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Introduzione al pensiero complesso

9788804668022_0_536_0_75di Claudia Calabrese 

Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale […] E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio (I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972). 

Vale sempre, ma ci sono momenti nella storia di ciascuno di noi, delle società, del mondo, in cui è necessario, più che in altri, tenere dritta la schiena, affinare capacità di analisi e di scelta, essere consapevoli che l’egoismo che cova sotto la cenere del disinteresse conduce a stringere patti con l’inferno, qualsiasi cosa significhi, di cui diventiamo complici fino a non vederlo più. Comprendere la realtà nella quale siamo immersi, specialmente in questi giorni così angosciosi, dipende da noi, dal nostro amore per la vita, in relazione con la conoscenza che veramente conta, e dalla disponibilità a vederne tutte le contraddizioni e ambiguità, come ci ha insegnato anche Pier Paolo Pasolini.

Si sa, i grandi autori di ogni tempo ci vengono in soccorso, a patto che impariamo a custodire il fuoco vitale, carico di futuro, che ci consegnano con le loro opere. Perché quel fuoco non si spenga servono l’attenzione e l’apprendimento continui di cui scrive Calvino, che comportano anche l’onere di fare delle scelte, spesso difficili. Imparare a comprendere la realtà, a volte anche per trasformarla, imparare a capire come ci rapportiamo ad essa e alla conoscenza, imparare anche cos’è la conoscenza, scegliere, è necessario proprio a tutti: alla vita individuale, alle società, alla politica. Necessario a cosa? A dare una direzione e un senso alla nostra vita presente e a proteggere il futuro, nostro, di chi verrà dopo di noi, e persino del pianeta in cui viviamo, riprogettandolo con autonomia culturale e morale e senza paura che è un sentimento antico quanto il mondo e da sempre incanala verso una qualche forma di sudditanza.

9788857591087_0_536_0_75Quando si fanno delle scelte qualcosa si prende e qualcosa si lascia. È questo il punto: «cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Si tratta di aprire gli occhi, scuoterci dal torpore e dall’inerzia, come ci invita a fare Edgar Morin con il suo ultimo pamphlet dal titolo inequivocabile: Svegliamoci! (Mimesis, Milano; Udine, 2022) nel quale delinea, non solo per Francia ed Europa ma per l’intero Occidente, una sorta di programma politico con argomenti essenziali, grandi quanto il mondo, e radicali. Il discorso è articolato in appena settantacinque preziosissime pagine, chi desiderasse approfondire troverebbe le fondamenta in decine di libri, in particolare nei sei libri del suo “Metodo”.

Dare spazio al confronto con questi testi è importante per costruire una via d’uscita ragionevole da una crisi talmente complessa – la stessa che Emanuele Severino ha chiamato la “follia” del pensiero occidentale – da rendere urgente un approccio transdisciplinare e umanista, solo vivaio di un pensiero critico che ci avvii verso politiche civili e responsabili, solidali ed ecologiche. Conviene accogliere dunque l’invito e sondare l’intreccio densissimo di relazioni del pensiero di Morin, complesso come la realtà.

chat«Non sappiamo cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo». È da qui che bisogna partire, dalla consapevolezza di non sapere, per pensare pensieri nuovi all’altezza del nostro tempo. Con questa citazione di Ortega y Gasset, Edgar Morin – che punta nientemeno alla mente umana, con i suoi poteri ipersviluppati sul mondo fisico e su quello vivente, ma sottosviluppati rispetto a tutto ciò che è umano – inizia il suo discorso, mette sotto la lente d’ingrandimento la formazione del pensiero occidentale a partire da Aristotele e arriva all’amara considerazione che la crisi è radicale, investe il pensiero ed equivale a una crisi epistemologica. Non riguarda, cioè, soltanto i  processi politici, ma quelli sociali e, soprattutto, culturali e morali. Le coscienze individuali, in Occidente e non solo in Europa, sembrano essere entrate in un vortice dentro il quale il pericolo di uno smarrimento ha già prodotto dei frutti avvelenati. Se a questo aggiungiamo il problema kantiano dell’etica, di primaria importanza per il nostro pensiero e le nostre azioni – «Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale che è in me» – si rischia di ritornare a un mondo arcaico, non quello sognato da Pasolini, ma barbarico o addirittura preistorico.

«La potenza senza coscienza – scrive Morin – è solo la rovina dell’anima» (ivi: 59). Sembra di ascoltare Lewis Mumford (1895-1990), che dice la stessa cosa accennando allo sviluppo abnorme dell’intelligenza artificiale. «Il transumanesimo – continua Morin – porta a una metamorfosi antropologica nella quale l’umano diventa allo stesso tempo metaumano, sovrumano e postumano. Fondato sulle nuove possibilità di intervento biologico (cellule staminali, modifiche del DNA e dei telomeri, organi artificiali), il transumanesino […] maschera il vero problema dell’umanità, che non consiste nell’aumento quantitativo dei suoi poteri ma nel miglioramento qualitativo delle condizioni di vita e delle relazioni fra gli uomini» (ivi: 36,38).

locandina-film-2001-odissea-nello-spazio-1968Quella che Pasolini chiamava “mutazione antropologica” è arrivata ad approdi tali da rendere difficile un riscatto in tempi brevi, o medi. Al presunto sapere tecnologico che rende l’uomo una protesi di macchine sempre più sofisticate, più o meno “intelligenti”, o “stupide”, e comunque senza alcuna anima, al «trasformatore pre-istruito generatore di conversazioni» che circola con il nome di ChatGPT, alla funzione frastornante e deresponsabilizzante dei media, causa di una sconvolgente trasformazione umana, alla contraddizione tra l’essere sempre più sommersi da informazioni, ma disinformati e ignoranti e sempre meno in grado di comprendere la realtà si aggiunge l’intelligenza organoide. Attenzione, non intelligenza “artificiale”, ma “organoide”. Che significa? «Intelligenza artificiale, ma con un tocco di umanità» scrive Sandro Iannaccone su Wired Italia, giocando ambiguamente con il significato della parola “umanità” [1], in relazione alle ricerche che si stanno portando avanti nei laboratori della Johns Hopkins University di Baltimora.  

L’obiettivo è quello di creare un computer che lavora con vere cellule nervose umane, il cosiddetto biocomputer. I neuroni tratti dalle cellule staminali sono molto più potenti, elastici, ed efficaci di qualsiasi fibra al silicio o microchip: puoi contare su di loro, pare, per lo sviluppo dell’intuizione, del pensiero laterale e delle facoltà intellettive che servono per volgere al meglio fenomeni di serendipity. Il genio di Kubrick aveva inserito dentro quel capolavoro che è 2001 Odissea nello spazio del 1968, Hal 9000, un computer che prova dei sentimenti, ha coscienza di sé e della propria infelicità e provoca disastri sulla navicella e anche qualche omicidio per difendersi da una possibile neutralizzazione. Eccolo, ci stanno lavorando.

Naturalmente, tutto questo pone dei problemi etici di primaria grandezza perché ogni scoperta può incrementare il bene, ma anche il male. Li chiamano “computer biologici”, ma è evidente che si pensa a un uomo completamente costruito in laboratorio, con le sue funzioni motorie e psichiche, magari ricorrendo anche a innesti che provengono dal mondo inorganico, come ipotizza quel genio di Philip Dick nel libro Il cacciatore di androidi dal quale verrà tratto il film Blade Runner di Ridley Scott. Questo sta già avvenendo oggi, non domani o dopodomani, sembra irreversibile, e spinge nella direzione di un praticismo nichilista che azzera l’empatia, cioè la capacità di “sentire” l’altro, quindi anche sé stessi e la realtà.

91osz736olE l’umanesimo? È una crisi del pensiero? Ci interroghiamo con Edgar Morin. Del pensiero tout court, non di un dato modo di pensare: del pensiero e del linguaggio, una crisi generalizzata che non riguarda solo i rapporti tra gli esseri umani, ma la vita tutta, compresa la vita del pianeta. O invece, aggiunge Morin, siamo presi da una specie di sonnambulismo generalizzato? Tutt’e due direi, stretti in un intreccio inestricabile, simile a quello tra il bene e il male. Come uscirne?

Morin non si limita ad analizzare e a denunciare una situazione, che è diventata ancora più insostenibile per l’estrema parcellizzazione del sapere che impedisce a ognuno, anche al più smaliziato, un minimo di visione d’insieme della realtà. «La nostra educazione ci ha inculcato un modo di pensare incapace di collegare le conoscenze per affrontare la complessità delle nostre vite, delle nostre società, della nostra storia, del nostro tempo» (ivi: 59). I concetti del tutto unilaterali che nascono in ogni campo del sapere, impediscono di cogliere le ambiguità, le ambivalenze, le contraddizioni, e ci rendono impotenti di fronte all’imprevisto: dovremmo sapere che tutto ciò che è umano è bipolare, secondo nozioni apparentemente antinomiche: homo è allo stesso tempo sapiens e demens, faber e mitologicus, aeconomicus e ludens.

Così, il filosofo francese continua il suo discorso e indica delle strade possibili per una lettura più approfondita della realtà, una lettura carica di senso e comunicabile, quindi condivisibile o confutabile non importa, e per la costruzione di un pensiero, con comportamenti conseguenti, che metta al centro dell’attenzione il rapporto tra gli esseri umani, e tra gli esseri umani e tutti i viventi, compreso il vivente planetario. Dice anche da dove, secondo lui, partire e come continuare, accettando e dirigendo verso l’integrazione lo spostamento di masse ingenti di persone che avviene per guerre, persecuzioni, o fame e carestie…

Con la consapevolezza che gran parte delle nostre conoscenze sono parziali, molte anche erronee, e non sempre volutamente, e che perciò bisogna continuare a riflettere su questi temi con gli strumenti del pensiero complesso che ci aiuta a comprendere la realtà globalizzata, mi riservo di affrontare in un prossimo articolo i temi della conoscenza e della conoscenza della conoscenza, sempre con sguardo attento alle ricerche di Morin. Per ora concludo con un esempio di stoicismo che credo ci serva come l’aria perché evoca la ricerca ostinata di un passaggio per uscire dalla bottiglia, o dalla prigione, o dalle nostre più o meno celebrate opinioni, sempre eterodirette. I versi in musica di Francesco Guccini possono accompagnarci in questa ricerca. Facciamola durare, e diamole spazio. 

Cinque anatre volano a sud:
molto prima del tempo l’inverno è arrivato.
Cinque anatre in volo vedrai contro il sole velato,
contro il sole velato …
 
Nessun rumore sulla taiga,
solo un lampo un istante ed un morso crudele:
quattro anatre in volo vedrai e una preda cadere
ed una preda cadere…
 
Quattro anatre volano a sud:
quanto dista la terra che le nutriva,
quanto la terra che le nutrirà e l’inverno già arriva
e l’inverno già arriva…
 
Il giorno sembra non finire mai;
bianca fischia ed acceca nel vento la neve:
solo tre anatre in volo vedrai e con un volo ormai greve
e con un volo ormai greve…
 
A cosa pensan nessuno lo saprà;
nulla, pensan l’inverno e la grande pianura
e a nulla il gelo che il suolo spaccherà con un gridare che dura,
con un gridare che dura…
 
E il branco vola, vola verso sud.
Nulla esiste più attorno, se non sonno e fame:
solo due anatre in volo vedrai verso il sud che ora appare,
verso il sud che ora appare …
 
Cinque anatre andavano a sud:
forse una soltanto vedremo arrivare,
ma quel suo volo certo vuole dire che bisognava volare,
che bisognava volare,
che bisognava volare,
che bisognava volare… 
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
Note
[1] Cfr. https://www.wired.it/article/intelligenza-artificiale-biocomputer-neuroni-umani-studio/ 

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Claudia Calabrese, dottore di ricerca in Storia e analisi delle culture musicali all’Università La Sapienza di Roma, studiosa di musica e letteratura, docente di lettere. Attratta dagli studi interdisciplinari, si è occupata di Giacomo Puccini e di Pier Paolo Pasolini. In Alchimie pucciniane (Accademia di Scienze lettere ed arti di Palermo, 1999) e Manon Lescaut, presagio di una trasmutazione (Avidi Lumi, rivista della Fondazione del Teatro Massimo, 2000) si è accostata all’opera e alla vita del compositore toscano con gli strumenti della psicoanalisi junghiana. Il suo Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances (Diastema Studi e Ricerche, Treviso 2019) ha ricevuto la menzione speciale per l’originalità e il rigore analitico dalla Giuria del XXXIV Premio Pasolini bandito dal Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione della Cineteca di Bologna.

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