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Io Capitano, e noi…

io-capitanodi Chiara Lanini 

Il film di Matteo Garrone affronta il tema del viaggio migratorio da una prospettiva non del tutto nuova ma decisamente interessante, quella dello sguardo in controcampo, come lui stesso lo ha definito, che era già stata utilizzata, ad esempio, dalla regista gallese-egiziana Sally El Hosaini ne Le nuotatrici.

Indubbio è il valore cinematografico, confermato dai riconoscimenti che la giuria del Festival di Venezia ha deciso di assegnare a un’opera che tratta un tema scomodo attraverso un linguaggio a tratti lirico, addirittura surreale, a tratti realista. Un tema scomodo, dicevamo, ma comodo allo stesso tempo: doloroso, spaventoso, inquietante, ma, nondimeno, asse portante della retorica sicuritaria sulla quale le attuali politiche migratorie (ma non solo) hanno fondato buona parte della propria ragione di essere. Da questo punto di vista, guardare il viaggio dalla prospettiva di chi parte e da dove si parte invece che da quella di chi, magari con il telecomando in mano, osserva spaventato le coste del proprio Paese ‘invase’ dall’arrivo di moltitudini straniere e minacciose è un’operazione importante, oltreché inedita.

Garrone fa di questo viaggio un epos, lo porta nel solco di una tradizione narrativa, classica, che ne mette in evidenza gli aspetti esistenziali e identitari, ovvero inscrive un fenomeno sociale, storico e materiale, in una prospettiva che, metaforicamente, si può pensare come universale: il viaggio come esperienza trasformativa e rito di passaggio, di cui il rischio è condizione fondamentale. Non a caso i protagonisti sono poco più che ragazzini e decidono di provare a realizzare i propri desideri altrove, nonostante il monito di chi cerca di metterli in guardia e dissuaderli, richiamando i valori della tradizione e della riproduzione: “tu devi rimanere qui a respirare l’aria che respiro io” dice la madre di Seydou.

L’autore sceglie di non presentare questa impresa come un’urgenza, i due lasciano un posto vivibile, familiare, l’accento non si posa sulla necessità per giustificare l’intenzione di affrontare una tale impresa ma sull’aspirazione a vivere in un orizzonte diverso, a guadagnare del denaro per aiutare la famiglia, a diventare musicisti perché così sarai tu a firmare gli autografi ai bianchi. C’è un po’ di tutto e per alcuni aspetti possiamo sentire un’eco lontana della favola di Pinocchio, film precedente dello stesso regista, ma anche del viaggio di Ulisse, mosso dalla smania di partire e ripartire, per seguir virtute e canoscenza. Certo, il burattino si fa convincere a seppellire le monete d’oro in un campo per farne crescere un albero, mentre Ulisse era un uomo, anzi un re e un guerriero, dotato di eccezionale intelligenza, carisma e particolare astuzia.

Seydu e

Seydou e Moussa

 Seydou e Moussa ci sono presentati come ragazzi, speranzosi e inconsapevoli di ciò che li aspetta, con un sogno in comune che cercano di realizzare come possono, partendo di nascosto con un pacco di soldi custoditi in un buco, che Moussa non fa che contare. Fino a qui, in effetti, assomigliano più a Pinocchio che a Ulisse. Ma il primo momento di svolta sopraggiunge poco dopo la partenza: quel tratto di ingenuità si frantuma quando dal carro sul quale stipatissimi attraversano il deserto una persona cade e chi è alla guida non accenna neppure a fermarsi, anzi, viene inquadrato in una smorfia di spaventoso cinismo. È un frammento intensissimo, fra i più drammatici nella sua istantaneità, che ci mostra il loro sguardo attraversato da un istante di incredulità e smarrimento, immediatamente seguiti da un silenzio fatto di terrore e composta rassegnazione.

L’irruzione della realtà squarcia tutto un mondo e in quell’attimo diventa chiaro che la loro vita non vale nulla, che sono solo carne da macello, ma anche che non è più possibile tornare indietro. Da lì un susseguirsi di orrori, che guardiamo attraverso i loro occhi sbarrati, cogliendo via via il senso dell’inimmaginabile fino a che il Seydou che arriva dall’altra parte del mare non è più un ragazzino, nemmeno un uomo, ma un Capitano, e se lo dice. Dopo avere lasciato la comunità, attraversato lo spazio brutale che separa la sua terra dalla costa africana che guarda l’Europa, accetta, suo malgrado, di farsi protagonista del destino di persone la cui vita precipita improvvisamente nelle sue mani e lui, che non sa nemmeno nuotare, non solo riesce a salvare sé stesso ma, soprattutto, porta in salvo tutti gli altri: sulla sua barca non muore nessuno.

Difficile non pensare a questa come la sequenza perfetta di un rito di passaggio: c’è la separazione, l’attraversamento dello spazio liminale e la reintegrazione. L’ultima fase, tuttavia, non si compie nel Paese di approdo, non è questo il tema che vuole affrontare il film che, infatti, termina prima che i due tocchino terra ed è in mare che l’epos raggiunge l’apice del climax. Desiderio, rischio, morte e trasformazione sono i temi intorno ai quali si sviluppa l’ossatura narrativa della storia, tesa ad estrarre dall’indistinta e minacciosa moltitudine degli invasori, raccontati nelle immagini di giornali e televisioni, volti e vite di soggetti dallo sguardo riconoscibile, a tratti struggente, alle prese con un viaggio drammaticamente reale.

Lo stesso viaggio, se proiettato sul piano simbolico, può accomunare il percorso che accompagna il necessario divenire di Ulisse, Pinocchio, di tutti coloro per i quali esplorare e sperimentare non è solo legittimo (benché costoso ma sempre meno di quanto non lo sia per chi parte da un villaggio africano) ma socialmente apprezzato – l’esperienza all’estero tanto quotata nei cv – e quello degli altri, ai quali, invece, è arbitrariamente proibito.

io-capitanoInfatti, se torniamo a guardare la moltitudine e la migrazione come fenomeno non simbolico o esistenziale ma collettivo, reale, contingente, storico e materiale, che coinvolge una ben precisa categoria di persone quasi sempre in movimento su una rotta che va verso nord e per lo più verso ovest, il tema del desiderio assume una valenza politica, quell’aspirazione di cui ha scritto Appadurai. Si può riflettere, allora, sul ruolo che gioca l’immaginario egemonico (post)coloniale nel dare forma ad aspirazioni che alimentano una floridissima economia capace di produrre una progressiva e inesorabile inversione del rapporto fra prezzo e valore, quando a fronte di un costo sempre più alto la vita vale sempre di meno, in uno scenario nel quale lo spazio consentito al desiderio sembra ridursi al massimo alla mera sopravvivenza (umana, civile, sociale), in una logica di scambio sempre meno vantaggiosa e sempre meno negoziabile.

L’uomo che vende il viaggio attraverso il deserto mostra, per convincere i propri clienti, la foto (fasulla) del mezzo che li accompagnerà, ed è quello l’ultimo frammento nel quale è possibile, nonostante l’immagine ingannevole, prendere o lasciare, cioè scegliere. Con l’avanzare del cammino la possibilità di scelta si riduce via via fino ad annullarsi, in un moltiplicarsi di passaggi la cui escalation precipita in un rapporto sempre più sfavorevole fra rischi e probabilità, poiché il sistema che fa del superamento dei confini una pratica illegale alimenta il riprodursi di mestieri e guadagni ben più illegali, ognuno dei quali carica il proprio balzello sul prezzo finale. In questo senso gli stessi confini, geografici ma anche e sempre sociali, possono essere pensati come dispositivi che hanno la funzione di differenziare, illegittimamente, chi ha titolo per desiderare e chi no (pur disposto, è bene ripeterlo, a pagarne il plus valore monetario), dando luogo a un mercato delle aspirazioni, dei bisogni, dei diritti, totalmente deregolato e ferocemente libero. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023 

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Chiara Lanini, pedagogista, operatrice sociale, Phd in Scienze Sociali presso Disfor-Unige, curriculum Migrazioni e Processi Interculturali. Dal 1995 ad oggi lavora in ambito educativo, è cultrice della materia presso le cattedre di Sociologia della Famiglia e di Sociologia dell’educazione e docente a contratto di Sociologia dei Media presso il Corso di Laurea in Media, Comunicazione e Società dell’Università di Genova.

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