di Lisa Riccio
In Medio Oriente l’imposizione del sistema westfaliano di matrice occidentale fondato sul concetto di “Stato-Nazione” ha prodotto una realtà composta da un «insieme di organismi interconnessi separati soltanto da membrane porose»[1] in cui la totale assenza di congruità tra Stato e territorio si è scontrata con la forza di identità sub-statali e sovra-statali [2]. In questo contesto, l’identità ha da sempre giocato un ruolo fondamentale nella definizione della politica estera e nella formazione di norme e principi in grado di limitare il comportamento degli Stati nella regione. La settarizzazione, tuttavia, è un fenomeno recente la cui diffusione è stata accelerata, a partire dal 2003, dall’intervento americano in Iraq e dalla cosiddetta “Nuova Guerra Fredda Araba” che ha visto la polarizzazione del Medio Oriente attorno a due potenze regionali, l’Arabia Saudita e l’Iran, e la strumentalizzazione del settarismo quale arma del conflitto [3].
Date queste premesse, vorrei provare a fornire un succinto ed incipiente quadro analitico del modo in cui la Repubblica Islamica dell’Iran, a partire dall’inizio degli anni 2000, sta contribuendo alla settarizzazione del Medio Oriente. Ai fini del presente lavoro, tuttavia, risulta essere necessario in primis determinare se la politica estera iraniana possa essere considerata una politica settaria nel senso letterale del termine, ossia «meaning primarly driven by Shia-centric beliefs and goals» [4]. Inoltre, lungi dal voler fornire un’analisi esaustiva delle complesse dinamiche e dei fattori che determinano il comportamento dello Stato iraniano nel sistema regionale e che, in ultima analisi, portano ad alimentare la dinamica della settarizzazione, ho cercato di adottare uno sguardo realista. In tal modo, possiamo vedere la distribuzione del potere – inteso come relazione – fra i diversi attori del sistema regionale, e il “il dilemma della sicurezza” – derivante da un sistema anarchico – come due dei principali strumenti attraverso cui analizzare e comprendere il comportamento di uno Stato in politica estera [5].
La politica estera iraniana tra insicurezza e isolamento
Nonostante l’identità religiosa shiita del Paese influenzi il suo approccio alla politica estera regionale e occupi un posto importante nella scelta degli attori con cui intessere relazioni di vario genere, pare plausibile ritenere che la politica estera iraniana non debba essere interpretata come una politica settaria nel senso letterale del termine ma piuttosto come una politica che fa della settarizzazione non un fine bensì uno strumento pratico la cui importanza nella politica estera iraniana è determinata innanzitutto dal contesto regionale in cui essa si definisce.
La distribuzione del potere fra i diversi attori nello scacchiere regionale e l’equilibrio che a partire dal 2003 si sta definendo tra questi, risulta essere la principale determinante della politica estera iraniana che dovrebbe essere piuttosto interpretata come una realpolitik che, dettata dal cosiddetto “dilemma della sicurezza”, trae vantaggio da una settarizzazione la cui origine primaria è piuttosto da ricercare nella debolezza e nel fallimento di alcuni Stati oggi centrali per la definizione di un nuovo equilibrio di potere.
Quali sono dunque i fattori che determinano l’acuirsi del dilemma della sicurezza iraniana e, conseguentemente, la politica estera su di esso definita?
- Un contesto regionale insicuro a causa dell’eccessiva presenza di Stati deboli e falliti e, dunque, vuoti di potere che aprono le porte alla penetrazione di influenze esterne che a loro volta traggono vantaggio da un contesto domestico settario.
- L’isolamento regionale e internazionale con la conseguente adozione di una politica estera che, fondandosi sul dilemma dell’insicurezza, impone l’adozione di una politica il cui pilastro centrale è rappresentato dalla dottrina della sicurezza.
Nel comprendere il ruolo della teocrazia iraniana nella settarizzazione del Medio Oriente non si può prescindere dall’analizzare l’influenza e il peso che la presenza di Stati deboli e falliti nella regione esercitano sulla definizione del comportamento a livello regionale degli Stati.
A partire dalla rivoluzione islamica del 1979 l’Iran inaugurò una politica estera ispirata da ideali anti-monarchici e anti-imperialisti, i cui obiettivi principali erano la riappropriazione e la difesa dell’autonomia nazionale e regionale rispetto all’Occidente, la fine della penetrazione e dell’interferenza delle potenze occidentali nella vita politica del Paese [6] e, ultimo ma non meno importante, l’esportazione della rivoluzione islamica. L’unico luogo però in cui gli ideali khomeinisti riuscirono ad attecchire fu il Libano. Hezbollah, nato nel 1982 sotto l’occupazione israeliana, può infatti essere considerato l’unico successo extraterritoriale della politica iraniana di “esportazione della rivoluzione” [7]. Non a caso però Hezbollah nasce in un contesto di estrema debolezza dello Stato centrale – in conseguenza dell’occupazione militare israeliana del 1982 – e in cui il potere è piuttosto frammentato in una serie di fazioni che per ragioni pratiche si vedono costrette a cercare supporto finanziario, militare, logistico e ideologico fuori dai propri confini statali. Il fallimento del progetto khomeinista perciò può in parte essere spiegato ricorrendo alle categorie di “Stato deboli o falliti” e “Stati forti” [8].
Nello spiegare la vulnerabilità e permeabilità dello Stato a dinamiche settarie e alla conseguente penetrazione di attori esterni in grado di sfruttare abilmente tali dinamiche, Hinnebusch individua proprio negli anni ‘80 il momento di maggiore forza e stabilità degli Stati medio orientali [9]. Nonostante le numerose guerre che infiammavano la regione, è in questo periodo, infatti, che si consolidano regimi autoritari in grado non solo di consolidare il proprio apparato istituzionale e repressivo e di cooptare e reprimere le varie identità settarie ma anche e soprattutto limitare le possibilità di interferenza e penetrazione di influenze esterne. Lo Stato forte, grazie alla sua capacità «construct identities compatible with the statehood»[10], risulta essere una entità meno vulnerabile alla strumentalizzazione di ideologie settarie e, conseguentemente, meno permeabile all’intromissione ed interferenza di imprenditori politici in grado di piegare tali identità a proprio vantaggio.
Per contrasto, lo Stato debole – in mancanza di autonomia del processo decisionale e capacità di eseguire tali decisioni in conseguenza dell’inabilità sia di esercitare controllo sul proprio territorio che di avere il monopolio della violenza – è, piuttosto, quello Stato altamente vulnerabile alla mobilitazione e politicizzazione di identità in precedenza non necessariamente settarie, fra cui quelle confessionali. Sentendosi insicuro e minacciato da instabilità interna, lo Stato debole è spinto a cercare sostegno e supporto da parte di quelle porzioni di società civile con cui condivide una identità. L’identità primaria o banale [11] diventa dunque la base su cui si regge un rapporto di mutuo sostegno e lealtà.
In altre parole, la ricettività alla politicizzazione e mobilitazione politica di identità primarie dipende anzitutto dalla percezione di sicurezza che tali identità percepiscono nel contesto in cui sono inserite. In un contesto di Stato debole o fallito in cui lo stesso Stato conta su lealtà settarie per la sua sopravvivenza, la percezione di sicurezza non può che essere assente. È in tali circostanze che gli imprenditori politici come l’Iran si inseriscono fornendo e garantendo non solo sicurezza ma anche benefici materiali dalla cui fruizione tali identità sono state escluse a livello domestico [12]. Risulta chiaro come tali identità settarie non vengano create dall’intromissione di influenze straniere, nel nostro caso l’Iran, ma sono piuttosto il risultato di dinamiche domestiche che le potenze esterne non fanno altro che alimentarle sfruttandole a proprio vantaggio [13].
In Medio Oriente il processo di erosione e indebolimento di tali regimi, iniziato a partire dagli anni ’90, raggiunge il suo culmine con l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 e con le cosiddette Primavere Arabe nel 2011. L’invasione irachena del 2003 – con il conseguente smantellamento dell’esercito e la messa al bando del partito Ba’th – oltre ad aver dissolto l’unico vero contro-peso alla potenza iraniana, ha innescato un processo involutivo di indebolimento e ritiro dello Stato – quale dispensatore di welfare e soprattutto principale garante di sicurezza – che ha portato il potere a frammentarsi e a distribuirsi in una miriade di fazioni e milizie in cui l’identità settaria risulta essere il collante e la base di un rapporto di fiducia e lealtà [14].
Per comprendere in che modo gli Stati deboli o falliti hanno contribuito alla definizione della politica estera regionale iraniana risulta tuttavia necessario aggiungere un ulteriore tassello, ossia le rivoluzioni arabe e in particolare la rivoluzione, poi degenerata in guerra civile, della Siria. Le rivolte del 2011, infatti, portarono a compimento quel processo di indebolimento e, in alcuni casi come Libia, Siria e Yemen, di fallimento dello Stato che aprirono le porte all’intervento ufficiale e non di potenze straniere, le quali in presenza di tali vuoti di potere tentarono e tutt’ora tentano di dar vita ad un nuovo equilibrio di potere in seno alla regione facendo leva sulla settarizzazione quale principale strumento di questa politica. Per dirla con le parole di Hinnebusch «state failures created vacuums inviting competitive external intervention in which rival powers provided arms and financing to bring sectarian-affiliated allies to power in uprising state» [15].
La riflessione sull’aumento di Stati deboli e falliti in Medio Oriente è necessaria per comprendere il generale contesto di insicurezza in cui la politica estera iraniana si inserisce. L’aumento dei “vuoti di potere” influisce infatti in modo determinante sulla percezione di sicurezza e insicurezza di uno Stato poiché dal modo in cui tale vuoto sarà colmato dipendono il peso e l’influenza che esso avrà nel nuovo equilibrio di potere.
Il secondo fattore chiave che, direttamente consequenziale al primo, determina la politica estera iraniana, guidata come anticipato dal cosiddetto “dilemma della sicurezza”, è l’isolamento internazionale e regionale a cui l’Iran è stato soggetto sin dalla rivoluzione del 1979. Tale isolamento – il cui obiettivo è di minimizzare e contenere la capacità di minaccia dell’Iran – si è concretizzato da una parte nella rottura di rapporti diplomatici e, dall’altra, nell’embargo sulle armi e nella completa esclusione del Paese da processi di trasferimento di conoscenza in campi fondamentali per lo sviluppo militare, logistico ed economico. L’isolamento economico e il congelamento dei flussi di capitali di investimento occidentali impedirono all’Iran non solo di diversificare la propria economia, largamente dipendente dall’estrazione del petrolio, ma anche di ridurre la propria dipendenza dal centro (considerando che tutt’oggi, nonostante sia il secondo bacino di idrocarburi al mondo, importa gran parte dei prodotti petroliferi raffinati) [16].
Da un punto di vista prettamente militare, l’isolamento – interpretato dall’Iran come tentativo delle potenze imperialiste di colpire alla base la nascente repubblica islamica [17] – gli ha impedito di modernizzare il suo apparato militare e difensivo con il conseguente aumento della percezione di insicurezza del Paese [18]. Se, infatti, i Paesi del Golfo, grazie al loro allineamento alla politica americana, godono di una posizione che consente loro di usufruire di aiuti economici, finanziari e di un trasferimento di conoscenza in vari campi, per l’Iran l’isolamento ha significato l’impossibilità e l’incapacità di intraprendere conflitti convenzionali aperti con i Paesi ad esso invisi [19]. Se a tale isolamento si aggiunge, a partire dal 2001 e dal 2003, la minaccia costituita dalla presenza militare americana in due dei Paesi con esso confinanti (Iraq ed Afghanistan) [20], si comprende come la combinazione dei due fattori qui spiegati, ossia un ambiente regionale insicuro e anarchico a causa dell’eccessiva presenza di vuoti di potere e il tentativo di isolamento dell’Iran a livello regionale e internazionale, ha portato all’adozione di una dottrina della sicurezza fondata su strategie di opposizione che la letteratura definisce “asimmetriche” [21].
Sono dunque questi fattori ad aver determinato la necessità di un sempre maggiore affidamento sulla strategia di Strategic Depth [22] e sul supporto a vari attori non statali politici e paramilitari per la propria sicurezza e, dunque, per la sopravvivenza stessa del regime [23]. Con Strategic Depth si intende quella strategia per cui l’Iran è portato a combattere conflitti contro i suoi principali rivali fuori dai confini nazionali, sfruttando situazioni di conflitto in altri Paesi della regione al fine di arginare le potenziali minacce ad esso indirizzate e di mantenerle a relativa distanza dal proprio territorio. A conferma di ciò, le stesse parole del vicecomandante in capo della Islamic Revolutionary Guard Corps, Hossein Salami, che nel febbraio 2018 ha dichiarato «the Syrian and Iraqi armies are the strategic defensive depth of Iran, and the best strategy to engage with the enemy is in areas far from Iran»[24]. Tale strategia, inoltre, non può prescindere dal supporto ai vari attori non statali della regione. La trattazione del sostegno iraniano a questi ultimi risulta essere di fondamentale importanza ai fini dell’analisi in quanto spesso si è teso ad interpretare la politica estera iraniana come settaria proprio in conseguenza della scelta degli attori non statali, la maggior parte dei quali di fatto shiiti, con cui il Paese intesse relazioni, e a inquadrare tali relazioni nel quadro della logica patron-client. In altre parole, l’adozione di una strategia focalizzata sul sostegno di vari gruppi armati e organizzazioni paramilitari settarie è stata interpretata come determinata dalla condivisione di una comune identità settaria e non, piuttosto, da ragioni programmatiche quali deterrenza e power projection [25]. Per comprenderne le dinamiche è dunque necessario osservare come tale politica estera è strutturata e fare un distinguo fra i due suoi principali livelli, i quali, se da una parte fanno entrambi riferimento al Leader Supremo e sono soggetti alla sua autorità, dall’altra differiscono sia nel modo in cui operano che nel contenuto del loro operato [26].
Il primo livello è quello delle relazioni con altre entità statali e attori del sistema internazionale, ed è condotto dal governo centrale a Tehran. Interessante notare come anche a questo livello, che potremmo definire “ufficiale”, la politica estera iraniana non sembra essere dettata da ragioni ed obiettivi puramente settari bensì pragmatici. L’Iran intrattiene, infatti, stretti rapporti con l’India piuttosto che con il Pakistan musulmano e ha sostenuto i cristiani armeni nelle loro dispute con l’Azerbaijan a maggioranza shiita. Il secondo livello è costituito invece dalle relazioni con attori non statali gestite dalla Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC) e dalle Qods Force [27]. Come anticipato, i limiti e l’incapacità tecnica iraniana uniti all’isolamento e alla percepita minaccia di interferenza occidentale nella regione hanno portato l’Iran a fare del sostegno ad attori non statali co-settari un fattore chiave della sua politica estera e della sua dottrina della sicurezza. Per comprendere in che modo l’Iran continua ad alimentare la logica settaria nella regione è importante a mio avviso individuare e distinguere non solo i diversi modi di sostegno a tali attori settari ma anche e soprattutto i diversi tipi di legami e alleanze che uniscono questi ultimi al Paese.
La prima distinzione fa riferimento ai diversi tipi di supporto che l’Iran fornisce a tali attori non-statali [28]. Interessante inoltre notare come questi facciano uso di un astuto connubio di soft e hard power. Tali sostegni possono essere schematicamente categorizzati come segue:
- Supporto finanziario e militare: l’Iran fornisce consistenti finanziamenti monetari [29] che sono utilizzati principalmente per l’acquisto di armamenti e per il sostegno alle reti logistiche che possono così focalizzarsi sulle proprie attività piuttosto che sulla ricerca di fondi. L’assistenza militare si sostanzia invece nell’addestramento di milizie e gruppi paramilitari ed è portata avanti in particolare dalla Qods force, un’unità speciale della IRGG incaricata di guidare operazioni fuori dai confini nazionali.
- Servizi sociali e supporto ideologico: specialmente nelle zone di conflitto, l’Iran fornisce finanziamenti che consentono agli attori non statali in campo di dar vita a reti in grado di dispensare servizi sociali (che spaziano dalla assistenza medica alla scolarizzazione) per quelle porzioni di popolazione escluse dal sistema statale di redistribuzione del welfare sia perché tale sistema è costruito su base settaria sia perché tale sistema non esiste proprio in conseguenza del ritiro e fallimento dello Stato in zone di conflitto. Per quanto riguarda il supporto ideologico esso si concretizza non solo nell’invio di studenti e chierici sia in Libano che in Iraq ma anche nell’utilizzo di una retorica e simbologia settaria riscontrabile in particolare nel caso del conflitto siriano [30].
L’identificazione di questi diversi tipi di sostegno ad attori non statali fuori dai propri confini – sostegno inoltre non estraneo ad altri Paesi della regione – rende necessaria, come anticipato, una seconda distinzione in seno alla categoria di “attore non statale” [31]. Tale distinzione fa riferimento al grado di integrazione sociale di tali gruppi all’interno del contesto in cui nascono: mentre il primo gruppo è costituito da milizie che si formano all’interno di un movimento sociale più ampio e sono caratterizzate da una propria agenda politica oltre che da una propria capacità di finanziamento, il secondo è costituito da milizie interamente nate e finanziate da una potenza estranea al contesto sociale in cui hanno origine. Tale distinzione risulta necessaria in quanto il fatto che l’Iran fornisca i diversi tipi di sostegno sopracitati non significa che alcuni di questi attori non abbiano una propria indipendenza e una propria politica domestica che non ci consente di interpretarli puramente come “proxy” [32]. In altre parole è importante fare una distinzione nella natura di tali legami al fine di comprendere come la nascita di alcuni di essi, di fatto settari, si inserisca all’interno di un preciso contesto di instabilità e insicurezza interna che non ci permette di intenderli come semplici strumenti di settarizzazione della politica estera iraniana.
A questo proposito particolarmente significativi risultano i casi di Hezbollah in Libano e dell’ISCI in Iraq. Queste due fazioni politiche, infatti, mostrano come il loro stretto legame con quest’ultimo non sembra essere dettato da obiettivi settari e da affinità identitarie ma piuttosto da motivi pragmatici quali deterrenza in funzione rispettivamente anti israeliana e anti americana da una parte, e dalla fruizione di benefici materiali e protezione dall’altra [33].
Come anticipato, Hezbollah, può essere considerato sotto certi punti di vista come l’unico successo extraterritoriale della politica iraniana di “esportazione della rivoluzione”. Almeno nelle prime fasi della sua nascita, infatti, si poneva quale obiettivo la costruzione di uno Stato islamico che, ispirandosi al modello khomeinista del “governo del Giureconsulto”, garantisse maggiore accesso al potere alla popolazione sciita libanese [34]. A tale affinità e supporto ideologico – sostanziatosi nel permesso per i religiosi sciiti iraniani di insegnare nelle moschee libanesi – si aggiunse sin dagli anni ‘80 da una parte un sostegno finanziario finalizzato allo sviluppo di servizi sociali di cui un esempio è Jihad al Bina’ [35] e, soprattutto, il fondamentale sostegno finanziario, militare e logistico tramite l’invio sia di armamenti che di esponenti della IRGC.
Nonostante l’innegabile influenza che l’Iran può aver avuto e tutt’oggi ha su Hezbollah, sono diversi gli studiosi e analisti che concordano su un’altrettanta spiccata indipendenza di quest’ultimo nel perseguimento di una propria agenda politica nazionale che ha ben poco a che vedere con obiettivi settari [36]. Sin dagli accordi di Taif del 1989 – particolarmente importanti in quanto, grazie anche alla pressione iraniana, Hezbollah fu l’unica milizia a poter mantenere le armi purché target dei suoi attacchi fosse Israele e non obiettivi libanesi [37] – Hezbollah si è avviato verso un processo di istituzionalizzazione che l’ha portato ad abbandonare la retorica khomeinista [38] e ad adottare un discorso maggiormente focalizzato sugli interessi nazionali nel tentativo di allargare la propria base di consenso in seno alla società libanese ponendosi, sino al 2000, come forza di resistenza all’occupazione. Ciò che è importante sottolineare ai fini del presente lavoro è che la lotta ad Israele ha fornito un fondamentale terreno comune su cui Hezbollah e l’Iran si sono incontrati. Senza voler negare l’importanza dell’affinità identitaria fra i due, infatti, Hezbollah sembra aver svolto e svolgere per l’Iran un importante ruolo di deterrente contro Israele e proprio in tale ruolo risiede, in parte, l’importanza del mantenimento dell’alleanza tra i due attori.
Nel caso iracheno, la politica iraniana di strumentalizzazione della logica settaria sembra essere ancor più palese. La caduta dell’unico vero contro-peso alla politica regionale iraniana nella regione, il regime di Saddam, può rappresentare un punto di svolta nella politica estera iraniana. Il collasso dello Stato iracheno non solo ha determinato la rinascita della lotta settaria per il potere a livello domestico, ma ha anche e soprattutto aperto le porte a imprenditori politici in grado di sfruttare la percezione di insicurezza e minaccia di determinate comunità [39]. In risposta alla massiccia presenza americana la RIGC adottò un duplice approccio [40]. Il primo era basato da una parte sul mantenimento di stretti rapporti con lo SCIRI (Supreme Council for the Islamic Revolution in Iraq) che – diventato una delle due principali fazioni politiche shiite in Iraq (l’altra è l’organizzazione di Muqtada al-Sadr) – continuò ad usufruire di un considerevole supporto finanziario e, dall’altra contemporaneamente procedette all’addestramento attraverso l’RIGC, della sua ala armata, le Brigate Badr.
A partire dal 2007 però, il partito, accusato di essere eccessivamente legato all’Iran iniziò a prendere le distanze da quest’ultimo. La più chiara espressione di ciò fu il cambio del nome in ISCI (Islamic Supreme Council of Iraq). Proprio tale distanziamento portò la sua ala armata, le Brigate Badr a staccarsi dal partito e a formare una nuova entità politica, l’Organizzazione Badr che rimase vicina all’IRGC. Il secondo approccio è invece quello rappresentato dalla creazione e addestramento di milizie su base settaria il cui principale scopo era colpire le forze americane presenti sul suolo Iracheno.
In maniera simile allo scopo dell’alleanza e del supporto a Hezbollah in funzione anti israeliana dunque, anche in Iraq l’Iran ha saputo sfruttare un contesto interno estremamente fragile, insicuro e multi-settario, sfociato poi fra il 2006 e il 2007 in una vera e propria guerra civile, che le ha permesso di influenzare la stessa politica irachena. Anche nel caso iracheno il contesto domestico si è rivelato particolarmente utile nel generare legami di solidarietà e lealtà che a loro volta sono stati sfruttati al fine di politicizzare e mobilitare parte della popolazione e di demonizzare il nemico.
Ho tentato di spiegare come non solo la politica di settarizzazione iraniana debba essere inquadrata in un contesto regionale altamente insicuro in conseguenza dell’aumento del numero di vuoti di potere circostanti, ma soprattutto come essa sia utilizzata come strumento di una realpolitik che, sfruttando il dilemma della sicurezza dei membri di comunità confessionali, trae vantaggio da contesti domestici già settari e dilaniati da conflitti interni per costruire alleanze funzionali alla sua politica di Strategic Depth.
Per concludere dunque, pur non volendo sottovalutare l’importanza della condivisione di identità settarie che inevitabilmente facilitano la costruzione di un rapporto di lealtà e fiducia specialmente in contesti insicuri e instabili, i rapporti che l’Iran intrattiene con i vari attori non-statali sembrano essere piuttosto dettati da ragioni pragmatiche di realpolitik, quali innanzitutto la sopravvivenza del regime e la proiezione della propria influenza sullo scacchiere regionale. Se dunque la politica estera iraniana, contribuendo alla settarizzazione della regione in particolare tramite il supporto ad attori non-statali, non può essere considerata settaria nel senso letterale del termine, lo è tuttavia nel risultato.