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Intorno alla centesima edizione del Festival des Cerises di Sefrou: processi di patrimonializzazione, politiche agricole e immaginari translocali del fruit des Rois

. Stand dedicato alla vendita delle ciliegie, centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou. ph. Miichela Buonvino

Stand dedicato alla vendita delle ciliegie, centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou (ph. Miichela Buonvino)

CIP 

di Michela Buonvino, Daria De Grazia [*] 

Patrimonializzazione del rurale e socializzazione delle politiche agricole statali in Marocco: il caso di Sefrou 

Il 3 aprile 2024, durante una cerimonia organizzata dal Comune di Sefrou e dal Ministero della Gioventù, della Cultura e della Comunicazione nel quadro dei preparativi del centenario del Festival des Cerises di Sefrou (tenutosi dal 6 al 9 giugno 2024, sotto l’Alto Patronato di Sua Maestà Re Mohammed VI), cento ciliegi sono stati piantati nelle aree verdi e nei jardins delle pubbliche istituzioni cittadine. In una dichiarazione rilasciata alla MAP (Maghreb Arabe Presse), Samira El Malizi, segretario generale del Ministero della Cultura, ha riaffermato l’impegno del Ministero nell’organizzazione del centenario del Festival des Cerises (iscritto dal 2012 alla Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità), sottolineando il profondo attaccamento della società civile a questo evento pubblico, la cui realizzazione è il frutto della collaborazione tra autorità locali e abitanti di Sefrou, uniti dalla volontà di perpetuare i valori culturali locali e di trasmettere alle future generazioni i savoir faire sefrioui legati all’agricoltura e ai mestieri tradizionali.

Lahcen Assou, Direttore provinciale dell’agricoltura, ha messo in evidenza, in quella stessa occasione, l’evoluzione della filiera delle ciliegie – in termini di produttività, qualità dei prodotti e aumento della rendita agricola – nella cornice degli obiettivi fissati dalla strategia “Génération Green 2020– 2030” [1], lanciata da Re Mohammed VI nel febbraio del 2020.

Sefrou è una cittadina marocchina situata sul versante nordoccidentale del Medio Atlante, nella Provincia omonima, nella Regione di Fès– Meknès. Il popolamento di questa zona avvenne in seguito a una migrazione massiccia sull’asse sud-nord, seguendo il corso del fiume Moulouya. La presenza della catena montuosa dell’Atlante marocchino favorì lo spostamento dalla “miseria ecologica” dei territori sahariani alla rigogliosa vegetazione delle valli del nord. L’«oasis sans palmiers» (Bekkai 1952), resa fertile dalle acque del fiume Aggay, non poteva che apparire, a queste genti, un vero e proprio paradiso in terra.

Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, alla vigilia del Protettorato francese, Sefrou era una città che godeva di strutture politiche, economiche e amministrative solide, al pari della non distante Meknès. In accordo con la policy istituita dal Maresciallo Lyautey, lungo il confine occidentale dell’oasi venne eretta una Ville Nouvelle. Dopo la Seconda Guerra Mondiale intorno all’ancienne medina sorse la “nouvelle medina”, contrassegnata da un design più moderno e servita da strade più ampie rispetto a quelle della città vecchia. Nel secondo dopoguerra prese avvio un lungo e ininterrotto processo di ruralizzazione urbana (rurbanisation), che stravolse in maniera considerevole tanto la morfologia urbana quanto il profilo demografico della città (Geertz et al. 1979; Benhalima 1987; Geertz 1995; Buonvino 2024).

Dal 1920, tra la fine del mese di maggio e l’inizio del mese di giugno, a Sefrou si celebra il Festival des Cerises (Festival delle Ciliegie), anche detto Moussem di Hab– el– Mlouk (trad. “frutto dei re”). Alla vigilia del Protettorato francese, questo festival era una fiera agricola dalle dimensioni ridotte, di cui il governo coloniale faceva uso per mostrare alla popolazione i prodigi delle innovazioni apportate al settore agricolo. Il défilé o carnaval costituiva il momento cruciale delle festività (assieme alla cerimonia di scelta e all’incoronazione di Miss Cerisette) e consisteva in una grande sfilata in maschera nel cuore della Ville Nouvelle, attraverso la quale i francesi presentavano ai sefrioui il resto del mondo (sfilavano, in quell’occasione, i carri degli egizi, dei messicani, degli eschimesi, dell’URSS ecc.), riconfermandosi promotori di un “salvifico” processo di acculturazione.

Un “carro” dedicato al tema dello sviluppo agricolo sfila durante il carnaval della centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou. Foto di Michela Buonvino

Un “carro” dedicato al tema dello sviluppo agricolo sfila durante il carnaval della centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou (ph. Michela Buonvino)

Il Festival delle Ciliegie rientra in quell’insieme di manifestazioni sponsorizzate dallo Stato in un rapporto di continuità politica con il governo coloniale, similmente al Festival des Roses di Kelaat Mgouna, inaugurato nel 1921 (il Marocco indipendente ne istituì altri sulla falsariga di questi, come il Festival dei Datteri a Erfoud, il Festival dei Mandorli a Tafraoute, il Festival Internazionale dello Zafferano a Taliouine ecc.).

Questi eventi rappresentano un’importante vetrina per la comunicazione e per la socializzazione delle politiche agricole nazionali, nonché per la vendita dei prodotti di imprese che lavorano nell’ambito della modernizzazione finanziaria ed economica dei mondi rurali marocchini. L’analisi dei temi delle diverse edizioni del Festival delle Ciliegie ci consente di registrare un cambiamento significativo, avvenuto tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Da quel momento, infatti, le tematiche iniziarono a recare espliciti riferimenti alle principali questioni politiche dell’agenda nazionale e molte di queste furono “mises en chars”. Ad esempio, il défilé del 2003 ospitò un carro a tema “L’unione nazionale e il recupero del Sahara Occidentale” e un carro sulla questione palestinese. Il tema dell’ottantunesima edizione fu: “La solidarietà con il mondo rurale è un dovere nazionale”, mentre l’ottantaduesima edizione fu dedicata al décollage agricolo e turistico per lo sviluppo territoriale, economico e sociale della Provincia di Sefrou.

9782709922432_1_75Lo studio delle feste agrarie marocchine, della loro trasformazione in fiere a tema e in festival nazionali, si è rivelato particolarmente eloquente, anche nel quadro più generale dell’analisi delle nuove forme della ruralità nel Marocco contemporaneo (cfr. Berriane, Michon 2016; Berriane 1990; Romagny 2010; su questi stessi temi, seppure in diversi contesti, si veda Fournier 2022). Nelle aree a vocazione rurale – e la Provincia di Sefrou non fa eccezione –, la nozione di “territorio” costituì la via di accesso privilegiata per l’espressione di una nuova consapevolezza patrimoniale (cfr. Michon et al. 2016). I prodotti alimentari e le feste agrarie sono stati oggetto, negli ultimi anni, di tante diverse patrimonializzazioni, intraprese da un’eterogeneità di attori, che hanno reso il territorio patrimonializzato un campo attraversato da interessi politico-economici, socioculturali complessi (su questi temi in contesti europei cfr. Bérard, Marchenay 1995, 1998, 2004). Inoltre, gli elementi rurali patrimonializzati sono stati al centro di un’operazione energica di mise en tourisme, in cui convivono, in modalità originali, valorizzazione culturale e valorizzazione commerciale. Gli ultimi anni Novanta del Novecento furono contrassegnati dal boom dell’ideologia dello sviluppo sostenibile; lo Stato marocchino investì copiosamente in questo settore e in quello strettamente connesso del turismo rurale [2], mirando al raggiungimento di un equilibrio tra conservazione, innovazione e valorizzazione economica delle risorse.

Lo Stato fu, in altre parole, il promotore di una riabilitazione positiva del terroir in quanto modello fondamentale di sviluppo agricolo, intraprendendo una decisa operazione di “patrimonializzazione dall’alto” dei prodotti del territorio, nell’ambito della quale trovò considerevoli sostegni nella cooperazione internazionale [3]. Michon, Berriane, Romagny e Skounti hanno sottolineato le problematiche insite in una siffatta “patrimonializzazione discendente”, orientata alla modernizzazione del mondo rurale mediante la professionalizzazione dei settori tradizionali. Secondo alcuni studiosi la scarsa rilevanza del “prodotto faro” [4] nella struttura complessiva del Festival des Cerises ha definito questo stesso prodotto come un “pretesto” per la messa in scena di un altro spettacolo: non quello della vendita e della valorizzazione del prodotto in sé, quanto quello della sponsorizzazione e socializzazione dei disegni di sviluppo e delle strategie politiche statali. La strategia politica “socializzata” durante il Festival des Cerises è, nello specifico, quella espressa dalla sopramenzionata strategia Génération Green 2020– 2030, nonché dai “piliers” del Plan Maroc Vert [5]. 

Stand dedicato alla esposizione e alla vendita di macchine agricole, centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou Foto di Daria De Grazia

Stand dedicato alla esposizione e alla vendita di macchine agricole, centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou (ph. Daria De Grazia)

Le vicende patrimoniali del Festival des Cerises tra (auto)essenzializzazione identitaria e tentativi di ri-territorializzazione 

Il frutto locale, dal sapore intenso e mielato, è soprannominato “beldi” (un termine che ha plurimi significati ma che potremmo tradurre con “tradizionale”). Oggi el beldi non esiste più nella città di Sefrou, mentre è ancora presente nel resto del territorio provinciale, in particolar modo a Immouzer e a Boulemane. Difatti, nel corso degli anni Sessanta del Novecento, giunse a compimento quel lungo processo che, in seguito all’introduzione di alcune varietà europee e americane, ha condotto alla sua definitiva estinzione. Da diversi anni, ormai, l’antropologia critica italiana si interroga sulla connessione tra iconicizzazione delle “cose patrimoniali” e delle identità e la loro mercificazione (cfr. Palumbo 2003, 2010; Pizza 2015). Nel caso del Festival des Cerises i processi di attribuzione di tassonomie globali (Herzfeld 2004) non solo hanno prodotto oggettivazione culturale (Handler 1988) ma hanno reso queste “cose culturali” (in particolare il ciliegio e la ciliegia) elementi iconici di specifiche identità collettive astratte, che vengono a loro volta essenzializzate. Tali processi hanno dato avvio alla produzione di memorie patrimoniali scritte (o visive o inscritte nel tessuto urbano), in larga parte auto-esotizzanti.

In particolare, a Sefrou questo processo ebbe inizio con la ricerca e la sistemazione del materiale finalizzato all’elaborazione della fiche d’inventaire nazionale prima e del dossier di candidatura UNESCO poi. Ciò mise in moto una macchina locale patrimonializzante che si tradusse, tra l’altro, nella pubblicazione di una serie di scritti (e di un documentario) atti a promuovere le immagini essenzializzate del Festival e della città di Sefrou (Sefrou: un patrimoine culturel authentique, Sefrou: ville de coexistence, foyer de tolérance et de cohabitation, carrefour des cultures), nonché della ciliegia e del cerisier beldi. In quanto ipostasi eteree esse idealizzano, cristallizzano la storia sociale e politica della città di Sefrou – dei suoi abitanti e del suo festival – reinterpretata a partire dal riconoscimento UNESCO che, a detta degli amministratori locali, ha segnato il punto massimo dello sviluppo culturale locale. Il risultato fu, dunque, la produzione di un corpus di conoscenze reificanti, in parte trasfiguranti, sulla ville e sul Festival, che si espressero attraverso la mitizzazione della Sefrou odierna alla luce del suo glorioso passato agricolo (non di rado in questi scritti Sefrou è ancora chiamata “Oasis sans palmiers”, “Jardin du Maroc” o “Ville des cerises”).

In questi testi assai di rado si fa menzione del fatto che alla metà degli anni Cinquanta i ciliegi dell’oasi di Sefrou furono falcidiati da un’epidemia di coleotteri buprestidi o che nel corso degli ultimi trent’anni in seguito alla sregolata crescita delle periferie, a una furia edilizia incontrollata e alla cementificazione delle aree verdi, si è assistito alla totale scomparsa dei ciliegi nella città. Oltre alle cronache degli anni Cinquanta e a poche altre eccezioni, le produzioni letterarie recenti, di stampo perlopiù celebrativo e/o promozionale, tacciono, per ovvie ragioni, il fatto che nella città delle ciliegie, in cui si festeggia un festival delle ciliegie, per di più iscritto alla ICH list, non crescono i ciliegi. Il simbolo stesso della ciliegia si deterritorializza ed entra a far parte di circuiti translocali e transnazionali (cfr. Appadurai 1986, 1996; Gupta, Ferguson 1997), pur conservando un legame profondo con il territorio da cui trae origine. Molteplici sono i tentativi di ri-territorializzazione del bene patrimonializzato, che deve essere allo stesso tempo patrimonio dell’umanità e marchio identitario per la comunità locale. L’ingresso del Festival nella ICH list ha dunque dato il via a fenomeni di oggettivazione culturale, come pure di essenzializzazione identitaria; le “qualità” culturali, come l’“autenticità”, la “tradizionalità”, la “tipicità” del Festival, della comunità che lo celebra e della ciliegia, divennero a Sefrou risorse di un’economia simbolica dell’immaginario (Palumbo 2010: 67).

Stand dedicato alla vendita delle ciliegie con foto di Re Mohammed VI, centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou. Foto di Daria De Grazia

Stand dedicato alla vendita delle ciliegie con foto di Re Mohammed VI, centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou (ph. Daria De Grazia)

Un’antropologia dei processi di patrimonializzazione che tenga conto della complessità di tali operazioni deve necessariamente far propria una concezione plastica e dinamica del patrimonio, che guardi alle sue innumerevoli declinazioni, che interpreti, dunque, il patrimonio come «mondo di azioni plurali», spesso conflittuali (Clemente 2011: 14); infatti, le vicende patrimoniali del Festival des Cerises, come si vedrà a breve niente affatto lineari, sono una chiara espressione delle stereotipizzazioni perpetrate dall’UNESCO (Fournier 2014, 2019) e testimoniano delle enormi impasses che connotano strutturalmente i processi di patrimonializzazione e che riguardano i rapporti tra agenzie transnazionali, Stati-nazione e comunità locali. 

Abdellatif Maazouz, Président du conseil régional de Casablanca-Settat, ex Ministre du commerce extérieur, proveniente da una vecchia famiglia sefrioui, venne eletto Sindaco della città di Sefrou nel giugno del 2009. La sua posizione di Ministro e la sua vicinanza a Sua Maestà Re Mohammed VI gli resero più agevoli gli uffici connessi all’iter di candidatura del Festival che poté godere, nel 2010, di un budget di dieci volte superiore a quello delle precedenti edizioni. In più, da quello stesso anno, il Festival incominciò a beneficiare di una donazione reale annuale. In seguito alla risposta negativa della Direzione del patrimonio culturale di Rabat alla proposta, presentata dal Comune di Sefrou, di iscrizione della medina alla lista del patrimonio mondiale dell’umanità (rifiuto decretato in seguito a un sopralluogo avvenuto tra il 2003 e il 2004, e motivato dalla mancanza di originalità della proposta – la WHL contava già la presenza di diverse medine marocchine – e soprattutto dalla criticità dello stato di conservazione in cui versava l’ancienne medina di Sefrou), da Rabat giunse alla Municipalité di Sefrou l’invito a valutare l’opzione di candidare un elemento del patrimonio immateriale sefrioui. Come mi raccontò Ahmed Skounti (antropologo, professore all’Institut National des Sciences de l’Archéologie et du Patrimoine e facilitatore UNESCO): 

«La scrittura del dossier non è stata semplice… c’erano tante questioni, questioni relative alla politica locale soprattutto. Cosa ci si guadagnava da questa iscrizione? C’erano le associazioni civili che non erano contente di come i rappresentanti delle autorità stavano gestendo la cosa… Le persone erano state illuse anche perché, a volte, i politici locali per mobilitare le persone dicevano: “L’UNESCO ci aiuterà!”, economicamente, intendevano. Insomma, dicevano cose non vere». 

La produzione di una documentazione da sistematizzare in un «Archivio della città e del suo festival» figura, nel formulario di candidatura, alla voce «misure di salvaguardia proposte», assieme alla costituzione di un polo museale finalizzato sia alla promozione delle conoscenze tecniche e culturali relative all’agricoltura tradizionale delle ciliegie, sia alla divulgazione della storia del Festival. Rachid Ahmed Cherif, attuale Président du Conseil Municipal di Sefrou, afferma che questi rappresentano ormai dei propositi la cui realizzazione si rende sempre più improcrastinabile.

Una delle questioni che contraddistinse l’iter di patrimonializzazione del Festival riguardò le difficoltà incontrate, tanto dai valutatori quanto dai richiedenti, nella definizione dell’elemento patrimoniale tramite le categorie e i “settori” UNESCO. Nel Festival delle Ciliegie si fondono, difatti, attività assai eterogenee. Dal documento che attesta l’iscrizione si evincono chiaramente le titubanze dell’Organo sussidiario su alcuni punti contenuti nel dossier di candidatura. Le incertezze concernevano sostanzialmente, per prima cosa, la non chiara identità dell’elemento (i compilatori del dossier avevano scelto quattro dei cinque settori dell’ICH); in secondo luogo, la “professionalizzazione”, nello specifico l’importanza crescente del concorso di bellezza nell’economia generale del festival. In seguito all’intervento favorevole di alcune delegazioni, si decise, infine, per l’esito positivo della richiesta.  Il “botta e risposta” tra l’UNESCO e il Comune di Sefrou consistette, in estrema sintesi, in una dinamica tortuosa in cui l’Organizzazione tentò invano di indirizzare progressivamente gli scrittori del dossier verso un aggiustamento terminologico più incline alle retoriche del sentimento locale e meno orientato alla professionalizzazione dell’evento, professionalizzazione che, nell’ottica dei compilatori, avrebbe dovuto riguardare tanto i momenti festivi cruciali, in particolare la selezione e l’incoronamento della Reine des cerises, quanto, più in generale, il settore agricolo i cui avanzamenti costituiscono, a ben vedere, il principale oggetto dei festeggiamenti. Tali esigenze erano avvertite dai compilatori come imperative al fine di garantire la salvaguardia e la perennità dell’elemento.

Stand dedicato alla vendita di prodotti biologici, centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou. Foto di Daria De Grazia.

Stand dedicato alla vendita di prodotti biologici, centesima edizione del Festival des Cerises, Sefrou (ph. Daria De Grazia)

La corrispondenza tra professionalizzazione e mondializzazione che contraddistingue la policy degli organizzatori del Festival costituì, per l’UNESCO, un’altra questione critica. L’affidamento di alcuni settori chiave dell’organizzazione dell’evento a società esterne, professioniste del settore, con la consequenziale drastica riduzione del peso degli attori locali dalla gestione dell’evento, si allontana in maniera considerevole, in questo caso, dai prototipi UNESCO. Infatti, la Convenzione del 2003, com’è noto, stabilisce che gli Stati contraenti debbano impegnarsi nel coinvolgimento di una pluralità di attori patrimoniali locali. Spettando ai singoli Stati (che a loro volta delegano molto di tale compito alle istituzioni locali), le attuazioni della “partecipazione” si rivelano assai diversificate. Molti problemi sorgono, tra l’altro, nel rapporto tra Stati-nazione e agenzie transnazionali, e sono connessi in larga parte alle modalità stesse di funzionamento previste dal progetto di salvaguardia portato avanti dall’UNESCO, detto altrimenti, al suo «universalismo burocratico» (Barnett, Finnemore 1999, 2004).

Lo studio antropologico di questi fenomeni richiede pertanto la realizzazione di un’etnografia dei discorsi nazionalistici (nonché delle pratiche amministrative) di uno Stato-nazione, in quanto discorsi che tendono a produrre individui collettivi essenziali mediante la costruzione e l’appropriazione di cose culturali naturalizzate. L’azione di organismi transnazionali e, più in generale, la sempre più importante affermazione di un ordine economico e politico di tipo globale, non hanno comportato l’eclissi dello Stato–nazione. Al contrario, molte ricerche etnografiche hanno ormai ampiamente dimostrato che tali processi, senz’altro portatori di profonde ristrutturazioni culturali, hanno tuttavia costituito al contempo dei limiti e degli stimoli all’azione dello Stato, costretto a riarticolare le dinamiche del suo funzionamento attraverso processi di creazione della località e di produzione di socialità (cfr. Herzfeld 1992). Nei contesti maghrebini e, in generale, nelle società a maggioranza musulmana, in cui il concetto stesso di patrimonio è saldamente (e fino a poco tempo fa esclusivamente) ancorato alla produzione teologica, scientifica e letteraria sostenitrice dell’Islam (cfr. Skounti 2004, 2009), con la consequenziale tendenziale esclusione del patrimonio antislamico e delle manifestazioni culturali non libresche, le simbologie UNESCO appaiono assai rarefatte.

image-1Senz’altro l’esistenza di “nemici” influenti del patrimonio immateriale (i cosiddetti “nazionalisti”), il radicamento storico e culturale di una concezione materiale ed elitista del patrimonio, rendono più complicata l’applicazione di un’azione patrimoniale statale unitaria. Gli “ostacoli” a una presa in carico della gestione del patrimonio culturale immateriale marocchino sono da ricollegarsi, poi, alla centralità strutturale dello Stato-nazione nella patrimonializzazione UNESCO, vale a dire non soltanto delle sue procedure giuridiche e amministrative, ma dei valori su cui si fonda la cultura europea (le nozioni di “individuo”, di “gruppo”, di “identità” ecc.), di una determinata concezione della storia, di un’attitudine nostalgica che tende a “monumentalizzare” la tradizione e che vede quest’ultima come il risultato sedimentale della progressione delle civiltà (Lowenthal 1985; Handler, Gable 1997).

Il Marocco, come tante altre giovani nazioni extra-occidentali, si ritrova a dover recepire e acquisire i termini di una gerarchia valoriale globale orientata alla produzione della località e dell’autenticità. Questa complessa sfida si inserisce all’interno di quel processo culturale ed economico, iniziato ufficialmente con l’instaurazione dei Protettorati, di «occidentalizzazione dell’ordine politico» (Badie 1992), fenomeno, allo stesso tempo, di esportazione e di importazione, che nell’era della mondializzazione rivela molta della sua ambivalenza. La convergenza di interessi delle élites autoctone e alloctone in Marocco rese possibile l’instaurazione di una logica della dipendenza di matrice essenzialmente politica e culturale, che trovò, pertanto, il suo perno nell’istituzione dello Stato nazionale. In quel frangente, molte delle classi dirigenti del “Sud globale” furono chiamate a un’operazione di sistematizzazione del loro patrimonio interno e all’accettazione di un rapporto di sottomissione clientelare verso l’esterno. L’importazione delle pretese universalistiche della diffusione del modello statale occidentale – affermazione del principio della territorialità su quello dei legami comunitari, creazione di un sistema normativo fondato sul diritto occidentale, instaurazione di equilibri transnazionali che si articolano sul principio della sovranità statale – si risolve, in Marocco, come in altri Paesi del Sud globale, in un’oscillazione tra “accettazioni” e “rifiuti”, e si scontra ineluttabilmente con una serie di resistenze politiche e culturali interne. 

fete-des-cerisesLa vita politica della ciliegia 

La scomparsa dell’albero di ciliegie dalla città di Sefrou costituisce, a livello locale, un dispositivo simbolico attraverso cui molti abitanti reinterpretano il corso degli eventi, la storia di Sefrou e la storia del Festival, elaborando narrazioni alternative alle retoriche dominanti. Non di rado in questi contro– discorsi il riconoscimento UNESCO segna un decisivo turning point, sancendo la politicizzazione e occidentalizzazione della festa, decretando, di fatto, l’eliminazione della componente civile dall’organizzazione dell’evento, e provocando una serie di profonde spaccature sulla scena locale (cfr. Buonvino 2024).  Hamdi, ex segretario generale dell’Associazione Fête des Cerises, estromessa dall’organizzazione del Festival nel 2016, ritiene che «la storia dell’albero» rappresenti «la faccenda più delicata e meno discussa dai politici locali». Molti abitanti di Sefrou rimproverano agli organizzatori di muoversi verso un modello festivo occidentale urbano, svalorizzando e marginalizzando le manifestazioni culturali locali. Tali dinamiche sono alla base di un processo di radicale riconfigurazione dell’immaginario della località. Che cosa rappresenta il ciliegio nell’immaginario degli abitanti di Sefrou?

Secondo Mohammed, preside di scuola elementare: 

«In passato Sefrou era piccola e affascinante. Era davvero le jardin du Maroc. Amo ancora questa città, ma adesso di jardins quasi non ce n’è traccia a Sefrou e le ciliegie… e parliamone di queste benedette ciliegie! Se io dico “Festival delle Ciliegie”, patrimonio dell’UNESCO, tu pensi che qui ci sono un sacco di ciliegie… È questo il problema: non ci sono ciliegie qui; a 20 km da qui, come minimo, ce ne sono. Perché questo festival si conservi e conservi un minimo di credibilità è necessario che si pianti almeno un ciliegio in ogni giardino. Prima ce n’erano… adesso ci sono solo case. Non so come sia potuto accadere, intendo dire, che un ciliegio sia diventato un immobile!». 

La costruzione sociale dello spazio (Low 2017) a Sefrou si articola attorno, da una parte, all’assenza dell’albero e, dall’altra, alla forte presenza simbolico-identitaria della ciliegia nell’immaginario (g)locale. Alcuni recenti interventi topografici commissionati dal Comune di Sefrou hanno mirato a ratificare il motivo identitario della ville des cerises inscrivendolo negli spazi cittadini simbolicamente più rilevanti. Nella piazza principale, che separa la sede del Comune da quella della Provincia (situate l’una di fronte all’altra), capeggiano tre mastodontiche ciliegie in bronzo. L’altra scultura che abitava lo spiazzo fino al 2019 era un grande globo terrestre. Le due rappresentazioni scultoree istituiscono un collegamento tra la città di Sefrou e il resto del mondo, nel segno della “ciliegia”, eletta a principale simbolo identitario incaricato di rappresentare la località sefrioui in un contesto globale.

19756328_859733307526873_8955749934568553758_nAccedendo alla città si incontra la scritta “I LOVE SEFROU” presso cui i visitatori sono soliti scattarsi delle fotografie. La parola “love” è sostituita da un cuore con un picciolo. A qualche metro di distanza un altro segnale ci ricorda che stiamo per varcare la soglia oltre la quale si estende la città delle ciliegie: una lastra di gesso scolpita raffigurante Bab ‘Mkam, la porta di ingresso principale alla medina; al centro, in alto, figura la scritta “Sefrou, Jardin du Maroc” e nell’angolo in alto a destra si trovano due piccole ciliegie in bronzo.

Il ciliegio in questo senso si definisce come “artefatto politico” (Rival 1998) e artefatto patrimoniale. Infatti, attraverso i discorsi prodotti intorno all’assenza dell’albero di ciliegie si esprimono e si interpretano malesseri sociali e divergenze politiche, ma non solo. La costruzione dell’identità sefrioui si definisce attorno al forte contrasto tra la rappresentazione di un passato immaginifico e festivizzato connesso al mondo ‘agricolo’ (cfr. Broccolini 2014) e le difficoltà di abitare spazi urbani sempre più sregolatamente cementificati. Brahim, giovane storyteller, ci dice: 

«Si vendono i terreni per la costruzione di immobili. Sefrou ha cominciato a essere un po’ troppo cara. I prezzi salgono ed è soprattutto una questione di malagestione politica che consente e incentiva la speculazione edilizia. Prima le persone credevano nell’agricoltura: mio padre era contadino e il suo terreno se lo teneva stretto! Adesso invece tutti a vendere i terreni, perché conviene così. “Questa è la città delle ciliegie”, dicono. E allora dov’è l’albero e assieme a esso il mondo che stiamo lasciando scomparire?». 

La rappresentazione della Sefrou rievocata nostalgicamente da Brahim e da altri interlocutori – di quel «gioiello che sfidava l’Atlante», come la definì Hassan II – pone il ‘vuoto’ prodotto dall’assenza degli alberi di ciliegio al centro di narrazioni alternative attraverso cui i cittadini di Sefrou reinterpretano agentivamente il senso dei luoghi (Feld, Basso 1996), riconfigurano l’orizzonte delle attese, facendo proprie le retoriche e le terminologie patrimoniali.

1189Il recente tentativo statale di riterritorializzazione dell’albero di ciliegie – che avviene soprattutto attraverso la redistribuzione della diplomazia culturale statale (cfr. Buonvino 2024) –  risponde a una necessità di ancoraggio del festival al territorio. Come si è detto, in occasione del centenario del Festival, cento ciliegi sono stati piantati nelle aree verdi della città e l’organizzazione dell’evento è stata presa in carico dal Ministero della Cultura. Operazioni di questo tipo rientrano nel quadro di una specifica agenda politica nazionale e, in questo caso, il processo di patrimonializzazione UNESCO, come abbiamo visto, da un lato, sostiene ulteriori processi di patrimonializzazione interni allo Stato- Nazione, dall’altro, come testimoniano le complesse vicende patrimoniali del Festival sopra presentate, costituisce un ostacolo a quegli stessi processi. I diversi livelli implicati interagiscono in maniere perlopiù conflittuali. Tali conflitti hanno a che fare, anzitutto, con l’incontro/scontro tra diverse politiche e retoriche dello sviluppo (Olivier de Sardan 1995; Long, Long 1992; Abram, Waldren 1998). La ciliegia si situa, pertanto, al centro di processi di socializzazione e di mediatizzazione performativa delle politiche agricole e dei disegni di sviluppo statali, e, parallelamente, rappresenta localmente un ‘vuoto’ simbolico che definisce fortemente l’abitare e i processi di immaginazione dell’identità sefrioui.

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
 [*]  Il primo paragrafo è stato scritto da Michela Buonvino e Daria De Grazia, il secondo da Michela Buonvino e il terzo da Daria De Grazia.
Note
[1] La strategia «Génération Green 2020-2030» vorrebbe consolidare i risultati ottenuti in termini di crescita e sostenibilità del settore agricolo, nel quadro del Plan Maroc Vert (2008) e opera in sinergia con altre iniziative inaugurate dal sovrano, come il programma nazionale di approvvigionamento di acqua potabile e dell’irrigazione e il programma integrato di sostegno e di finanziamento delle imprese.
[2] Il turismo rurale conobbe, in quegli stessi anni, un incremento considerevole. Ciò fu alla base di quella che è stata definita una «patrimonializzazione importata» (Cfr. Yerasimos 2006) che ha dato il via, tra l’altro, a un processo di polarizzazione crescente tra un «patrimonio degli stranieri» e un «patrimonio dei locali», cfr. Michon et al. 2016).
[3] Si pensi, ad esempio, alla cooperazione tra l’Oriental et la Regione Champagne-Ardenne, a sostegno della certificazione IGP della «Clémentine de Berkane» e della «Viande d’agneau Béni Guil»; alla cooperazione tra la Regione di Tanger-Tétouan e la Regione Provence-Alpes-Côte d’Azur per un progetto di salvaguardia e di valorizzazione del patrimonio rurale sul modello dei parchi regionali francesi.
[4] Al festival del 2014, ad esempio, le ciliegie rappresentavano solo il 3,8% dei prodotti esposti negli stand; gli altri prodotti in esposizione, in ordine crescente, appartenevano alle seguenti categorie: servizi di banche e assicurazioni (11,4%), prodotti dell’artigianato (19%), altri prodotti del territorio (22,7%), servizi della comunicazione (43,5%) (cfr. Michon et al 2016).
[5] Nel 2019 il Plan Maroc Vert ha accordato un rilievo particolare all’agricoltura delle ciliegie nell’ambito delle politiche agricole solidali nei confronti della piccola impresa (Pilier II) per un investimento complessivo di circa 15 MDH (milioni di dirham).
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Michela Buonvino è attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi del Molise e si occupa di patrimoni bioculturali e di rigenerazione territoriale a partire dal lavoro a base culturale. È docente a contratto di antropologia del mondo globale contemporaneo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (SIE). È dottoressa di ricerca in M-DEA/01 (Sapienza Università di Roma). Dal 2018 conduce una ricerca sul campo a Sefrou e a Fès (Marocco). La sua tesi di dottorato concerne le relazioni tra performance culturali, politiche dell’identità e processi di formazione di una sfera pubblica islamica nel Marocco contemporaneo. Si occupa, inoltre, di processi di patrimonializzazione, eventi festivi e migrazioni. 
Daria De Grazia, antropologa e specializzanda presso la Scuola di specializzazione in Beni Demoetnoantropologici di “Sapienza” Università di Roma, si occupa di patrimoni immateriali, musei DEA, religiosità, migrazioni e antropologia visiva. Dal 2018 conduce una ricerca etnografica con la comunità peruviana di Roma e dintorni sulle tematiche del festivo e delle migrazioni. Attualmente lavora sul campo a Marta (VT) e a Serino (AV) nell’ambito del progetto PRIN 2020 “Abitare i margini oggi. Etnografie di paesi in Italia” e sta effettuando una ricognizione di musei ed ecomusei di interesse antropologico nell’ambito del progetto PRIN 2022 “Musei ed ecomusei. Spazi patrimoniali di partecipazione attiva”. 

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