di Franca Bellucci
1866-1924: queste le date che circoscrivono la vita di Ferruccio Busoni. Siamo dunque a un secolo dalla morte del grande compositore e esecutore, “anno busoniano”: che richiama tanti eventi culturali nella società degli addetti, ma anche impressioni lunghe una vita per chi, come me, empolese, ne ha sentito l’afflato già prima di saper leggere, giocando con le coetanee pronipoti, le bimbe Salvadori, la cui madre, Bruna Busoni, pianista, sentivo presentare come stretta parente dell’artista. Il compositore, infatti, nacque a Empoli, il luogo di Ferdinando, il padre, e di numerosi parenti, quando già il piccolo nucleo aveva scelto di domiciliarsi a Trieste, la città della madre, Anna Weiss. Era una famiglia di musicisti, e la musica fu aria respirata per il piccolo, e via via coltivata e pensata.
Pur tra tanti stimoli non ho, però, coltivato il ramo musicale della cultura, radicandomi piuttosto in studi filologici e storici: non valendo, ormai, rammaricarsi, posso però rivedere, in quest’anno che intensifica le suggestioni, aspetti di storia, di cultura generale.
Torno alla casa natale, ora Casa Museo, per visita guidata. L’archivista Benedetta Zanieri mi accompagna nelle stanze. Il primo piano è ricco di cimeli, oltre che di tavoli dove l’équipe addetta lavora, sia ai contatti da aggiornare permanentemente, sia all’esame dei documenti, essendo questa istituzione eminentemente “centro di studi”, in contatto con la rete dei maggiori archivi, per sistematizzare testimonianze che continuano ad arrivare dai luoghi in cui si sono irraggiati i contatti tenuti dall’artista. “Mondo e responsabilità”: queste le parole che fisso durante la visita, rimarcandole, per altro, tra annotazioni già formulate. Qualche mese fa mi ha colpito l’apertura spettacolare del Concorso pianistico intitolato a Busoni, rivolto a giovani esecutori, trasmessa in mondovisione. È un appuntamento di grande rilievo. L’evento fu organizzato da Cesare Nordio a partire dal 1949, allora recente direttore del Conservatorio Monteverdi di Bolzano. Con il premio pianistico per giovani, onorava i 25 anni dalla scomparsa di Ferruccio Busoni. Una grande iniziativa, che contrasta una certa diffusa freddezza che l’apparato dell’informazione esprime verso il grande artista: viene il dubbio che questo sia in relazione alla sua ferma estraneità a ogni forma di nazionalismo.
Il mondo: molte le terre che Busoni raggiunse, per sostenere con lavoro onorevole la sua vita – come esecutore pianistico eccellente, quindi ingaggiato per molte platee –. Quello che è particolare è, però, che si guardava intorno, coglieva gli aspetti culturali e sociali e, aspetto straordinario, ne imparava la lingua. Fu fautore dei popoli, non già impugnando le armi: fu infatti strenuo, fermo antibellicista. Invece, ne esplorava gli aspetti culturali, considerando basilari, per definire i popoli, le relazioni di questo ordine: un grande poliglotta, capace di esplorare i suoni a ogni livello.
Al secondo piano della Casa, le librerie a muro, protette da reti leggere, così da sostenere il peso ingente dei fasci di carte. Ma fanno perno, per il visitatore, oggetti vari disposti al centro, reperiti, oltre che da estimatori dispersi, dal gruppo della famiglia, il clan intorno ai Busoni: anche caricature, disegnate e scolpite, lazzi che si scambiavano Ferruccio e il suocero scultore, Carl Eneas Sjöstrand. Perché anche Busoni amava e praticava ogni forma di arte – e la relazione salda, di approvazione inequivocabile, che espresse a Umberto Boccioni intorno al 1916, è una conferma del gusto artistico del musicista: il giovane pittore eseguì alcune opere di grande valore per Busoni.
Alla morte di Boccioni, dovuta a un banale incidente, Busoni ne onorò profondamente la memoria. Egli indagava e in certa misura, comunque originale, praticava, ogni tecnica maturata nella storia passata: era pure il tempo in cui nelle terre di Empoli si riscopriva il genio di Leonardo come versatilità e rigore, e a lui si intitolavano riviste fiorentine. Dopo considerazioni lunghe durante la vita, l’opera Faust fu la forma fantastica che assunse quella meditazione sul genio inquieto. Fu questa la sua ultima opera, incompiuta, cui diede gli ultimi tocchi l’allievo Philipp Jarnach, editandola nel 1925.
“Svedese divenuto finlandese”? Si può dire così dello scultore Sjöstrand? Nella sua contemporaneità, Busoni guardò fin da giovane all’Europa orientale e nordica, dall’osservatorio speciale di Trieste. Prima di fermarsi a Berlino, divenne in particolare intrinseco alla Finlandia, il paese che appunto si definì tale allora, coniugandosi, in terra russa, con Gerda Sjöstrand. Erano giovanissimi entrambi, ma certo determinati: è stato un sodalizio saldo e esemplare, poi arricchito da due figli, nello schema in cui è l’uomo che fisicamente si allontana. Il contatto epistolare, tuttavia, fu alla pari, anche professionale, e continuo. Gerda, che sopravvisse al marito fornì, con l’epistolario, i documenti per compilarne la biografia. L’unione realizzata tra Busoni e Gerda fu anche l’occasione per avvicinarsi alla causa dell’indipendenza del popolo finlandese entro la grande compagine svedese.
Questa azione di indipendenza, rifletto, si inseriva nel mainstream che testimoniava fioritura di popoli almeno dalla fine del Settecento: “popoli”, certo, non “nazioni”, nell’ottica di Busoni. Mi viene a mente lo studio specifico che già dedica al Mediterraneo, dove avvennero le prime prove di Stati – popoli, la Grecia e l’Italia. Ma considero: durante l’Ottocento lo scenario si era ben allargato, con i Paesi dell’Europa settentrionale e orientale, appunto, con i Paesi anche delle tre Americhe, dove bene si avvertiva la consapevole determinazione delle popolazioni native o delle masse importate dall’Africa. Non mi soccorrono, al riguardo, i miei studi storici, che insistono sull’Europa. Ma da altre esperienze qualche lampo si insinua: a opera, per esempio, di Gillo Pontecorvo con il film “Queimada” – del 1969 –, dedicato alla prima rivoluzione efficace, per l’indipendenza e contro la schiavitù, in centro America, nel 1804.
Non stupisce apprendere che nei suoi viaggi negli Stati Uniti, dove fece molte tournée tra Otto e Novecento, prima della Grande Guerra, Busoni avvertì molto più vivamente la complessità e la specifica interpretazione delle relazioni uomo-cosmo presso i nativi d’America, piuttosto che presso le azioni culturali, spesso repressive, intraprese dal governo statunitense. È la cultura, che caratterizza ogni popolo, nonché l’impegno individuale di ogni singolo: le armi sono una forza, ma non incrementano la dignità umana. Quando, nel 1910, seppe da Natalie Curtis, che era stata sua allieva a Berlino, dell’imponente ricerca fatta sulla musica dei Nativi, dando alle stampe nel 1907 le ricerche etnologiche, con il titolo The Indians’Book, Busoni aggiunse nel suo percorso studi di musiche indiane, e più tardi sue opere che rielaboravano gli studi. Quanto fosse fondato in questa visione, Busoni lo dimostrò quando fu deciso il Grande Conflitto: egli dichiarò pubblicamente il no alla guerra, allontanandosi anche fisicamente dai territori belligeranti.
Scelse Zurigo, nella terra neutrale svizzera, per tutta la durata della guerra. Nel 1913, nella breve farsa Arlecchino o le finestre composta appunto nell’esilio, ecco come, tramite la maschera, parlava del soldato: (Barbari e birri – Assolo di Arlecchino «Cosa è un soldato? Qualcosa che rinuncia a se stesso./ Una veste diversa dalle altre./ Un centomillesimo. L’uomo artificiale…/ Cosa è il Diritto? La cosa che si vuole strappare agli altri…/ Cosa è la Patria? La discordia in casa propria …» (in F. Busoni, Arlecchino o Le Finestre Secondo tempo, quadro 4 – Arlecchino oder Die Fenster. Tr.: Vito Levi, 1913-16, Trieste, Casa musicale giuliana, 1966). La polemica per la pratica antibellicistica gli comportò attacchi diretti, durante e dopo la guerra: e potrebbe essere la scia di questa sua posizione la relativa freddezza, anche in questo anno busoniano, con cui la propaganda del mondo dello spettacolo, la pubblicità in generale, si dispone nei confronti di Busoni, della divulgazione delle sue opere e della sua personalità.
Infine, mi congedo dalla dottoressa Zanieri, avendo avuto assicurazione che mi invierà un testo sintetico, un documento essenziale su questo luogo. «Questa Casa Museo è comunque un monumento», mi dico, ripercorrendo le scale ripide e strette, in pietra serena, dove le superfici murarie rasentano i visitatori.
Casa Museo: la suggestione che avverto, quando esco, ha del magnetico: entrando, cercavo solo un punto di partenza, riguardo al tema “anno busoniano”. Ora mi sembra di tastare un percorso di eventi, che riguardano la città, ma che a loro volta devono avere un po’ influito, nel segmento che coincide con la vita dell’artista, che non conoscevo. È una casa che ho in occhio da sempre, in rapporto al mio vivere, fin dalle prime escursioni che posso avere fatto, nata a poca distanza e vissuta sempre nei dintorni. Ho potuta visitarla quando, proprietà privata, l’uscio era di norma chiuso, e ho ricordo della folla vista, rimanendo a distanza, nelle visite ufficiali dalle quali scaturì la decisione che fosse segnalata come luogo rilevante culturalmente. L’inaugurazione avvenne nel 1961 con la presenza del Presidente della repubblica Giovanni Gronchi, dando inizio al “Secondo festival Internazionale Ferruccio Busoni”: ma io ricordo anche la folla e l’animazione in città, già anni prima, forse nel 1958, per la visita informale dello stesso Presidente, propedeutica alle decisioni. Non mi ero chiesta prima di questa visita quale modello di pubblicizzazione ha seguito questo atto ufficiale: o meglio, se mai ho dato qualche rilievo, sul tema dello spazio urbano e dei segni memoriali di cui è opportuno arredarlo, ho piuttosto pensato ad altri edifici della zona – il culto, per esempio, di Boccaccio, nella vicina Certaldo –. Ho trascurato questa dimora, così dimessa, nella sua struttura disadorna. Invece ora ne sento la pulsazione, soprattutto come luogo di studio incessante. Mi è stato detto che di prassi vengono disposte visite guidate alle scolaresche, in un raggio di territorio abbastanza ampio: per il livello elementare e, ora che sono abbastanza diffusi anche gli istituti a indirizzo musicale, anche per giovani adolescenti. Che riportano, i giovani, da queste prassi? E poi, sono prassi in grado di smuovere domande e desideri?
Resto con questa domanda sospesa, intanto. Vado con il pensiero, poiché ho cercato qualche foto sui luoghi busoniani in questi tempi in cui si è riacceso il mio interesse, all’altra intitolazione che lo Stato ha riserbato a Ferruccio Busoni: a Bologna c’è il “Giardino Ferruccio Busoni”, intorno alla Villa Mazzacorati. È stata una scoperta casuale, come tante che accadono manovrando internet, e ho reagito pensando alla Pennabilli arredata in memoria di Tonino Guerra, immaginando la bellezza di poter moltiplicare stimoli fantastici. Non avevo sentito parlare di questo luogo bolognese, né tanto meno ho mai trovato segnalazioni e correlazioni dichiarate tra luoghi pur così vicini. Ora riformulo altre domande: riguardano la sinergia che forse questa correlazione potrebbe comportare, per qualificare la conoscenza diffusa di Ferruccio Busoni e della sua opera. Non sarò comunque presuntuosa se, mentre mi so così esposta all’emozione, ma anche a desiderio di incremento della conoscenza, anzi corrispondenza, con Busoni, enfatizzo la funzione ideale dell’oggetto memoriale nella “pietra d’inciampo”: oggetto per un nome, che è persona reale, da adottare in qualche modo oltre l’incontro, per nutrire, modificare, rilanciare in ogni dimensione il sentire.
Nell’acuirsi dell’emozione, ora si polarizzano, come l’attenzione, così le memorie storiche. È, questa, una casa antica tra altre, tra loro contigue, che so addossate alle mura cittadine orientali, nascondendole del tutto. Questa fila di case orla la piazza del “Campaccio” – è il nome tradizionale, e, in Toscana, è considerato tipico del luogo di sepoltura degli ebrei, che sono pur stati, secoli fa, una comunità unica tra Empoli e San Miniato: ma nel caso gli studiosi non confermano. Ora, il nome è piazza “della Vittoria”, con il grande monumento centrale, innalzato dopo la Grande Guerra, della Vittoria alata.
Ho pur fatto studi su come si viveva a Empoli nel primo Novecento. Quando nacque Busoni qui finiva la città, avendo di fronte lo spiazzo lasciato nell’incuria e tra acquitrini, mentre la via che si incontra uscendo a sinistra era un tratto dell’arteria principale che collegava Firenze a Pisa e, cosa importante, a Livorno, il porto della Toscana. Era considerata fuori città la stazione ferroviaria, a poche centinaia di metri sulla destra, per chi esce: già luogo pericoloso, intorno a cui si erano verificati scontri duri, circa alla metà dell’Ottocento, poiché il treno introduceva un mondo alternativo rispetto a quello della tradizionale economia arnina. Oggi è questa piazza il centro città: qui gravitano i transiti intorno alla stazione, servizio per tutti i borghi abitati nel segmento di territorio compreso tra le valli di Arno, Orme, Elsa, Vincio, denso di segni urbani e culturali, specie di quel Tardo-Medioevo, o Primo-Rinascimento, cui ascriviamo Leonardo come il Pontormo, ovvero Iacopo Carucci.
Le imprese artigiane fiorite tra Otto e Novecento non esistono più: o almeno sono scomparse. Ma alla nascita di Busoni – penso al primo Novecento – il fermento che tendeva all’industrializzazione era in pieno corso; se si scorrono i registri civici dell’emigrazione, tuttavia, la città conobbe allora anche un accentuato sfoltimento, specie del bracciantato, con l’emigrazione. Laboratori, allora, di ogni tipo: le vetrerie, che già si avvalevano di relazioni con Venezia e l’Istria, e già erano di due tipi, industriali e artistiche, i cantieri, a Limite sull’Arno, per siluri e sottomarini più che per barche, la curiosità diffusa determinata a provare, a esplorare, oltre che a costruire. C’erano anche intellettuali raffinati: come Odoardo Hillyer Giglioli (1873- 1940?), che nel 1906 pubblicò Empoli Artistica, un vero inventario dei beni visivi, come Alberto Castellani (1884-1932), empolese sinologo, le cui pubblicazioni, come I dialoghi di Confucio, rendevano familiari i testi classici cinesi. Ricordo allora che la prima opera di Busoni è Turandot: del 1917, molto prima che quella di Giacomo Puccini – di cui pure ricorre il centenario della morte – fosse rappresentata, postuma, nel 1926.
A pochi giorni dalla visita, la dott. Zanieri mi manda la scheda sintetica sul Museo Busoni: c’è un’oscillazione lessicale, constato, nell’indicare questo luogo: “Museo” è forse il termine più semplificato, sempre valido con la sua genericità. Accanto, leggo, con un trattino: “Museo – Casa Natale Ferruccio Busoni”; si precisa che fa parte di due reti: “Empoli – Musei” e “l’Associazione Nazionale Case della Memoria”: questo dal 2005, anno della fondazione dell’Associazione stessa. La gestione è affidata al “Centro Studi Musicali Ferruccio Busoni, associazione che organizza e promuove concerti di musica classica”. Ogni aspetto operativo, dunque, riguarda questo organismo. Rimane, mi sembra, poco perspicuo valutare l’efficacia, guardando a azioni diverse: l’attività archivistica, la costruzione della stagione concertistica, il contatto preliminare con i giovani e la valutazione a consuntivo.
La guerra, le scommesse di distruzione e di potere che essa comportò erano l’antitesi dello studio per la convivenza, che questo artista propugnava: mettendo a disposizione la sua capacità di ascolto e rielaborazione, di riprove infinite. Volle il campo neutro, trasferendosi da Berlino a Zurigo. Bene attento alle domande d’arte in ogni campo, e al bisogno di innovazione che in molti esprimevano, non ammetteva tuttavia che in nome del nuovo si ignorasse la continuità dello sviluppo artistico. È testimonianza di questa convinzione una delle sue attività, quella di trascrittore di opere altrui in pagine musicali rinnovate. Nelle opere teatrali Busoni meditò a fondo sulle tradizioni e gli ambienti italiani: disegnò in Parma un episodio importante del suo Faust, maturato in un arco lungo di considerazioni, cui non fu estranea, come ho detto, la meditazione su Leonardo da Vinci – allora, in Italia e in Europa, in molti ne facevano oggetto di ricostruzioni.
Nella mia città non è raro sentir dire che una certa sufficienza contro Busoni, come autore vanamente sofisticato, avrebbe costantemente trattenuto dall’inserirlo nei cartelloni. Le verifiche, però, non supportano questa fama. Nel periodo aureo del Maggio Fiorentino, le opere di Busoni risultano eseguite con una certa costanza negli appuntamenti musicali più importanti, nel periodo in cui, a prescindere dalla resistenza politica, del resto sempre più schermata, il regime costruisce una rispettabilità internazionalmente bene accolta. Busoni era una fonte viva, un riferimento attivo delle vie dell’arte musicale, quella della creatività, quella dell’esecuzione, quella della storia musicale.
Rifacciamo il punto: dagli anni Trenta, l’organismo politico risultante in Italia, il regime fascista legittimato dalla monarchia, adottava una politica culturale a due facce, l’alta e la bassa. Fu un contenitore, quello costruito per gli intellettuali, ben sorvegliato: ne ha ricostruiti i passaggi, quando gli archivi sono divenuti pubblici, lo storico Giovanni Sedita, in un libro del 2010 (Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, Firenze, Le Lettere, 2010): tanto, osservo io, che in un tale contenitore possono raccogliersi tutti gli artisti autorevoli, e l’Accademia d’Italia può ascriversi, ancora attivo, Pirandello, come il quiescente Tommaso Marinetti – già futurista, comunque rimasto un forte simbolo: come segnale del processo, Giovanni Sedita indica la desistenza, pur sofferta, come attestano le successive missive a Mussolini, di Giuseppe Antonio Borgese, che nel 1931 si allontanò dall’Italia, accettando l’invito dello Smith College del Massachussets.
L’interesse ufficiale a mostrare al mondo un’Italia colta e innovativa, secondo la cifra che, in modo insistito, aveva caratterizzato il suo farsi Stato – nazione, fu ripresa, a partire da quella che era stata una delle prime “invenzioni d’arte creativa” dello Stato, la Biennale d’Arte, considerando che con l’annessione del 1866, Venezia, luogo storico noto al mondo, perdeva la sua principale funzione, di porto e di collegamento tra Oriente e Europa. “Risarcimento”, per così dire, era stata appunto l’istituzione della Biennale d’arte, a partire dall’Esposizione internazionale del 1895. Di qui, dalle celebrazioni a Venezia, ripartì l’Italia-regime, nel 1930.
A parte, però, rispetto a tale iniziativa, c’era stata un’altra pista audace, costituitasi per associazionismo tra i musicisti, nel 1922. Si trattò della Società internazionale di musica contemporanea (Simc): gli artisti guardavano al mondo, anche se intanto si limitavano all’emisfero nord. È certo da tenere presente, questa realtà, interessandoci a Ferruccio Busoni: egli ne fece parte, anche se per gli anni estremi e critici della sua vita, tra il 1922 e il 1924. Fu Edward Joseph Dent, musicologo inglese l’autorevole presidente, dall’esordio al 1938 e ancora dal 1945 al 1949. È, questi, si noti, anche il biografo ufficiale di Ferruccio Busoni: il suo testo, pubblicato in inglese nel 1966, è ora disponibile in italiano per cura del Centro Studi Musicali (per accordo con l’editore, è ora in traduzione italiana, a cura di Marco Vincenzi, Leonardo Libri, Firenze, 2020).
Nella politica culturale dell’Italia fascista, Venezia fu, con il 1930, anche punto di ripartenza di una organizzazione musicale a circuito, che individuò vocazioni diverse da valorizzare in alcune altre città: Perugia, Bergamo, Siena, infine, dal 1934, Firenze. Questa città era stata testimone delle lacerazioni sociali intervenute nel primo Dopoguerra, fino dal 1921. Tuttavia, autorevole – già capitale d’Italia – e allora molto vivace sul piano culturale, ebbe, con il Maggio, il festival di maggior prestigio in ambito musicale.
La critica musicale Fiamma Nicolodi, tracciando la storia musicale della prima metà del XX secolo (Novecento in musica. Protagonisti, correnti, opere. I primi cinquant’anni, Mi, il Saggiatore, 2018) presenta il relativo capitolo culturale sul Maggio (Guido M. Gatti, organizzatore del primo Maggio musicale fiorentino: 147 – 158) sottolineando, nell’interlocuzione con gli organi politici, l’apporto decisivo delle personalità della cultura: «…il fascismo accettò volentieri la creazione di questi eventi» (ivi: 148). Guido Gatti fu segretario generale del primo Maggio: critico musicale che godeva della fiducia di Ugo Ojetti, e noto anche negli ambienti industriali. Al di là delle operazioni e delle personalità politiche che nell’ombra si misero in gioco, chi tra i musicisti giocò un grande ruolo nella costruzione del Maggio è indicato dalla studiosa a pag. 150: il direttore d’orchestra Vittorio Gui, Guido Visconti di Modrone, eclettico musicista nonché giurista, Guido Guerrini, che, già allievo di Busoni a Bologna, dal 1928 fu direttore del Conservatorio musicale Cherubini di Firenze, il compositore Mario Castelnuovo – Tedesco. La studiosa ribadisce la produttività di Busoni, l’influenza che ha esercitato presso gli autori successivi anche esaminando Alfredo Casella, di cui, per altro, essa era nipote. L’inquadramento di Casella, essa testimonia, non può prescindere da Busoni: e infatti nel capitolo dedicato all’Empolese (Ferruccio Busoni e i suoi contemporanei, ivi: 85 – 104) lo cita ampiamente. Nicolodi inscrive l’essenza culturale di Casella, focalizzata nelle due piste, l’innovazione e il Neoclassicismo, nella relazione, anzi nella «familiarità», con Busoni: «Se Casella si fosse limitato a essere il portabandiera del Neoclassicismo italiano, ruolo che indubbiamente ricoprì, probabilmente non si sarebbe instaurato con Busoni quel rapporto di familiarità, che invece, malgrado alcune ombre passeggere, si stabilì» (ivi: 100). La studiosa pone come merito di Casella, quasi “sdebitamento”, scritti importanti che illustrano e celebrano Busoni.
Il gruppo dei “Padri del Maggio”, è certo, aveva avuto relazioni intense, formative, accanto a Busoni: la stima per Busoni era ben presente, attestata nei cartelloni delle varie manifestazioni: è un fatto che le ricerche di archivio ne ritrovano ampie tracce, negli epistolari, nei trattati specifici, nei programmi di sala. Un esempio, in promptu fornisce internet, dalla tesi di dottorato di Valentina Zappacenere, Vittorio Gui direttore d’orchestra e operatore di cultura musicale (1906 – 1936), (https://flore.unifi.it/handle/2158/1225491), discussa all’Università di Firenze presso il Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo, ciclo 2016/19, qui è ricostruito il percorso di un intellettuale che ha valorizzato il valore comunicativo della musica. La vicinanza di Gui a Ferruccio Busoni, più anziano ma anche riferimento esemplare, ritorna: per esempio, nel 1917, in una associazione fondata a Parigi, promotore Alfredo Casella, «la presidenza d’onore fu riservata a Toscanini, Ferruccio Busoni e Bossi», riserbando però quella effettiva al conte di San Martino»; un concerto in commemorazione di Busoni è attestato a Firenze nel 1933; si citano alcune letture innovative che egli fece di opere busoniane: Arlecchino, in «La rassegna musicale» (XIII, 1, gennaio 1940: 30-37), nonché Il segreto di Busoni, in «L’osservatore politico letterario» (XII, 1966). In particolare, considerando i «Repertori e testi» riportati nella Seconda parte (ivi:117-260), verifico la presenza, nelle esecuzioni di Vittorio Gui, di Busoni: si citano trascrizioni, come, da Listz, la Rapsodia spagnola; ovvero opere originali: il Valzer danzato; la Sarabanda e corteo dal Dottor Faust; il Concerto per pianoforte e orchestra e coro maschile; una sola volta, il 17 gennaio 1926 a Torino, la Fantasia indiana. Nel corso del secondo Novecento, grande studioso di Busoni è stato Luigi Dallapiccola: F. Busoni, Lo sguardo lieto, a cura di Luigi e Laura D’Amico, sua moglie e Fedele D’Amico, Milano, Il Saggiatore, 1977.
Ed ecco, trovo un documento quasi coevo della morte di Ferruccio Busoni, nell’Italia del 1924: lo leggo dal sito di una Casa Museo, quella di Giacomo Matteotti, istituita nel 2004 a Fratta Polesine. Sul tema delle Case e dei segni della memoria, nonché della ricorrenza secolare del “tremendo” anno 1924, esploro questo luogo della memoria in internet. Ed ecco evidenziarsi anche il nome di Ferruccio Busoni. È in qualche modo una sorpresa trovarne riferimento dolente e insieme familiare: certo fosco di allarme. Matteotti è esplicitamente associato a Busoni: questi, l’artista cosmopolita e antimilitarista, è qui personaggio noto, esemplare. Il momento doveva fissare, in generale, la rabbia che accompagnava la sensazione di “vittoria mutilata”. L’umore della recriminazione, dunque, la verifica di attese tradite da parte di alleati – plenipotenziari; che, intanto, scavalcando, nel Mediterraneo, quel “rebus Balcani” che si evidenziava nelle premesse alla guerra, suscitavano nuovi gliommeri, premesse e promesse di altre guerre. La parola “fascio” invertiva il senso, rispetto al primo uso ottocentesco: non forza dei lavoratori consapevoli, ma “sopruso contro”, a opera dei nazionalisti di Mussolini. Si coagulava il polo Mussolini – monarchia e, con il meccanismo della “legge Acerbo”, erano avvenute nell’aprile 1924 le elezioni generali «in un crescendo di scontri, disordini e intimidazioni» (Corrado Malandrino, in «Mussolini, Benito», Enciclopedia storica a cura di Massimo L. Salvadori, Bologna, Zanichelli, 2000: 1098-1099, 1099).
Dal 10 giugno le cronache si appuntano sulla scomparsa del deputato Giacomo Matteotti, fermo accusatore «dei metodi, delle pratiche fuorilegge e delle finalità dittatoriali» di Mussolini e del suo partito. Una sospensione lunga, fino al ritrovamento del corpo, il 16 agosto: seguirà allora un passaggio ambiguo sul possibile esito, fino al gennaio 1925, quando Mussolini rivendicò la responsabilità politica del delitto e intraprese il percorso «che doveva portare alla eliminazione delle libertà costituzionali» (Malandrino, Mussolini, cit.: 1099). Ecco: è a Giacomo Matteotti che pubblicamente viene abbinata la notizia della morte di Busoni, la memoria sintetica della sua vita. Internet mi permette di sfogliare il quotidiano «Il Mondo. Roma, a. III, sabato 2 agosto 1924» e ritrovare la pagina 3. Nelle pagine si moltiplicano le domande intorno al deputato rapito e scomparso e accanto alle analisi politiche della situazione italiana: «Il Paese non vuol essere deluso nel suo bisogno di verità e di giustizia», è il titolo che intesta la prima pagina. Ed ecco la terza pagina, quella della cultura: a centro pagina, in particolare rilievo anche grafico, si parla di Ferruccio Busoni: anzi, parla lui stesso, essendone riportate le riflessioni scritte – dopo una introduzione in corsivo attribuito alla sigla “d.a.” – così da rilevare «…la profondità, la intensità, la squisitezza, la lucidità, la possanza della vita spirituale del compianto musicista». Citato, Busoni parla della musica occidentale come di un’arte al primo fiorire, non già matura, anzi: è «un fanciullo appena all’esordio», dice l’artista con un’immagine che è stata di centrale suggestione nel Novecento – ma già qualche decennio prima si osserva, dal “fanciullino” di Pascoli, a Pinocchio, a Pierrot –: focus di riflessione e forse anche di contraffazione. Fuorviante, dunque, continua Busoni, imporre “questa” musica come assoluta. I grandi che cita – Beethoven, cui pone accanto Bach, Schumann, Brahms, sono tutti “compagni in cammino” lungo il farsi della musica – sono pellegrini su tale strada. La notazione scritta, inoltre, è non altro che una traccia, per propria memoria e per condividere con altri. È dunque un’approssimazione, rispetto al sentire di chi crea: così, è consentito che chi esegue riviva la composizione a suo modo: «Ogni giornata comincia in un modo diverso dalla precedente, quantunque comincino tutte con un’aurora», considera Busoni: anzi, gli autori stessi cambiano ogni volta, eseguendo le proprie musiche.
Mi pare una testimonianza forte e significativa della fama di Busoni presso gli Italiani, questo abbinarlo a Matteotti, nel momento in cui, con sollecitudine, si misura l’attualità del Paese. Il quotidiano «Il Mondo» è nella sua terza annata: il quotidiano fu chiuso d’autorità dopo il quinto anno, segno che il regime si era instaurato. Dalle notizie in Google leggo: la fondazione risaliva a Giovanni Amendola. La sigla, “d.a.”, era del critico musicale Domenico Alaleona. Tra le firme, mi annoto Ernesto Buonaiuti, Giuseppe Rensi, Adriano Tilgher. Il quotidiano collaborò con Piero Gobetti. Venti anni dopo, il 26 luglio 1943, il quotidiano risorse per un’edizione straordinaria, in occasione della caduta del fascismo.
Se un incremento si progettasse, per la Casa natale di Busoni, forse dovrebbe essere proprio nel senso di evidenziare testimonianze documentali anche generali, in cui misurare echi e interessi sociali pertinenti. Il segno di una precisa, pur se personale, concezione politica del mondo e delle arti, è la caratteristica di Busoni: una concezione aperta al divenire, al convergere, così da sollecitare che emergano, siano rese testimoniali le forme. Le forme sono comunicazione e arte. Esse rendono visibili le aggregazioni, o “popoli”, dando loro ipso facto il diritto di esistere: è questa la filosofia che è legittimo attribuire a Ferruccio Busoni. Pur lontano da attività e da congreghe politiche, egli non curava però di assumere una direzione, e un clichet estetico: si guardava intorno, giudicava, faceva defluire il pensiero nella composizione – interpretata con instancabile attenzione al pubblico.
Busoni era, ed è, in quanto interpretato e divulgato, un operatore sociale. Se si registrano strati di avversione, in compagini piccole o grandi, è soprattutto da questa natura di operatore sociale che si marca la distanza. Questo termometro permette di misurare l’alzarsi e l’abbassarsi della fama di Busoni. Tuttavia, abbiamo visto, le eclissi sono momentanee: nel programma di dare alla musica italiana un carattere d’arte eccellente Busoni torna ad essere frequentemente eseguito. Resta dunque da domandarsi la radice profonda dell’incerta fortuna che accompagna il compositore ora, nella storia del Dopoguerra, nell’Italia repubblicana. È intanto un riferimento pubblico e saldo l’istituto della Casa Natale, e cifra attiva la direzione di ricerca testimoniale che l’istituto si è assunto. Non corre certo il rischio di oblio, se moltissime formazioni musicali si intitolano a lui, e se a lui è intitolato il Concorso Pianistico, che, come abbiamo detto, vive dal 1949, ispirando nelle giovani generazioni di musicisti non solo una straordinaria perizia, ma, in particolare, una disponibilità a calarsi nelle varie culture del mondo. Pochi mesi fa, in prossimità del centenario della morte, nel settembre 2023, con la 64ª edizione del concorso, si è assistito alla sua trasmissione, si è detto, in mondovisione: una conferma forte del valore e, in particolare, della presenza di Busoni nella cultura contemporanea, nelle sue problematiche, infine.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Riferimenti bibliografici
Bellucci, Franca, Dinamiche di un notabilato di provincia, in Empoli. Nove secoli di storia, Tomo II. Età contemporanea (a cura di Giuliano Pinto, Gaetano Greco e Simonetta Soldani), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2019: 477-490
Busoni, Ferruccio, Arlecchino o Le Finestre, secondo tempo, quadro 4 – Arlecchino oder Die Fenster. Tr.: Vito Levi, 1913-16, Trieste, Casa musicale giuliana, 1966
Busoni, Ferruccio, Lo sguardo lieto, a cura di Luigi e Laura D’Amico e Fedele D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977
Dent, Edward Joseph, Ferruccio Busoni. Biografia a cura di Marco Vincenzi, Leonardo Libri, Firenze, 2020
Malandrino, Corrado Mussolini, Benito, in Enciclopedia storica a cura di Massimo L. Salvadori, pp. 1098-1099, qui p. 1099, Bologna, Zanichelli, 2000
Nicolodi, Fiamma, Novecento in musica. Protagonisti, correnti, opere. I primi cinquant’anni, Il Saggiatore, Milano, 2018
Sedita, Giovanni, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, Firenze, Le Lettere, 2010.
Sitografia
«Il Mondo. Roma, a. III, sabato 2 agosto 1924», in Casa-Museo Giacomo Matteotti <https://www.casamuseogiacomomatteotti.it>
Zappacenere, Valentina, Vittorio Gui direttore d’orchestra e operatore di cultura musicale (1906 – 1936), <https://flore.unifi.it/handle/2158/1225491
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).
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