il centro in periferia
di Michele Cossa
Le isole del continente europeo per loro natura hanno uno svantaggio strutturale che ne condiziona pesantemente lo sviluppo. Le cause sono da ricercare nella difficile accessibilità, la ristrettezza del mercato interno, una complessiva fragilità che rende la loro economia particolarmente esposta agli shock esogeni: ne abbiamo avuto una eloquente dimostrazione prima con la pandemia da Covid 19 e ora a seguito dell’aggressione russa dell’Ucraina.
Questi elementi non sono di carattere transitorio ma permanente, e producono una tendenza alla divaricazione tra economie insulari, in perenne inseguimento, ed economia delle altre regioni. Lo dimostrano i dati del PIL: quello delle isole europee è mediamente inferiore rispetto a quello delle regioni della terraferma.
C’è un elemento che è indispensabile tenere nel dovuto conto per capire i termini della questione insulare e ragionare sugli strumenti per affrontarla: le isole soffrono della “distanza” dalla terraferma, ma ciò che pesa maggiormente sulle loro prospettive di sviluppo, aggravando i problemi legati alla distanza, è la discontinuità territoriale [1]. Essa rende complicato far parte di infrastrutture di rete (pensiamo alle reti energetiche) e attivare sinergie con le regioni vicine, con un costo per i cittadini significativamente più alto. Incide sul prezzo delle merci e delle materie prime. Vincola le possibilità di trasporto alle navi e agli aerei (laddove ben più ampie sono le alternative per chi vive nella terraferma, non ultimi i mezzi di trasposto privati).
Su questa base di evidenze empiriche diverse regioni insulari europee hanno elaborato studi specifici sui costi dell’insularità, che hanno quantificato in termini monetari le implicazioni su cittadini e imprese del fatto di vivere e operare in un’isola. Uno studio commissionato dalla Camera di Commercio e Industria della Corsica rivela che i costi aggiuntivi per le imprese ammontano a circa il 20% rispetto alle società continentali. Secondo l’Istituto Bruno Leoni, che su incarico dei Riformatori sardi ha curato uno studio sui costi dell’insularità per la Sardegna, il costo pro capite è di circa 5.700 euro annui [2]; uno studio analogo prodotto dalla Giunta regionale siciliana parla di 1.300 euro pro capite l’anno.
Ci sono 20 milioni di cittadini europei che vivono nelle isole (circa 7 milioni dei quali in Italia) i cui diritti e il cui benessere economico subiscono una menomazione. Sinora questo problema non ha ricevuto un‘attenzione politica e giuridica specifica, ma è sempre rientrato nel capitolo del ritardo di sviluppo e della coesione territoriale. Sembra però che le cose stanno cambiando e che vi sia una maggiore consapevolezza che per garantire pari opportunità ai cittadini delle isole sono necessari interventi specifici, non solo dal punto di vista finanziario (che pure è necessario), ma soprattutto da quello normativo.
Il riconoscimento del principio di insularità nella Costituzione italiana
Le azioni più concrete ed efficaci si stanno sicuramente facendo a livello nazionale. Nel 2017 è nato in Sardegna il Movimento per il riconoscimento del principio di insularità, che ha promosso una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la modifica dell’art. 119 della Costituzione, spinta da un consenso molto ampio (sono state raccolte oltre 200mila firme in tutta Italia) e sostenuto da tutte le forze politiche, sociali ed economiche. La proposta di legge è stata depositata presso il Senato della Repubblica nell’ottobre del 2018 e, contrariamente a tutte le aspettative, sta per giungere all’approvazione definitiva: l’ultimo passaggio è previsto per il mese di luglio alla Camera. Questo fatto è già di per sé inedito: infatti è la prima volta nella storia repubblicana che una riforma costituzionale viene realizzata in esito ad una proposta di legge di iniziativa popolare.
La norma proposta recita «La Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità». Le isole in quanto tali – e non più nel più ampio genus dei “territori svantaggiati” – ricevono una precisa considerazione da parte del legislatore costituzionale, con una norma che aggiunge un forte contenuto programmatico alla sua naturale funzione di parametro della legittimità delle leggi. La Repubblica assume infatti un preciso impegno a promuovere politiche finalizzate a rimuovere gli svantaggi che pesano su coloro che vivono nelle isole, e che si possono ricondurre principalmente alla realizzazione di una continuità territoriale che garantisca una piena accessibilità, al recupero di un cronico deficit infrastrutturale e a politiche energetiche che eliminino gli attuali appesantimenti tariffari. La crescita economica potrà essere favorita utilizzando diversi strumenti, primo fra tutti forme di fiscalità di sviluppo adeguatamente calibrate.
Un tema che potrà essere affrontato in modo più efficiente è anche quello delle isole minori, sulle quali grava una condizione di doppia (isole di isole, isole al quadrato) e talora tripla insularità (isole al cubo). Si tratta di una riforma epocale per i cittadini delle isole, i cui effetti non potranno non riverberarsi anche sull’ordinamento europeo, e questo è uno degli aspetti più importanti. Non tutte le misure necessarie per affrontare il tema insularità, infatti, si possono adottare a livello nazionale: la maggior parte di esse passano per l’Unione europea sulla base dello snodo normativo del principio di sussidiarietà che, nelle materie di competenza concorrente fra Stati membri e Unione, richiede alle istituzioni dell’UE di legittimare la loro azione dimostrandone la maggiore efficacia rispetto ad un’ipotetica azione condotta dagli Stati membri uti singuli nei rispettivi ordinamenti.
L’Europa e le isole. La Risoluzione Omarjee
Il Trattato per il funzionamento dell’Unione europea (TFUE) si occupa di alcune isole degli Stati membri, elencate nominativamente [3], in quanto regioni ultraperiferiche (RUP, artt. 349 e 355). Ad esse viene applicata una disciplina specifica in relazione alla loro particolare situazione. Vi è poi l’art. 174 del TFEU che, in termini più generali ed astratti, riguarda tutte le altre isole europee in quanto “regioni”; lo status insulare viene menzionato en passant, senza particolare enfasi, fra le possibili determinanti geografiche dello svantaggio economico-sociale rispetto all’Europa continentale.
L’art. 174 recita, infatti:
«1. Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale.
2. In particolare l’Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite.
3. Tra le regioni interessate, un’attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna».
Come si vede, la norma inserisce le isole tra le regioni con “gravi e permanenti svantaggi naturali”, ponendole con questa genericità potenzialmente e paradossalmente sullo stesso piano delle regioni europee più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni transfrontaliere e di montagna. Si tratta indubbiamente di una norma molto importante, la cui formulazione tuttavia ha reso molto difficile far emergere, nel contesto delle regioni strutturalmente svantaggiate, i problemi specifici ed unici derivanti dalla discontinuità territoriale e, conseguentemente, l’individuazione di strumenti adeguati a superare efficacemente il gap insulare.
Lo scorso 7 giugno il Parlamento europeo ha approvato a larghissima maggioranza una risoluzione, proposta dal Presidente della Commissione REGI Younous Omarjee, «sulle isole dell’UE e la politica di coesione: situazione attuale e sfide future» [4].
È molto significativa la sostanziale coincidenza temporale tra questo importante atto di indirizzo a livello europeo e la riforma costituzionale in fieri in Italia. Le isole non possono certo negare di avere ricevuto un’attenzione particolare dall’Unione. Bisogna criticamente interrogarsi sugli esiti delle politiche finora messe in atto. Hanno le ingenti risorse che negli ultimi decenni sono state destinate alle isole prodotto effetti proporzionati a quanto si è investito? È stato superato, almeno in parte, il deficit di competitività che deriva alle isole dall’impossibilità di far parte delle infrastrutture di rete (energia, ferroviaria, stradale, digitale) del continente? Si sono fatti passi avanti significativi verso la piena realizzazione dei principi di libera concorrenza e libera circolazione delle persone e delle merci – principi cardine dell’Unione?
Tutti gli indicatori dicono chiaramente che i risultati non sono all’altezza delle aspettative. E ciò perché non si è ben focalizzata la vera causa strutturale del problema, ovverosia l’insularità. La questione insulare è stata affrontata assimilando le isole ai territori periferici, mentre l’elemento cruciale nell’eziologia del ritardo di sviluppo socio-economico non è tanto la distanza fisica dal “centro” ma la discontinuità territoriale dal continente. Questa condizione geografica di distacco dalla terraferma e di difficoltà di accesso rende l’economia e la società delle isole, specie quelle minori, più vulnerabili, meno resilienti a possibili shock esogeni nel mondo globalizzato.
Con la citata risoluzione Omarjee, il Parlamento europeo ha segnato una tappa fondamentale, che traccia una nuova e specifica strada della politica regionale europea per le isole, introducendo un diverso approccio metodologico che dovrà tener conto della peculiare causa strutturale dello svantaggio, ed in funzione di essa operare interventi appropriati, che non possono essere solo di natura economico-sociale. L’azione prioritaria è infatti la revisione degli strumenti normativi che sono alla base di ogni azione per il riequilibrio socio-economico.
Dobbiamo prendere atto di un paradosso: i principi a tutela della concorrenza, che sono una delle pietre angolari dell’ordinamento giuridico europeo, spesso sortiscono rispetto ai territori insulari l’effetto opposto a quello per cui sono stati concepiti e introdotti dal legislatore. Essi non possono e non debbono rappresentare un ostacolo alla realizzazione di interventi di rafforzamento della competitività, siano essi di natura fiscale, infrastrutturale o azioni per garantire l’accessibilità delle isole. Particolarmente delicato è quest’ultimo elemento. L’accessibilità nelle regioni continentali è garantita da una pluralità di mezzi di trasporto, non solo collettivi ma anche individuali. Nelle isole non è cosi: dobbiamo renderci conto che le infrastrutture e l’organizzazione di trasporti interni ed esterni, affidabili e paragonabili in termini di costi a quelli del continente, non sono un lusso, ma condizioni necessarie per lo sviluppo e la competitività.
Questo è il punto cruciale: se le istituzioni comunitarie lo affronteranno efficacemente, le isole potranno ambire a quel salto di qualità che le farà essere e sentire parte integrante e non marginale della grande costruzione europea. Ciò è particolarmente critico per le isole del Mediterraneo, il mare-lago, il mare-frontiera dove l’Europa, proprio attraverso le isole, incontra il suo alter ego storico e proietta la sua prima immagine di sé, quella che invero più di ogni altra la definisce agli occhi del mondo come spazio di valori e civiltà. Il carbone e l’acciaio della primissima esperienza di integrazione europea (CECA, 1951) ci hanno portato ad un livello di integrazione politica che, per quanto incompiuta e criticabile, era insperato fino a qualche generazione fa.
L’auspicio è che, seguendo la medesima logica funzionalista, la futura politica insulare europea possa ricavarsi un ruolo anche nelle dinamiche di integrazione culturale fra le due sponde del Mediterraneo, trovando così proprio nelle isole europee le interpreti di una rinnovata “politica euro-mediterranea”. Perché è nel Mediterraneo, più che in ogni altro mare dell’Unione Europea, che l’Europa tutta rimane ancora oggi isola rispetto a quei due grandi continenti – Africa e Asia – coi quali abbiamo condiviso tanta storia e sui quali si basa il nostro futuro specialmente quando pensiamo al progressivo invecchiamento demografico e alle necessità del nostro mercato del lavoro.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] Cocco L., Deidda, M., Marchesi, M., Pigliaru F., 2019, “Insularity and Economies of Density: Analyzing the Efficiency of a Logistic Network using an Econometric Simulation-Based Approach”, Regional Studies, 53(6).
[2] http://www.brunoleoni.it/il-costo-dell-insularita-il-caso-della-sardegna
[3] Attualmente le regioni ultraperiferiche sono nove: cinque dipartimenti francesi d’oltremare – Martinica, Mayotte, Guadalupa, Guyana francese e Riunione; una comunità francese d’oltremare – Saint-Martin; due regioni autonome portoghesi – Madera e le Azzorre; una comunità autonoma spagnola – le isole Canarie.
[4] https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2022-0225_EN.html
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Michele Cossa, È stato vicepresidente del Consiglio regionale della Sardegna e Segretario generale di ANCI Sardegna nonché presidente dell’Associazione sarda degli Enti locali (ASEL). Attualmente è Presidente della Commissione speciale per il Riconoscimento del principio di insularità del Consiglio regionale della Sardegna.
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