quel “continente liquido”, come lo definiva Fernand Braudel, dentro di te. È così?
Esattamente è così. La luce nella mia pittura recita un ruolo primario e fondamentale. Fu Sciascia per primo, nel lontano 1986 in un intervento sul Corriere della Sera, ad averne intuito la peculiare qualità. Essa trova riscontro e ragione propria nella sua connotazione e condizione mediterranea. Una mediterraneità di tipo insulare dove proprio l’isolitudine oltre che ad essere un dato antropologico e geografico del “continente liquido” di Fernand Braudel, è una condizione esistenziale del sentire, del vedere e del pensare. La dimensione dell’insularità, nel mio caso, non è vissuta come separazione ed isolamento dal mondo, ma come necessario luogo appartato della riflessione e della visione che ti permette di osservare a distanza. L’isola in questi termini rimane comunque luogo della comunicazione e crocevia di scambi e di relazioni sociali e culturali.
La tua pittura è una sorta di finestra sul mare. Cosa rappresenta per te il mare, oltre a un viaggio malinconico nella memoria?
Così scrivevo di recente rispondendo alla richiesta di un pensiero breve e conciso sulla mia pittura: «Sono un navigatore solitario nel mare dell’Arte che ostinatamente insegue la sua rotta, tra approdi e partenze, nel tentativo di afferrare e cristallizzare in pittura quella dimensione poetica sospesa, invisibile e imprendibile che sta tra lo spazio fisico, fenomenico del qui presente e quello illusorio della rappresentazione». All’orizzonte c’è sempre, o quasi sempre, il mare e sembra imprescindibile per chi è nato ed è vissuto in luoghi dove esso è presente. È stato detto che l’immaginario di un individuo si configura e struttura nei primi dieci anni della vita, quindi i luoghi di nascita e dell’infanzia recitano un ruolo fondamentale. Anche se poi per vicissitudini diverse egli li lascerà, dovunque andrà cercherà sempre quei luoghi primigeni del “villaggio della memoria” che hanno strutturato il suo sentire ed orientato suo sguardo. Il mio mediterraneo è sì luogo della memoria, ma nel contempo è luogo e scenario dell’immaginario, se è vero come diceva Tabucchi che noi ricordiamo ciò che immaginiamo. C’è una memoria sentimentalistica proiettata nel passato che eludendo il presente si nutre di ricordi antiquariali; intrisa di nostalgia rimpiange ed insegue il tempo perduto.C’è un’altra memoria, nella quale mi riconosco, lucida, speculativa e inquieta che, pur avendo radici antiche, ha coscienza del presente e guarda al futuro, consapevole che il passato non è riesumabile e che esiste solo come impronta, traccia, fantasma. Proprio in questa area riflessiva e meditativa, che coniuga ragione ed emozione, si collocano le mie indagini di questi anni sulla Melanconia, di ascendenza dureriana. Un sentire il mediterraneo e la memoria non come nostalgia, rimpianto di ciò che non c’è più, ma come luogo vivo del presente in cui la traccia del passato è retroterra storico, esperienza ineludibile che sottende al futuro.
Un altro elemento abbastanza ricorrente nella tua opera pittorica è la presenza dello specchio e dello specchio nello specchio, che risale, mi pare, al periodo toscano degli anni 80. Lo specchio è solitamente quello che ci rimanda la nostra immagine intera, il nostro doppio. Per Jacques Lacan è la nostra prima identità corporea, ma può significare anche, simbolicamente, lo specchio dell’anima. Cosa rappresenta essenzialmente nella tua arte pittorica?
È una domanda complessa che non sconfina solo nel territorio della psicoanalisi. Denota però che hai avuto la pazienza di osservare con attenzione la mia pittura e proverò a risponderti in maniera concisa nell’ambito proprio della mia ricerca di linguaggio, sperando di essere chiaro. È da più di 30 anni che lavoro sul tema dello specchio, oltre che sulla luce e la memoria. La pittura stessa è uno specchio. Nella superficie dello specchio si unificano e convivono contemporaneamente il piano della lastra riflettente e la realtà riflessa. Diciamo che convivono contestualmente due spazialità: sia quella fenomenica, misurabile e fissa della superficie riflettente che quella fluttuante ed illusoria dello spazio riflesso. Come avrebbe detto Filiberto Menna, convivono in maniera sincretica le figure e le icone, presentazione e rappresentazione. Tutta l’arte contemporanea, dopo l’invenzione della fotografia e dopo le avanguardie storiche, non può non interrogarsi all’interno di questi due assunti apparentemente antinomici.
La pittura, quindi, incarna in maniera pertinente la condizione dello specchio in quanto è nel contempo superficie sensuale e tattile e rappresentazione illusoria. Nello specchio, inoltre, si concretizza miracolosamente una realtà altra, parallela e ribaltata: una sorta di apparizione epifanica e misteriosa dello spazio circostante e delle cose. Allo specchio le cose si presentano ai nostri occhi come apparizione visionaria e fantasmica e ci danno il senso della sorpresa come se le vedessimo per la prima volta. Contrariamente al valore comune che si attribuisce agli specchi, i miei non sono narcisistici: sono luoghi dell’apparizione, contenitori aperti alla Borges, che riflettono l’altro. Riflettono le cose, le figure, lo spazio, ma anche il vuoto, l’aria, l’assenza di fisicità, la relazione magnetica tra le cose, lo spazio intermedio imprendibile tra il qui presente dell’oggetto e l’oltre immaginario ed irreale della finzione. Gli specchi sono una sorta di cristallizzazione della relazione magnetica delle cose e della loro essenza ed assenza. Non ti sembra che tutto ciò abbia a che vedere con la pittura?
La memoria è il deposito dei nostri ricordi. Senza memoria non ci potrebbe essere coscienza. Essa è anche il luogo dei ricordi rimossi o accumulati inconsciamente. Vi sono anche dei tuoi quadri che ne portano espressamente il titolo: “Paesaggio della memoria” del 1992 e “Stanza della memoria” del 1995. Vorrei che tu esplicitassi qual è il ruolo della memoria nella tua creazione artistica.
La memoria è qualcosa che emerge spontaneamente ed affiora in superficie autonomamente. Si presenta a noi inconsciamente anche a dispetto della nostra volontà precostituita. A volte, è necessaria qualche annotazione o documento del dato reale ad accendere e mettere in moto il meccanismo della elaborazione dei ricordi. In alcuni momenti propizi, a volte, basta chiudere gli occhi per cominciare a vedere attraverso una sorta di rammemorazione immaginaria. La pittura non è un fatto meramente retinico. Diceva al proposito Picasso che bisognerebbe bucare gli occhi ai pittori come si fa ai cardellini per farli cantare meglio. Come dicevo prima c’è una memoria nostalgica in sintonia con la “ricerca del tempo perduto”, della quale Proust è protagonista eccelso e maestro ineguagliabile, ed una memoria straniante, animata da una inquieta vertigine metafisica e fantastica, alla Savinio per intenderci. Mi ritrovo prevalentemente di più in quest’ultima nella quale (la memoria) si intravede tra le righe della realtà come apparizione visionaria ed evocazione immaginaria, ma anche come proiezione nel futuro; anche se non manca in me la fascinazione per la remota e struggente sospensione di un tempo immemorabile e mitico.
Un aspetto che mi ha colpito è che nei nudi di donna tu rappresenti soprattutto il corpo sinuoso, le sue forme armoniose, mentre resta sfumato e quasi accennato, se non invisibile, il volto di donna, che è l’aspetto identitario. Ha qualche significato, puoi aiutarmi a capire?
Mi piace l’avvenenza sinuosa e plastica del corpo nudo della donna, una bellezza non estetizzante ma carnale ed erotica e non riferita al soggetto identificabile in particolare.
È un corpo che può essere di tutte o di nessuna, una sorta di “bellezza” impersonale ed atemporale; per questo non ha un volto specifico e riconoscibile. Non un ritratto psicologico della persona ma un reperto di bellezza ed eros senza tempo anche se la sua origine ha un riscontro reale di modella in posa. Ti racconto un aneddoto che mi ha fatto riflettere. Alcuni anni fa ho riunito in studio un gruppo di amici e di fruitori occasionali per mostrare alcuni quadri recenti ed in quell’occasione c’era proprio un nudo di donna allo specchio, il cui volto lentamente quasi svaniva e si dileguava nell’ossidazione dello specchio. Ricordo che una severa ed abbottonata signora guardando quel quadro rimase particolarmente irritata dalla impercettibile fisionomia del viso in rapporto al corpo che, man mano che scendeva giù, acquisiva una sua evidente plasticità sensuale. Rimase irritata forse perché non riusciva ad attribuire un volto preciso (il suo?) all’avvenenza sensuale di quel corpo e stizzita mi ha accusato di essere un maschilista. Invece, la signora che qualche settimana dopo ha acquistato il quadro si è talmente identificata da volere il proprio nome nel titolo. È vero, come diceva Borges, gli specchi fanno paura, ci allarmano.
Si è scritto di influssi surrealisti, metafisici, simbolisti, ma anche di Piero della Francesca o di Antonello da Messina sulla tua materia pittorica. Ti riconosci in qualcuna di queste filiazioni?
Maurizio Fagiolo, attento studioso della mia pittura, nel rintracciare una precisa radice filologica del mio linguaggio trova un filo conduttore in quella classicità astratta e metafisica che collega Piero della Francesca a Vermeer, passando per Antonello, Caravaggio e Stomer, fino a Seurat per arrivare a de Chirico e Savinio. Quel filo conduttore è sostanzialmente la luce, centro di gravitazione della mia ricerca. A distanza di più di 20 anni sono convinto che aveva ragione ed aveva visto con straordinaria chiarezza. Quella origine identitaria e avventura di luce inoltre trova sviluppo e confronto con le problematiche del dibattito artistico della seconda metà del Novecento e della nostra contemporaneità. A tale proposito mi piace ricordare la mostra a Milano del 1999 De Metaphisica, sempre di Fagiolo, in cui dialogano, da una generazione all’altra, specifiche essenze contemporanee di metafisica: da Guarienti a Ferroni a Paolini a Modica.
Come nascono in genere le tue opere?
C’è sempre un dato visivo che mi sorprende, un felice accadimento, un’emozione data da una luce, un colore di una particolare energia luministica e sonorità, ma anche un evento tragico o drammatico che mi scuote e mi inquieta. Posso tracciare qualche bozzetto, qualche annotazione, qualche appunto fotografico, ma poi sarà il tempo a decidere. Se quel dato permane e dura, se resiste nella mia mente e sollecita la memoria diventa motivo di elaborazione immaginaria. Non sono un pittore impressionista dell’emozione immediata che si espleta nell’esecuzione estemporanea, ma un pittore di lenta elaborazione e reinvenzione, che affida quel dato visivo emozionale alla decantazione del tempo, alla riflessione e alla ricostruzione. L’atelier, spesso soggetto tematico della mia pittura, è luogo magico ed alchemico per eccellenza della decodificazione e successiva rielaborazione del soggetto.
Qual è la tua visione attuale del mondo? In alcuni quadri, in particolare “Tra le nuvole” e “In mezzo alle nuvole”, s’intravedono figure di angeli, di santi con la croce in mano. Sei credente oppure esprimi soltanto una proiezione metafisica?
Penso che tu ti riferisca ai quadri su Roma e la città riflessa dove in qualche opera c’è la sommità della facciata di San Giovanni in Laterano con le statue dei santi con la croce che si agitano fra le nuvole.
Doppie croci: quelle proprie dei santi e quelle date da una fitta selva di antenne televisive. Nessuna volontà di rappresentazione sacra, la realtà ha dentro tutto e spesso ci sorprende per la sua qualità visionaria e metafisica, basta solo vederla. Ho dipinto un altro quadro il cui titolo Fiat-Lux può fare pensare ad una tematica squisitamente religiosa e sacra. È un titolo quasi surreale, dadaista, venuto fuori casualmente da una singolare combinazione: ho semplicemente dipinto un riflesso esplosivo di luce su una finestra verticale suddivisa in vari comparti orizzontali del palazzo della Fiat (automobili) di via Manzoni a Roma. Nulla di blasfemo e nulla di aulicamente sacro: solo una combinazione concettuale di Luce e Fiat. Sta di fatto che quel quadro, laico nella sostanza, è stato scelto da un noto critico d’arte, comunista ortodosso ma libero pensatore, Roberto Gramiccia, e ben accolto nella Biennale d’Arte Sacra di San Gabriele in Abruzzo. Sono un laico, ma sono convinto che l’arte e la creazione abbiano una loro dimensione imponderabile ed indicibile di spiritualità e sacralità.
Vuoi dire altro liberamente per aiutarci meglio a leggere il tuo linguaggio pittorico?
Del linguaggio abbiamo parlato, io farei invece qualche considerazione sul sistema dell’arte. L’Arte implica necessariamente un attraversamento che presuppone una dura esperienza di vita, una profonda presa di coscienza, un coinvolgimento e dedizione totale che ti induce a fare i conti con te stesso e con gli altri ed il tempo in cui vivi, con le sue prerogative ed interrogativi. Non esiste esperienza artistica vera senza un attraversamento. Oggi più che in passato sembra che il mondo dell’arte (e non solo ovviamente) sia soggiogato da un sempre più eccessivo interesse speculativo di mercato, che spesso non coincide con la qualità dell’opera e della ricerca. Alcuni musei, per statuto e consuetudine luoghi di consacrazione postuma o al culmine della carriera di un artista, stanno diventando essi stessi artefici e promotori di mercato, perdendo la funzione storica di filtro, distanza e cautela critica. L’interesse per l’esclusiva convenienza economica spesso (salvo eccezioni) fa perdere di vista la qualità e il valore culturale dell’opera. Molte gallerie, che avevano una funzione garante di guida e di scelta editoriale e culturale, stanno perdendo, in maggioranza, questa autonoma referenza e nobile aura. Alcune che hanno un maggiore prestigio storico e motivazione culturale resistono eroicamente e controcorrente, altre ancora invece cessano o cambiano attività, altre diventano anonime agenzie di rivendita di prodotti promossi ed autenticati da circuiti preposti. I critici, storici dell’arte antica e contemporanea, che fino ad ieri, avevano la funzione importante di identificare e stabilire i valori e di assegnare a “Cesare quel che è di Cesare” (studiosi prestigiosi come Longhi, Venturi, Brandi, Arcangeli, Ragghianti, Briganti, Fagiolo, per fare solo alcuni nomi) sono diventati, nella società globalizzata di massa, emblemi obsoleti e di “nicchia”, interessanti solo per pochi cultori ed appassionati. L’assenza di pensiero e la “cultura dell’ignoranza”(González-Palacios) rischiano di caratterizzare il mondo attuale dell’arte, creando confusione e mescolamento delle carte. In questo caos e mistificazione l’artista è chiamato ancora più di prima ad assumere la sua responsabilità e a non perdere di vista la sua funzione etica, difficile e spesso controcorrente, di salvaguardare il valore del pensiero e delle idee e di resistere a questa dissoluzione, insipienza e “liquidazione”. L’opera, nella sua ineludibile centralità, nel suo valore espressivo e qualità poetica di materia e pensiero, con i suoi tempi di riflessione e meditazione in contrapposizione all’estetica d’accatto della banale spettacolarizzazione e della mera mercificazione, è già un antidoto a tale cinico impoverimento. Quello dell’Arte è sempre un messaggio di fiducia e speranza, sicuramente laterale, una voce fuori dal coro, fuori campo, ma indubbiamente un’esperienza ed una testimonianza umanissima di bellezza etica necessaria ed insostituibile, che ci aiuta a vivere meglio.