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Invertire lo sguardo

 

 copertina-clemente-pdi Pietro Clemente

Riabitare l’Italia

Sto leggendo a marce forzate il libro Riabitare l’Italia. Ci ho anche scritto, ma sto scoprendo ora le parole che ho intorno, anche se in alcuni incontri promossi dall’editore Donzelli avevamo avuto modo di conoscerci un po’ tra autori: non conoscevo il libro nel suo insieme. Nel mio scritto dentro il volume, 15 pagine su 566, ho trattato temi assai noti qui a Il centro in periferia. Ma li ho trattati in una chiave più generale, con il titolo Ibridazioni e riappropriazioni. Indigeni del XXI secolo. In queste pagine ho cercato di connettere gli studi di tradizioni popolari e di antropologia – che sono il mio campo – sul ritorno dei riti e delle feste e sul loro adattarsi e modificarsi per ‘riabitare’ la modernità con il tema dell’abitare i paesi in crisi demografica. Negli uni come negli altri casi si osservano forme di attività che valorizzano i saperi e le pratiche del passato, ma li ri-ambientano nel presente, nel nuovo mondo di tecnologie e di relazioni che esso offre.  In un certo senso si tratta di temi ‘inclusi’ nel concetto di ‘salvaguardia’, nel modo in cui è stato definito a ‘stipulato’ nella Convenzione Unesco del 2003 sul patrimonio culturale immateriale. Tale concetto si può applicare sia alle feste che alle pratiche di ri-abitazione, unite dal tratto comune del ‘trasmettere alle generazioni’, attraverso una trasmissione creativa. Mentre i concetti consueti di conservazione-alterazione e quello giuridico di tutela, sembrano poco adeguati ormai per le loro implicazioni fissiste.  In alcuni casi la salvaguardia come trasmissione e come eredità attiva avviene in modo esplicito.

Nella rete dei piccoli paesi, l’attività dell’Associazione Casa Lussu ad Armungia (CA) ha al centro l’apprendimento della tessitura tradizionale e un progetto di nuovo artigianato che si basa su quello tradizionale. Per me studioso, la documentazione anche visiva di una coppia di quarantenni che apprende la tessitura da una donna novantenne che sorveglia e suggerisce, è emozionante. Tante volte diamo per scontato che le cose del passato scompaiono, ma non sempre siamo pronti a riconoscere che si possono ancora trasmettere, anche in modo ‘estremo’ come nel caso di casa Lussu.  Ma questo dato di eredità-innovazione c’è anche in casi molto diversi. Ad esempio nella Rete dei piccoli paesi il caso della valorizzazione di prodotti agricoli tradizionali (la lenticchia di Rascino, documentata a Fiamignano in provincia di Rieti) comporta questo processo di ‘eredità’ e di innovazione e di adattamento al presente.

Nel collaborare a Riabitare l’Italia, un libro importante per le prospettive delle zone interne, il mio tentativo è stato quello di importare concetti ed esperienze di ricerca della ‘antropologia dell’Italia’ in un contesto di studi in cui prevalgono l’urbanistica, la geografia, l’economia, la storia, la sociologia. In particolare i concetti che vengono da un lato dagli studi sulle tradizioni popolari e sulla cultura materiale, e quelli più recenti sul patrimonio culturale immateriale e i musei, mi sono apparsi assai utili al discorso Riabitare l’Italia. Nel volume tra i 41 autori c’è un altro antropologo che, molto prima di me, si è occupato dei luoghi, dell’abbandono, del ritorno. È Vito Teti che con il suo scritto Il sentimento dei luoghi, tra nostalgia e futuro, affronta una sorta di ‘fenomenologia’ della località, di quella dimensione che Alberto Magnaghi ci ha insegnato a chiamare coscienza di luogo [1], ed è, in un certo senso [2], la pre-condizione del mio testo. Perché è dal considerare i luoghi come unità, come soggetti, come memorie, come sentimenti, come parte essenziale della vita delle persone sia nel ritorno che nell’abbandono, sia nel disprezzo che nella nostalgia, che assume senso il recupero dei temi della tradizioni popolari, dei riti, della feste, dei saperi del patrimonio immateriale che si presentano come parte di un tutto e non disiecta membra di un passato scomparso e qua e là recuperato.  Questa dimensione del luogo come memoria, stile di vita, antenati, sguardi, strade, morti, cultura della festa e cultura della morte, non è presente se non negli studi antropologici.

Così mi pare che abbiamo dato un contributo a una ‘comunità di studi’ in cui siamo stati accolti e, nel diventare di casa, ci sentiamo utili, capaci di arricchire se non integrare discorsi che hanno dimensioni più generali, ma in un contesto in cui tutti sanno quanto è preziosa se non strategica la ‘particolarità’.

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Il lago di Molveno svuotato

 Soste, cicatrici, fermenti

Nella lettura delle pagine di Riabitare l’Italia ho trovato tanti luoghi che mi hanno fatto fermare, riflettere più a lungo, hanno evocato esperienze, bilanci della mia storia intellettuale e politica. Hanno aperto varchi nella memoria, facendomi ricapitolare la vita. Qualche volta si sono riaperte cicatrici.  Il tema del ritorno, dentro il presente e il futuro, delle tradizioni ‘cambiate’ non mi è stato subito chiaro: ho un po’ resistito ad accettarlo, forse coltivando anche il sentimento di una frattura irrecuperabile, una sorta di nostalgia delle alterità passate, che non di rado affligge i ricercatori del mio campo.  Ho lavorato tanto sulla memoria, sui racconti, ma non ho colto la loro potenzialità di risorsa attiva. La mia impostazione iniziale era quella di un approccio storico-sociale.

Restituire dignità e memoria a un mondo subalterno quanto a potere ma attivo, ricco di saperi, dotato di parziali autonomie. Questa era la mia prospettiva anche nel campo museale: conoscere mondi emarginati ma centrali nella vita sociale e produttiva, metterne in evidenza il valore, mettere in scena nel museo le razionalità, le competenze, la povertà di risorse. Solo verso la fine degli anni ’80, anche riguardando i miei scritti, viene ad evidenza un tema: i musei non servono a salvare il passato, ma a salvare il futuro.  Da questa riflessione ho riorganizzato il rapporto col terreno, e anche la missione degli studi, e ho sostituito il museo come storia sociale dei modi di produzione e della dignità dei produttori con il museo che dialoga col presente e mostra che il passato è attivo nel presente, addita la diversità dalla quale il territorio è stato plasmato come ancora attingibile, risorsa che si può investire nel tempo delle generazioni a venire, da subito. Ho ricordato alcune scoperte legate a storie umane di grandi collezionisti di memorie.

Nella sua introduzione L’inversione dello sguardo. Per una rappresentazione territoriale del paese Italia, il curatore Antonio De Rossi cerca di mostrare come fenomeno, possibilità di visione, e al tempo stesso prospettiva del volume, una immagine molto forte. È quella del lago di Molveno, svuotato per manutenzione, e il conseguente definirsi di un paesaggio estraneo, inquietante rispetto all’immagine attuale, al turismo, all’abitudine consueta dello sguardo. Uno spazio altro che nel tempo diventa per gli abitanti uno spazio possibile, il lago svuotato viene visitato, viene ripensato nella storia lunga (è un bacino artificiale), è oggetto di nuova confidenza.

«Nella sua valenza metonimica, la vicenda di Molveno ci racconta di modelli e di sicurezze costruite dalla modernità – e considerate come un dato di sfondo fisso e immutabile – che vengono meno, obbligando a rimettere in discussione e in circolo ciò che era dato per morto, residuale, abbandonato per sempre» (ivi: 4).

È il simbolo della possibilità di ‘invertire lo sguardo’ dalle città alle zone interne, dal mare ai piccoli paesi di montagna o di campagna in crisi.  Sono temi di cui mi sono occupato spesso in assenza di questi contesti progettuali. Il lavoro di ricerca che ho fatto sul tema della ‘Smemoratezza del moderno’ [3] che ha riguardato Manifatture tabacchi e Ospedali psichiatrici, aveva lo stesso segno. Così era anche tempo prima, con meno antropologia e più ‘folklore’ il mio tentativo di definire la prospettiva del mio campo di studi come ‘Il cannocchiale sulle retrovie’ [4]. Ma la cicatrice riguarda soprattutto la memoria di due amici più grandi di me, che mi hanno insegnato a invertire lo sguardo, anche se, forse, in loro era più forte ancora il senso della perdita, la polemica col mondo attuale e con le conoscenze ufficiali di questo mondo, più che non la consapevolezza della possibilità del recupero, del riuso, della salvaguardia. Ma allora era così anche per me. Parlo di due persone incontrate ad Ozzano Taro negli anni ’90. Una era Ettore Guatelli, che aveva creato nella casa colonica della famiglia uno dei musei più originali che ci sia in Europa sulla cultura materiale contadina.

2Guatelli, maestro figlio di contadini mezzadri, era un collezionista ‘ingordo’ come si definiva da sé, ma era anche un uomo curioso. Raccogliendo e interrogando, evocando memorie remote, scopriva cose difficili da sapere. Quante volte ho confrontato il mio sapere di studioso e di ricercatore con questo mondo di dilettanti che alla fine erano dei professionisti di un sapere che loro si erano inventati.  Ho preferito quasi sempre imparare da loro, anziché opporre i mondi. Guatelli mi ha aperto a tanti mondi, dalla mezzadria vista da dentro, alle storie dei marginali creativi come gli orsanti e gli scimmiai, alla genialità della gente che aveva poca terra e poco fertile e doveva ingegnarsi per vivere.  Guatelli era del 1921, Marco Porcella (1935–2001) era genovese, appassionato di storia locale, di storia delle migrazioni, di storia della montagna, intervistatore attento, Marco in realtà era un impresario edile, il cui sogno era fare ricerca sulla vita della gente nelle valli più spopolate, dove erano custodite memorie e esperienze dimenticate di creatività ed inventiva.  A casa ho due suoi libri Maggiolungo. Storie dell’Appennino ligure-emiliano (Genova, Sagep, 1996); Con arte e con inganno (Genova, SAGEP, 1998). Ma forse il più noto è La fatica e la Merica (Genova, Sagep, 1986). Le conversazioni con loro mostravano sistematicamente l’altra faccia della conoscenza, l’inverso del mondo, anche di quello pensato con la storiografia dei modi e dei rapporti di produzione, per lo più povero di dettagli e di scenari vissuti.  Tra i libri di Guatelli quello che più mi ha fatto l’effetto di immaginare mondi altri e possibilità altre della vita è Il Taro e altre storie (Parma, Diabasis, 2006, postumo), dove si racconta di gente esperta che conosce le piante giuste nel fiume, che usa tutto, che conosce palmo a palmo le risorse naturali. Avevo già avuto una esperienza simile seguendo un progetto di Museo della Maremma a Grosseto. Il bosco e le aree malariche, sempre viste come il selvaggio e il minaccioso dalla modernità, si aprivano nei racconti della gente a innumerevoli storie di mobilità, di lavori ricchi di esperienza, tra padule e sottobosco. Tutto veniva usato in un circuito di sfruttamento che corrispondeva con la rinascita della vegetazione o delle risorse del padule, e non trasformava il paesaggio ferendolo.

Con Guatelli sono riuscito a lavorare, e a fare in modo che il suo museo e la sua inquietudine conoscitiva diventassero una risorsa anche degli studi. Lo abbiamo accolto nelle Università di Siena e di Roma come un Bertoldo alla corte del re, felici noi e lui della sue lezioni-fuochi d’artificio. E invece Porcella è morto troppo presto. Ma ora ricordarlo dentro l’immagine dell’inversione nel lago di Molveno è un po’ come evocarlo e farlo vivere ancora. Le sue pagine sulla gente della Fontanabuona, sui mondi migratori che connettevano Emilia e Liguria, Bedonia e Chiavari, restano una risorsa che mi fa piacere ricordare a chi – lontano dai discorsi di quegli anni – non lo ha conosciuto o lo ha dimenticato. Porcella racconta dei montanari che questuavano in giro per l’Europa, specializzati nell’inganno per sbarcare il lunario e nelle invenzioni creative che caratterizzavano le loro doppie vite di ambulanti legati a una difficile terra d’origine.  Anche queste figure di migranti, viaggiatori, girovaghi stanno di diritto qui, dentro lo spazio simbolico di Riabitare l’Italia, restano doni di conoscenza venuti da fuori del nostro mondo di studiosi professionali, per allargarlo e dare ad esso respiro e nuova immaginazione, fuori dei paradigmi.

comunita-alpineValorizzare gli studiosi outsider è stata forse una delle mie caratteristiche di antropologo italiano.  Sono loro che mi hanno spesso fatto incontrare mondi imprevedibili, passioni conoscitive indisciplinate ma ricchissime, capacità di documentazione ‘estreme’. I dibattiti con Guatelli e Porcella vertevano per lo più proprio su questa grande varietà di forme del mondo che la modernità aveva dimenticato, e vertevano sulla grandezza ignorata dei mondi scomparsi. Il museo e la ricerca venivano visti come occasioni e modi per onorare e svelare quella grandezza. Forse nessuno di noi pensava alla possibilità di riutilizzare quei saperi per il futuro. Nodo difficile ma oggi ormai chiaro. Certo, non saranno da recuperare i giri di questua di chi ‘batteva la birba’ per sbarcare il lunario, ma le reti, i saperi del mondo, le ‘multiattività’, la conoscenza dei luoghi e la ‘coscienza di luogo’.

In quegli anni usciva il libro di Pietro Paolo Viazzo, Comunità alpine: ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi (Il Mulino, Bologna, 1990), che portava anche l’antropologia di ricerca su questi terreni e mostrava la forza di avanguardia, anticipazione, duttilità delle popolazioni alpine chiudendo così una stagione di grevi studi positivistici sui gozzi, la endogamia e varie altre negatività dei contesti di montagna.  Non a caso ancora oggi, nella prospettiva di un ‘Riabitare l’Italia’, le Alpi ci fanno da guida. Ci sono due piccole tracce che mi portano ora a una dimensione ulteriore dell’inversione’.

3

Montieri

Adreit/invers

La prima traccia è alla fine della introduzione di Antonio De Rossi al volume Riabitare l’Italia, laddove aggiunge alla sua firma le località dalle quali scrive: Valli valdesi – Venezia  agosto-ottobre 2018.

Le Valli valdesi sono il luogo in cui ho scoperto l’adrei e l’invers. E quindi ho la sensazione che l’invers della inversione che De Rossi ci propone sia legato all’esperienza della vita della montagna. Nel 1981 e 82, durante lo stage di ricerca in Val Geramanasca con docenti e studenti delle Università di Siena e di Aix en Provence [5], ho fatto anche io questa esperienza che è stata molto feconda [6]. Ovviamente sapevo già benissimo di diritto e di inverso, ma senza esserne ben consapevole.  Mi ero occupato tanto di contadini toscani, ma solo dopo mi sono reso conto che anche per loro ‘a bacìo e a solatìo’ sono importanti. Leggendo Italo Calvino de La strada di San Giovanni  [7] sono stato iniziato alla dialettica tra ‘aprico’ e ‘opaco’ che Calvino ritrovava nel ligure ‘abrigu’ e ‘ubagu’. Una vera e propria dimensione della vita che è stata rimossa dal lessico corrente, perché non interessa più, non è al centro.

Nella filosofia del moderno esiste solo l’adreit, l’aprico, il solatìo. Tanto che nella letteratura folklorica dell’800 e in quella positivista tra i due secoli, ma ben incuneata nel ‘900, i villaggi che venivano a trovarsi nell’inverso venivano classificati come paesi degli sciocchi, dotati di minore forza e di minore civiltà. Nel senese era toccato a Montieri, paese montano a bacìo, di essere considerato per la scarsa insolazione il paese degli sciocchi, quello di cui si raccontano ne “Le novelle e i montiereini” le storielle di abitanti zotici e ingenui. Un paese degli sciocchi, si sa, c’è in ogni area storica d’Italia [8].  Si capisce anche da questi piccoli dati periferici, da questo sistema di racconti popolari, come l’inversione dello sguardo sia una cosa di dimensioni gigantesche, dentro la forza di inerzia della modernità.  Quanti paesi avevano come blasone l’espressione ‘di inverno senza sole d’estate senza luna’ per indicare la propria sfortuna e desolazione: a me è capitato Lezzeno sul lago di Como, del quale si diceva ‘Lesen de la malfortuna, d’està sensa sol, d’inverno sensa luna” (lo ricordo così all’ingrosso). Marco Porcella lo aveva già osservato nel suo Maggiolungo, per la frazione Valletti (Varese Ligure, provincia di La Spezia) a l’envers de la Val di Vara: “A l’invernu sensa su, a stae sensa luna, valetin sensa fortuna” (ivi:15).

Ma aveva anche segnalato per la Val Sissola la particolare povertà dei suoi tre villaggi: Alpe, Setterone e Strepeto, riconosciuta dal blasone popolare: Arpe, Seteùn e Strepéi/ pe fane un bun ne serve trei (per farne uno buono ne servono tre) (ivi:33). Porcella le chiama forme di ‘maldicenza geografica’. Nell’ambito delle tradizioni popolari la forma di denominazione più nota è il blasone popolare.

Quando studiammo la Val Germanasca fu facile capire che l’Istituto Geografico Militare aveva dato al paesaggio nomi sommari rispetto a quelli che venivano usati localmente. Indiritti era una traduzione di ‘adreit’ e divenne un toponimo. La modernità geografica aveva fretta di sottoporre il territorio alle proprie regole ‘oggettive’, non di tener conto dei punti di vista del paesaggio vissuto. Per porre questo al centro occorreva aspettare la Convenzione Europea del Paesaggio del 2000, ancora non fortemente capita e usata dalle istituzioni. Ci sono voluti un centinaio d’anni per l’inversione dello sguardo.

4Zone interne 

Il volume comincia con L’inversione dello sguardo (De Rossi) e termina con Immagini, sentimenti e strumenti eterodossi che è il titolo delle Conclusioni di Fabrizio Barca. Fabrizio Barca è l’economista, che, da Ministro della Coesione territoriale nel governo Monti, ha dato una impronta particolarmente forte al tema del Riabitare l’Italia, con la nascita della SNAI (Strategia nazionale per le aree interne), la crescita di una esperienza di studio e di intervento pubblico nei territori a rischio ma dotati anche di potenzialità di sviluppo locale. Il suo scritto mi ha colpito anche per un lessico particolarmente innovativo nel parlare del territorio.  Secondo Barca, i progetti di sviluppo trascurano sempre l’Italia reale dei territori e si basano su indici per lo più non territorializzati, e sottolinea che questi approcci trascurano la granularità del territorio dei processi economici, sociali e culturali che caratterizzano la contemporaneità e che producono confini territoriali assai fini.

«In Italia la granularità è molto forte per via della straordinaria diversità climatica e biologica e poi antropologica, insediativa e culturale del nostro Paese. Una diversità talora anche fra luoghi assai vicini, che ha origini nell’elevata ‘rugosità’ del Paese. Questa rugosità ha prodotto differenze di esposizione al sole e ai venti, di umidità, di temperatura, di vegetazione, di specie; e quindi attrazione per l’insediamento permanente di etnie le più varie e la preservazione e rigenerazione delle loro culture; e si è così arricchita di diversità di linguaggi, di atteggiamenti, di cibi, di musiche, di gesti. A distanza di pochi chilometri gli uni dagli altri» (ivi: 554).

copertina-volume-e1491408323471-552x500Tornano qui le immagini dell’adreit e dell’invers, dei blasoni popolari, delle diversità tra vicini e contigui. Mi ha colpito questo lessico che cerca di antropomorfizzare un universo geologico e pedologico complesso, farlo immaginare con dei sostantivi di esperienza fisica umana come la granulosità e la rugosità. Nelle sue pagine è forte la critica della programmazione economica priva di coscienza dei luoghi e la critica del ‘neo-centralismo compassionevole’ o della patrimonializzazione come ‘magica’ risorsa di sviluppo locale. Forte la segnalazione della esigenza di alleanze nuove tra soggetti sociali e ‘luoghi’, tra luoghi tra di loro. Che è anche il tema da cui nasce la rete dei piccoli paesi e lo sforzo di riflettere e raccontare l’esperienza nelle pagine de Il centro in periferia. Così la lotta ai dualismi del senso comune, l’esigenza che nel lavoro dei luoghi si operi sulle coscienze e sui progetti, perché «il cambiamento richiede che la costruzione di ‘immagini di futuro’ da parte dei singoli territori si accompagni, avvenga assieme, alla ‘costruzione di immagini di futuro a scala nazionale’»(ivi: 565).

Su questi temi c’è stata attenzione in questi anni, e alcune realtà regionali hanno saputo esprimere capacità di osservazione e riflessione, in sintonia sia con i temi e i modi della SNAI sia con le tematiche più generali ‘territorialiste’ rappresentate dalla Società dei Territorialisti e dagli studi di Alberto Magnaghi. Penso in particolare al volume Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani [9] che fa riferimento alla nascita presso l’Università del Molise di un Centro di ricerca dedicato alle Aree Interne e agli Appennini (ArIA).  Le riflessioni contenute hanno per oggetto uno scenario sia regionale che nazionale, e affiancano le pratiche di sviluppo locale, che da questi scenari possono trarre vantaggi conoscitivi e suggerimenti [10].

5-pratobello

Pratobello, 1969

Ricordi e pecore

Il 1969 è il 50° anniversario delle lotte sociali italiane, dell’autunno caldo, per me è anche la memoria della lotta per i pascoli a Orgosolo, gli scontri di Pratobello, occupata dall’esercito. Tanti anni dopo un volumetto ricordava “Pratobello”. Storia e cronaca di una lotta di popolo. In quell’anno insegnavo all’Istituto Magistrale di Iglesias, facevo parte del Collettivo Insegnanti del Movimento Studentesco e si fece una grande manifestazione a Cagliari a sostegno delle lotte dei pastori, “Concimi e non proiettili per i pascoli di Orgosolo” era lo slogan guida.

murales_di_orgosolo_rivolta_pratobelloIn quegli anni Zone Interne in Sardegna significava criminalità. La SNAI non era nemmeno nell’immaginazione del possibile. Il fatto che esista va sempre ricordato come un segno dei cambiamenti che ci sono stati.  Bisogna sottolineare anche il grande cambiamento della Sardegna avvenuto dopo la fase dei sequestri e il riconoscimento di dignità e di successo al mondo pastorale sardo che è stato capace di cambiamenti e di modernità dell’impresa. Ho nella memoria il discorso di Emilio Lussu al Senato il 16 dicembre del 1953 [11] in cui si cercava di presentare, testimoniare, difendere, davanti a una Italia che guardava alla modernità, il mondo della pastorizia sarda con le sue contraddizioni, con le sue leggi non scritte, la sua cultura profonda perché non venisse ridotto a pura criminalità. I risultati della Commissione parlamentare di inchiesta dei primi anni ’70 [12] dovettero ancora combattere con questo atteggiamento di senso comune, dominante nella politica. Nella prefazione al volumetto sui risultati della Commissione di inchiesta Ignazio Delogu scriveva:

«Il giorno in cui si scriverà la storia delle Barbagie apparirà chiaro come nonostante la straordinaria asprezza del rapporto uomo-natura e nonostante la durezza e spesso la crudeltà dei rapporti sociali e di classe, o proprio in virtù di entrambi, quelle popolazioni hanno dato un contributo inestimabile alla definizione di un modello di sviluppo economico-sociale adatto alle condizioni specifiche dell’isola, contestando la inutilità e la legittimità stessa di quella ‘estensione alla Sardegna del modello di sviluppo capitalistico italiano’, di cui un Presidente della regione … ha recentemente riconosciuto il fallimento» (ivi Prefazione: XXVII) .

Una consapevolezza che oggi, pur dentro il mercato mondiale, è ancora centrale per capire il futuro della Sardegna. La SNAI oggi è presente in Sardegna con un intervento di area. Il mondo dei pastori però, nonostante il grande cambiamento, è ancora al centro della nostra attenzione. È tornato in scena drammaticamente, come succede da qualche anno con la nascita del Movimento dei pastori. Traffico bloccato e latte versato. Una insurrezione a suo modo ‘selvaggia’, improvvisa, con una forte spettacolarità che mette in scena i principali protagonisti della Sardegna interna, contro tutti: i caseifici, il mercato, la politica, senza una possibile contrattazione con soggetti specifici ma quasi di sistema. Siamo realisti, sembra dicano, chiediamo l’impossibile. Una signora dice a un giornalista RAI: «Deve farsi una legge che da ora e per sempre fissi il latte a 1 euro al litro».

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Movimento di protesta dei pastori in Sardegna, febbraio 2019

Molti sardi emigrati sentono in questo nuovo protagonismo da un lato una sorta di modalità anomala della lotta (molte voci si sono fatte avanti per criticare ‘il latte versato’ fonte incontenibile di metafore, di reazioni materne, di riferimenti alla fame del mondo, ai proverbi) per il suo difficile stare dentro ma anche contro il mercato. Forse anche per il suo rivolgersi più che ai luoghi della Sardegna diversi tra loro dai quali viene il latte e a scelte anche di cambiamento nel rapporto tra vendita del prodotto e sua trasformazione, come molti segnalano, al mondo, ai media, alla politica in una modalità che si impone all’attenzione con un simbolismo estremo.

Spesso in Sardegna la lotta ha assunto forme estreme senza mediazione, anche nel mondo certo morente delle miniere. Ma la pastorizia in Sardegna è futuro, non è passato, è zone interne, è Riabitare l’Italia. La solidarietà si impone per chi ha vissuto gli anni del petrolchimico, dell’illusione industrialista, con il risultato finale del rafforzamento della pastorizia. I pastori sono la principale risorsa contro il declino demografico. Ma danno anche l’idea della complessità degli scenari. Del rischio monocultura nelle zone interne. Della necessità di alleanze complesse che faccia sì che le lotte siano insieme per i produttori ma anche per i luoghi e la loro diversità.

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Pastori e studenti, Cagliari, febbraio 2019

Nota

I testi contenuti in questo numero de Il centro in Periferia, nella rivista Dialoghi Mediterranei, sono esempi molto chiari del nesso tra il mondo degli studi e il mondo delle pratiche, delle politiche e dei movimenti.  La rivista Dislivelli giunta ai suoi 10 anni, recensita da Settimo Adriani, è un punto di convergenza tra studi e pratiche, ed è come una guida per una comunicazione semplice sui processi del riabitare i contesti alpini con le loro contraddizioni e complessità. Il saggio di Lia Giancristofaro su Cocullo, uno dei ‘piccoli paesi’ della rete in cui SIMBDEA (Società italiana per la museografia e i beni demoentrantropologici) opera per un progetto di salvaguardia urgente della festa di San Domenico e dei serpari, mostra la grande complessità di cui è fatto il retroterra di comunità di scarso rilievo demografico, e anche il loro valore in termini di storia nazionale, di culture della differenza sia culturale che biologica. Il testo di Bertinotti è infine una sorta di autobiografia di passione fotografica per il mondo dei paesi abbandonati che rappresenta in termini poetici descrivendo in modo fenomenologico il collasso della vita quotidiana dal quale ancora dobbiamo – anni dopo – riprenderci per ‘invertire ‘ lo sguardo: la sua testimonianza dà anche il senso del ‘movimento’ che si è dato intorno ai mondi marginali. Chiudiamo con le sue parole:

«Queste sono, invece, le visioni minime di oggetti appartenuti ad esistenze passate; le intimità rivelate dai quaderni, dalle cartoline o dalle fotografie che rinvengo nello sfasciume; i letti disfatti; gli armadi sventrati; le posate, i piatti e i bicchieri sbreccati dell’ultima cena lasciati sulle tovaglie sbiadite; le piante da interno cresciute a dismisura quasi fossero in cerca di chi prima le curava; la polvere e la terra entrate dalle finestre insieme ai rampicanti; lo stupore nel vedere me – stonante e fuori luogo – riflesso in vetri e specchi infranti; l’odore triste dell’abbandono; le tinte imputridite delle mura domestiche; le orme alle pareti dei crocifissi, delle terrecotte e dei quadri scomparsi da tempo ;l’oscurità più greve di certe stanze madide di silenzio che altro non è se non l’assenza delle voci, delle urla, dei sospiri, dei gemiti, dei singhiozzi, delle risa e, insomma, della felicità e del dolore di coloro che in quelle dimore risiedettero fino alla fine dei loro giorni.
Quanto struggimento provo ogni volta che mi fermo a riflettere sulla distanza, non solo fisica, dei posti che visito rispetto al resto del Paese! “Come facevano? Come potevano stare, restare qui?”, mi chiedo ogni volta e con sempre maggior cognizione di causa.
Pian, piano acquisiscono il significato di una prerogativa personale imprescindibile, di un bisogno, di un dovere, di una responsabilità le mie visite alle terre senza più uomini e la loro documentazione fotografica si fa strumento– mezzo a me più congeniale – per renderne giusta testimonianza: una sorta di ultimo omaggio ad un’umanità estinta».
Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
 Note

[1] G. Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, in dialogo con A. Magnaghi, Roma, Donzelli, 2015; A. Magnaghi, a cura di, Il territorio bene comune, Firenze University Press, Firenze 2012. Il testo più completo è A. Magnaghi, La conscience du lieu, Paris, ed. Eterotopia, 2017.
[2] La smemoratezza del moderno(a) in L. Ronzon, a cura di, Manifattura Tabacchi /Milano, Milano, Fondazione Museo della scienza e della tecnologia, 2009, La smemoratezza del moderno(b), in I tetti rossi: San Salvi da manicomio a Libera Repubblica delle Arti, Firenze, Polistampa, 2010.
 [3] P. Clemente, Il cannocchiale sulle retrovie. Note su problemi di campo e di metodo di una possibile demologia, «La Ricerca Folklorica», n. 1, 1980: 39-42
[4] C. Bromberger, D. Dossetto, S. Dalla Bernardina, a cura di,Gensdu Val Germanasca. Contributions à l’ethnologie d’une vallée vaudoise, Grenoble, Centre Alpin et Rhodanien d’ethnologie, 1994.
[5] Mai uno stage universitario produsse così tanti antropologi di successo, diventati professori o operatori di organizzazioni internazionali. Qualcosa, ma a buona distanza, produsse lo stage di Armungia (CA) del 1998.
 [6] Il testo specifico si intitola Dell’opaco, in La strada di San Giovanni, postumo, Milano, Mondadori, 1990
[7] F. Carnesecchi, Le novelle de ’montierini. I racconti sui paesi degli sciocchi: testi e classificazioni, Pisa, Pacini, 2008.
[8] A cura di M. Marchetti, S. Panunzi, R. Pazzagli, Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani Soveria Monnelli, Rubbettino, 2017.
[9] Vedi ad esempio R. Pazzagli, Un Paese scivolato a valle. Il patrimonio territoriale delle aree interne. Una lettura dei processi territoriali recenti, ivi.
[10] Oggi leggibile anche in A. Fanelli, V. Strinati, La trincea e i pascoli. Il socialismo di Emilio Lussu, in Il de Martino, numero speciale 2018.
[11] Vedi Ignazio Pirastu, Il banditismo in Sardegna, Roma, Editori Riuniti, 1973; l’on. Pirastu, deputato del PCI, fu relatore della Commissione sul tema “Genesi e caratteristiche della criminalità”. Il volumetto coincide con la sua relazione.

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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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