di Diletta D’Ascia
Ho avuto la fortuna in questi ultimi anni di poter scoprire da vicino l’arte plastica tunisina e molti pittori contemporanei grazie al mio amico Anis Benbrahim, il quale di volta in volta mi offre un viaggio in un mondo che va ben al di là della cultura e dell’arte, un mondo fatto di gentilezza e generosità. Credo che l’ingresso a Tunisi nell’atelier di Mondher Shelby mi abbia improvvisamente fatto comprendere che ciò che sto assimilando e assaporando non è solo la conoscenza di una tecnica o di un esponente di una corrente pittorica, ma di un gruppo di artisti solidali tra loro, aperti, la cui arte è realmente il riflesso della loro esistenza, per cui il valore del silenzio e dell’incontro sono parte integrante della loro quotidianità.
Mondher Shelby, classe 1986, è un artista visivo tunisino autodidatta di stile neo-espressionista che si avvicina alla pittura sin dalla più giovane età, respirando l’arte in casa infatti sin da piccolo, figlio del pittore tunisino Mohamed Chelbi, conosciuto con il nome d’arte El Gattous.
Ho conosciuto Mondher nell’atelier di Rabaa Skik e immediatamente fui colpita dalla capacità di sostenersi e incoraggiarsi e, se con Rabaa sin da subito è nata un’amicizia scaturita quasi dal riconoscersi come persone profondamente simili, ciò che mi incuriosì di Mondher sin dal suo ingresso furono i suoi silenzi, scanditi in modo quasi ritmico, e il suo essere un crocevia di culture, tunisino, ma con origini turche, greche e russe.
La sua prima performance artistica risale al 1997, a soli 10 anni, durante un simposio presso la galleria Air Libre, diretta da Mahmoud Chalbi, momento che segna l’inizio della sua carriera; definito come un enfant prodige, rivela subito le sue doti e la sua sensibilità di artista. In effetti è proprio questo aspetto che mi ha colpito, il suo essere artista va al di là della sua produzione pittorica, è come se la vita stessa di Mondher trasudasse arte e fosse un riflesso delle sue opere.
Sono entrata nel suo atelier in tarda mattinata, la luce invadeva l’ambiente che condivide con il padre, separati da un muro con una grande fessura, isolati ma vicini, in uno spirito di condivisione e indipendenza; mi siedo, iniziamo a parlare di vita più che di arte, diverse candele sono sul tavolo, più o meno consumate, sembrano stridere con la luce che entra prepotente, ma allo stesso tempo pare abbiano trovato il loro posto in quel luogo senza tempo. Continuo a fissarle, Mondher le guarda e sorride. Sono le persone perdute, mi spiega. Gli amici artisti andati via, la delicatezza con cui parla della morte mi ricorda Najet Gherissi; quando scende il buio e inizia a creare, le accende e si lascia trasportare dall’impulso creativo, a fargli compagnia solo l’anima di coloro che non sono più, non è un modo per omaggiarli, piuttosto un modo per tenere vivo il loro ricordo, perché in qualche modo la loro arte possa proseguire. La luce dell’alba lo coglie a volte ancora in piena creazione, mi rendo conto che dipingere richiede uno sforzo fisico e non solo emotivo, è un atto di coraggio e credo che Mondher sia pienamente consapevole di questo.
Mi guardo attorno e girovago nel suo atelier, scatto qualche foto, è qualcosa che non faccio mai, entro sempre in punta di piedi in un luogo, cercando di scomparire quanto più possibile, ma qui vengo colta da una strana familiarità con lo spazio, osservo i suoi dipinti, tra cui l’ultimo su un cavalletto, ancora da terminare, un’opera, “Etoile filante” (acrilico su tela), che esporrà di lì a poco nell’ambito dell’esposizione omaggio al pittore Lamine Sassi, “Art-Bohème” al centro culturale La petite scène, mostra curata dall’artista, fotografo, poeta e critico d’arte Mahmoud Chalbi, dedicata appunto alla memoria del compianto Lamine Sassi, “peintre de la lumière”.
Ogni opera mi appare completamente diversa dall’altra, eppure il suo tocco, la sua anima, sono perfettamente riconoscibili; Mondher indaga nel profondo, studia varie tecniche e approda ogni volta a un’opera differente pur restando fedele a se stesso. Si definisce espressionista “jusqu’au fond”, non è solo una tecnica, ma la capacità di esprimere le sue emozioni, di rendere su tela il suo vissuto.
Mondher Shelby, che sta attualmente preparando un’esposizione personale che si terrà alla fine di questa primavera, ha partecipato a diverse mostre collettive e a numerosi simposi, portando ogni volta la sua visione; resto incuriosita dai simposi, mi parla così delle esperienze al Village Ken, spazio d’arte, luogo culturale, dove si ritrovano a volte pittori e scultori. Le opere che realizzano sono spesso performance, mi spiega quanto sia difficile la pittura su muro, ma ciò che mi incuriosisce è il processo creativo durante un simposio di pochi giorni; Mondher, così come la maggior parte dei pittori che ho incontrato, ama creare nello spazio del suo atelier, quando scende il buio e viene avvolto dal silenzio, gli domando dunque se le opere che creano sono frutto di uno scambio e come riescono a creare in uno spazio unico. Mi spiega che in effetti questo stato di solitudine in qualche modo viene preservato, nonostante i momenti di convivialità, ogni pittore lavora alla sua opera, lo scambio avviene successivamente, l’impressione che ne ricavo è che, se ci sono delle influenze, provengono piuttosto dalle energie che si trasmettono.
Nei giorni successivi alla nostra conversazione i miei pensieri continuano a tornare alla sua risposta e alle differenze, non tanto di tecniche quanto di tematiche, che percepisco nei suoi quadri, spinta da questa curiosità contatto Michela Margherita Sarti, curatrice di molte mostre a Tunisi che hanno visto esposte opere di Mondher Shelby; d’istinto, in effetti, avevo notato un certo parallelismo, una profonda e inconsueta differenziazione di tematiche delle esposizioni curate dalla Sarti.
Michela Margherita Sarti, curatrice di mostre e artista italiana che quasi trent’anni fa ha scelto di restare a Tunisi, mi racconta che in questo Paese ha imparato il mestiere di curatrice, grazie alla sua galleria e all’incontro con professioniste come Leila Souissi; pur restando fedele al suo stile artistico, ovvero il Pop Surrealismo, questo Paese ha fatto emergere in lei il desiderio di creare, ma anche di mettere in relazione gli artisti. A differenza di molti curatori di mostre che partono da un tema che viene loro imposto, Michela Margherita Sarti, così come avevo intuito vedendo alcune delle sue mostre, cura un’esposizione partendo da una sua idea; trae ispirazione dalla vita e da ciò che la circonda, che sia una conversazione, un’immagine, una frase di un romanzo, purché tali dettagli riescano a creare in lei curiosità ed emozioni contrastanti, sufficientemente forti da divenire la scintilla che la spinge a dare vita a un nuovo tema. La voglia di esplorare nuovi mondi e nuove tematiche diviene il motore del suo lavoro di curatrice e ogni progetto “un viaggio in un universo unico, un’occasione per raccontare storie affascinanti”, dalla versione satirica del Kamasutra ad Alice nel Paese delle Meraviglie, dal magico mondo del circo alla figura mitologica di Venere.
Tematiche che trovano eco in una personalità eclettica e capace di trasformare gli stimoli in mostre che non smettono di sorprendere gli spettatori, quali il profumo e la sua capacità evocativa, gli abissi marini, l’amore, il sole come simbolo di vita, il viaggio avventuroso di Il giro del mondo in 80 giorni, la spiritualità de Il Profeta e il fantastico mondo della fabbrica di cioccolato. Gli spettatori vivono così un’esperienza immersiva che va ben al di là dell’emozione provocata dalla visione di un dipinto, vengono catapultati in una dimensione altra, ecco allora come il tempo e lo spazio restano sospesi e come ci si ritrovi non solo a provare delle emozioni, ma a vivere quasi un viaggio emozionale da cui è possibile uscire portando con sé un diverso punto di vista. Ogni sua mostra d’altra parte non si limita all’esposizione di opere d’arte, ma si trasforma in un’esperienza totalizzante, capace di trasportare il pubblico in mondi lontani e immaginifici.
La creazione di mostre collettive con scenografia rappresenta il cuore pulsante del lavoro di questa artista e curatrice che ha fatto dell’immersione sensoriale la propria cifra stilistica. La scenografia è per lei molto più di un semplice ornamento, è uno strumento narrativo potente, un mezzo per amplificare il tema scelto e creare un legame emotivo tra le opere, gli artisti e il pubblico. Esempi emblematici di tale approccio sono rappresentati dalla mostra dedicata al circo, in cui i colori vibranti, le luci teatrali e i dettagli evocativi hanno ricreato l’atmosfera magica di una tenda circense e in cui ogni elemento sembrava parlare; dall’esposizione dedicata ad Alice nel Paese delle Meraviglie in cui ha allestito tre scene, la foresta incantata, la tana del coniglio e il labirinto della Regina di Cuori e in cui l’ingresso della Musk and Amber Gallery è stato trasformato in un coniglio di cartongesso intagliato, così da far entrare i visitatori nel racconto. Ma mi riferisco anche alla sua mostra personale del 2015, Men’s Game Children’s War, per cui ha progettato una scenografia intensa e suggestiva sul tema della guerra: oggetti d’epoca, accuratamente disposti e avvolti da filo spinato, a simboleggiare la prigionia e la sofferenza e a rendere l’esperienza ancora più coinvolgente e innovativa, quattro quadri arricchiti da elementi di realtà aumentata che trasportavano il pubblico in una narrazione immersiva e toccante.
Le tematiche scelte dalla Sarti risultano essere così diverse da rendere quasi difficile pensare che siano state create dalla stessa donna, eppure se esiste un filo conduttore risiede forse nell’amore per l’arte e nel rapporto che instaura con gli artisti. Diventa lei stessa spettatrice della trasformazione che avviene nei pittori durante la preparazione di una mostra, quando si aprono a nuove possibilità, esplorando tematiche fuori dalla loro consueta prospettiva e affrontando soggetti e sentimenti che, forse, non avrebbero mai osato toccare da soli. Ogni esposizione diventa così non solo un modo per mostrare il proprio lavoro, ma un’opportunità di crescita, una sfida che spesso porta a risultati inaspettati e che oltrepassa le aspettative iniziali. In effetti mi racconta che uno degli aspetti più affascinanti del suo lavoro risiede nella collaborazione con gli artisti, che vengono invitati a riflettere su come le loro opere possano dialogare con la visione d’insieme. Questo approccio trasforma ogni mostra in un’opera collettiva, dove ogni dettaglio, dalla luce ai materiali, racconta una storia unica.
Ritrovo lo stesso sentire che Mondher mi aveva trasmesso riguardo le mostre collettive, restare fedele a se stesso pur inserendosi in un processo di evoluzione, ricerca e apertura. D’altra parte è forse ciò che mi ha colpito di più di quest’uomo, il quale diverse volte durante la nostra conversazione ha affermato che le sue non sono opere facilmente vendibili, non sono certo “opere da salotto”, ma da esporre o per collezionisti; d’istinto mi ero guardata attorno, ogni pennellata, ogni suo disegno suscita un’emozione forte, un turbamento e sentimenti “non addomesticabili” e fa emergere il nostro côté noir in modo prepotente. Si scaglia ferocemente contro quella che definisce “prostituzione pittorica”, il compiacimento di un committente o di un possibile acquirente, “je suis entier dans ma peinture”, mi dice con un lampo negli occhi, fiero e pienamente consapevole di ciò che sta affermando.
L’uso dei colori si fanno portatori di questa medesima forza nei dipinti di Mondher, il quale gioca con i colori complementari, blu, rosso, verde, giallo, per creare le sue opere, e i contrasti e i colori sono così forti che, se ci si sofferma a guardarli a lungo, possono apparire talmente luminosi da far male agli occhi, quasi quel colore abbagliante riuscisse a farsi portatore del dipinto stesso e delle sue emozioni.
Ecco allora come sia per me naturale immaginare le sue opere esposte nelle mostre curate da Michela Margherita Sarti, la quale mi racconta che ogni artista invitato porta con sé un universo interiore unico, ogni mostra diventa così un mosaico di visioni, con un filo invisibile che le lega in un racconto coerente e profondo. D’altra parte organizzare un’esposizione non è solo una questione di scelta estetica o tecnica, ma un processo che unisce istinto e valutazione attenta, un equilibrio sottile tra emozione e ragione. La selezione degli artisti non si basa unicamente sulle loro abilità tecniche – pur essenziali – ma sulla capacità di trasmettere qualcosa di autentico, di raccontare storie attraverso le loro opere.
Essere artista, prima ancora che curatrice, le permette di comprendere in modo diretto le sfide del processo creativo: l’incertezza, l’entusiasmo, i momenti di difficoltà. Questo non si traduce solo in una selezione più sensibile, ma anche in un sostegno autentico, che va oltre l’aspetto professionale. Il rapporto che costruisce con gli artisti poggia le basi su un terreno di fiducia reciproca, dove lei, in quanto curatrice, diventa non solo guida, ma anche sostenitrice, complice e, talvolta, confidente. Creare un ambiente in cui possano sentirsi liberi di esprimere la propria visione e sperimentare nuovi percorsi diventa dunque parte fondamentale di questo viaggio condiviso.
Fu Rabaa a parlarmi di Michela Margherita Sarti, che conoscevo solo per aver letto qualcosa a proposito delle sue mostre; nelle sue parole, così come in quelle di Mondher, si avverte questo legame profondo che viene instaurato, il senso di comunità, che va al di là dell’aspetto professionale, la consapevolezza di potersi sostenere, di esserci l’uno per l’altro. Ecco spiegata dunque quella continuità che, in modo naturale, la Sarti consolida con alcuni artisti nel tempo, la scelta di realizzare mostre collettive e di collaborare quasi sempre con gli stessi pittori, pur inserendo ogni volta uno e due giovani così da dare loro un’opportunità. Mi spiega che quando il dialogo creativo è sincero la collaborazione diventa un processo fluido, un percorso che evolve di mostra in mostra. Si crea così una comunità artistica, uno spazio in cui ciascuno porta il proprio contributo e in cui condividere la stessa passione e il desiderio di comunicare attraverso l’arte. Ed è proprio in questo equilibrio, in questa connessione profonda tra curatore e artista, che ogni progetto trova la sua forza più autentica, trasformandosi in un’esperienza irripetibile.
Michela Margherita Sarti mi confessa, d’altra parte, che forse è proprio la varietà degli universi esplorati e degli artisti coinvolti a rendere ogni mostra un’esperienza unica. Ognuno di loro porta con sé un mondo personale, fatto di visioni, emozioni e storie da raccontare, eppure, nonostante questa straordinaria eterogeneità, le loro opere trovano sempre un’armonia, un filo invisibile che le lega attraverso il tema comune che le accomuna. In quanto curatrice ciò che la spinge a coinvolgere un pittore è la capacità di emozionare; ogni artista deve saper toccare l’anima con autenticità, trasmettendo attraverso le proprie opere un senso profondo di verità e narrazione. Questa autenticità è ciò che trasforma una semplice esposizione in un’esperienza immersiva, capace di parlare non solo agli occhi, ma soprattutto al cuore di chi la vive. È proprio questa alchimia, tra diversità, emozione e coerenza, a rendere ogni mostra un viaggio straordinario, capace di lasciare un segno nel pubblico e negli stessi artisti.
Tuttavia l’arte non è solo espressione, è anche ricerca; ogni esposizione diventa così un’opportunità per gli artisti di mettersi alla prova. Il compito del curatore non si limita a organizzare una mostra, è anche quello di stimolare, di provocare una crescita, di aprire nuove prospettive e Michela Margherita Sarti li sprona a “cercare e a cercarsi”, esplorando temi che li spingano oltre i confini della loro comfort zone. È un dialogo continuo, un processo di trasformazione che arricchisce entrambi, curatrice e artista, e che va a creare un ponte tra emozione e scoperta. Ed è proprio in questa tensione tra ricerca e meraviglia che ogni esposizione prende vita, trasformandosi in un’esperienza che va oltre l’arte e diventando un viaggio da vivere e ricordare.
Michela Margherita Sarti è l’espressione, come Mondher Shelby, che l’arte nasce dall’incontro tra tecnica e visione, e nel caso di questa artista, prende forma attraverso un equilibrio tra pop art e surrealismo. La pittura a olio e il disegno sono gli strumenti principali con cui dà vita al proprio immaginario, tuttavia realizza spesso opere su legno o MDF, materiali che con la loro superficie liscia consentono una precisione straordinaria nei dettagli e conferiscono solidità alle composizioni, permettendole di creare personaggi e mondi immaginari ricchi di dettagli.
Il pop surrealismo è il suo linguaggio naturale, “una fusione perfetta tra la vivacità cromatica della pop art e la profondità simbolica del surrealismo”. La sua arte si nutre di contrasti: colori accesi che avvolgono soggetti enigmatici, forme audaci che nascondono significati nascosti, dettagli che invitano a una lettura più profonda. Ogni opera è un invito a immergersi in un universo onirico, dove il confine tra realtà e immaginazione si dissolve, lasciando spazio a infinite interpretazioni. Un elemento ricorrente nelle sue creazioni è la figura di una piccola ragazza, simbolo della sua essenza più profonda, che si fa portatrice di innocenza, paure, desideri; attraverso questa figura crea “mondi fantastici, dove le regole della realtà si dissolvono, lasciando spazio a infinite possibilità. Ogni opera diventa così un viaggio nel suo mondo interiore e un ponte verso l’immaginazione di chi osserva”.
Mi rendo conto parlando con Michela Margherita Sarti di quanto istinto e ricerca convivano in lei, un aspetto che era stato centrale anche nella mia conversazione con Mondher, il quale arriva a creare un dipinto dopo una lunga e attenta ricerca. Mondher Shelby, figlio e nipote d’arte, è un autodidatta nelle cui vene scorre l’arte; pur studiando infatti arte grafica, respira l’arte in casa sin da piccolo, assimilando un linguaggio visivo che oggi è parte della sua identità più autentica; il padre infatti gli ha trasmesso non solo la tecnica, ma anche la passione, il rigore e la libertà creativa. Essere pittore per lui vuol dire non solo conoscere la storia che passa attraverso l’arte, ma riuscire a sentire e a trasmettere il vissuto e le emozioni per poi veicolarle attraverso una pennellata.
La composizione è qualcosa di primordiale, mi dice, “il pilier d’un tableau”; composizione, tavolozza, materia diventano quasi prolungamenti del suo essere che gli consentono di creare. Su uno scaffale ci sono molti barattoli di colore, me li indica con un cenno, è un regalo che gli hanno fatto, “se manca la materia non si può lavorare”, la creazione passa anche da questo, l’ispirazione che si scontra con la realtà e le sue difficoltà.
Mondher Shelby è il puro istinto che incontra la tecnica. La sua arte è un perfetto equilibrio tra padronanza tecnica e profondità espressiva, un connubio che dà vita a opere potenti, capaci di colpire per la loro estetica ma anche per le storie che raccontano. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che padroneggia perfettamente diverse tecniche, le esplora, le studia, le decostruisce e ogni volta riemerge con un nuovo stile, pur mantenendo e facendo sentire la stessa anima. Ogni suo dipinto è una sintesi di un percorso effettuato a cui arriva dopo studi e ricerche che lo conducono alla sperimentazione di nuove tecniche, che gli consentono di esprimersi in modo diverso. Ciò che lo contraddistingue è in effetti la capacità di esplorare una straordinaria varietà di tecniche senza mai perdere la coerenza del proprio universo espressivo. Secondo Mondher questa pulsione alla ricerca è il cuore stesso dell’essere pittore.
Il padre entra nell’atelier, riconosco la stessa riservatezza, la sua presenza è imponente, pur restando fermo è come se abbracciasse lo spazio suo malgrado, Mondher mi presenta, l’uomo definisce il figlio “misérable et mi-joyeux”, c’è qualcosa di profondamente commovente nella sua voce, non credo di aver mai visto lo sguardo di un padre tanto fiero e orgoglioso di un figlio. Sul tavolo è poggiata una scacchiera, ogni elemento della vita di Mondher è un fil rouge del suo essere, il processo creativo è esattamente lo stesso di una partita a scacchi, ha bisogno di vedere ciò che accadrà prima di iniziare a giocare, ancora una volta strategia e istinto convivono. Allo stesso modo, dopo un lungo studio, è giunto a quello che è divenuto il personaggio emblematico dei suoi dipinti, ovvero l’uomo con un dente che ride, “lo cucinava” da tempo nella sua testa – mi racconta – finché non è venuto il momento di dargli un volto che tutti potessero vedere e in tre minuti lo ha disegnato su tela.
D’altra parte questo è lo stesso tipo di procedimento che utilizza per dare vita a un dipinto; prima di dipingere su acrilico, infatti, realizza studi su carta per esplorare composizione, forme e contrasti. Questo passaggio gli permette di affinare l’idea, il disegno preparatorio diviene una guida, che può essere modificata o trasformata dal colore, andando così a creare un dialogo tra progettazione e impulso creativo. Il risultato è un equilibrio tra controllo e libertà espressiva, dove ogni strato aggiunge profondità e significato all’opera.
La tecnica mista del monotipo che utilizza sembra adattarsi perfettamente al suo spirito, questo punto d’incontro tra pittura e stampa consente di ottenere un’unica immagine irripetibile; il monotipo non prevede matrici incise o riproducibili, si applica direttamente il colore su una superficie liscia, detta matrice, che può essere realizzata in materiali come vetro o acrilico. Una volta completata l’immagine sulla matrice, questa viene trasferita su carta o tela tramite pressione, manuale o con una pressa. Il risultato è un’opera unica, caratterizzata da texture inaspettate e sfumature delicate impossibili da ottenere con altri metodi, il cui fascino risiede nella sua imprevedibilità e ogni dipinto diviene il frutto di un equilibrio tra controllo e casualità.
Mi colpisce quanto l’approccio alla creazione di un’opera della Sarti sia simile, mi parla di “equilibrio tra pianificazione e istinto”; custodisce in lei per giorni, se non per mesi, un’intuizione fino alla sua concretizzazione nel processo creativo durante il quale “l’istinto prende il sopravvento, guidato dalle emozioni del momento”. Ogni sua opera non è solo una creazione, ma un inno alla resilienza e alla gratitudine. In Michela Margherita Sarti rivedo la stessa consapevolezza di Mondher; di lui la curatrice dice che è attraversato da “una sensibilità rara; Mondher cattura l’essenza dell’umano e la trasforma in immagini che parlano direttamente all’anima di chi le osserva”.
Mi racconta di come Mondher Shelbi sia un artista nel senso più profondo del termine, attraversato da un turbine di emozioni che alimentano incessantemente la sua creatività; ogni sua opera è un riflesso del suo stato d’animo, una finestra aperta sui sentimenti; ogni suo dipinto, pur nella diversità delle interpretazioni, rimane immediatamente riconoscibile grazie a una firma visiva e emotiva unica. Mondher è un artista dal talento immenso, con una visione chiara e una sensibilità fuori dal comune, il cui percorso è destinato a spingersi sempre oltre, grazie alla sua capacità di esplorare nuove forme di espressione restando fedele alla propria essenza. Accompagnarlo in questo viaggio artistico – mi confessa – è per lei un privilegio, un’esperienza che le permette di assistere alla continua evoluzione di un talento destinato a lasciare il segno.
Mondher mi mostra alcuni suoi disegni su carta, non ho mai visto disegni realizzati con questo tipo di tecnica, mi spiega che inizia senza sapere dove lo condurrà la penna, poi mi chiede di sceglierne uno e mi dice che ne disegnerà un altro per me, poggia la penna sulla carta, resto incantata nel vedere come, muovendo la mano che sembra guidarlo, piano piano esca in modo del tutto inaspettato una figura. Mi alzo e mi muovo attorno a osservare le sue opere, la musica di Jacques Brel che ci ha accompagnato tutto il giorno sembra sottolineare i movimenti di Mondher, riconosco in lui lo stesso dispendio di energie. Ogni tanto mi legge qualche poesia che ha scritto, mi rendo conto che riesce a mettere in parole le stesse emozioni che trasmette con una pennellata, o recita alcuni versi di Brel; mi colpisce la sua memoria, mi confessa che è un dono e una maledizione allo stesso tempo, poiché non dimentica mai nulla, alcun dettaglio, tutto resta vivido in lui, come se la pietà dell’oblio non gli fosse stata concessa, forse da questo deriva la sua sensibilità e la capacità di farsi portatore di emozioni.
Il sole entra dalla finestra e invade completamente la stanza, è il momento per fermare questo istante e scattare una fotografia insieme, quasi accecata dal bagliore come se avessi fissato troppo a lungo un suo dipinto. Firma il disegno, lo appoggia sul tavolo e lo lascia scivolare fino a me, mi sento grata non solo per i disegni, ma per essere stata accettata e accolta.
Ogni volta che Anis mi conduce alla scoperta di un artista c’è sempre qualcosa che mi tocca nel profondo, la percezione di emozioni sopite che riemergono e che mi fanno uscire da questi incontri con una nuova sensibilità e un turbamento che, a volte, continua ad accompagnarmi. Con Mondher ho trascorso la giornata del 31 dicembre, dunque un momento di transito che, in qualche modo, si stava riflettendo anche nella mia vita; rientrando a casa ho posato i due disegni e sentito una piacevole e inaspettata quiete e la consapevolezza di essere stata accolta in una comunità. “La Tunisia mi ha insegnato la resilienza e il valore della comunità”, mi dice Michela Margherita Sarti; quando l’ho contattata per parlare del suo lavoro di curatrice, sapevo, come spesso mi accade, che vi era una qualche tipo di comunanza tra noi che tuttavia non riuscivo ancora a identificare, quando le ho chiesto come fosse avvenuto il suo incontro con la Tunisia e la ragione per la quale aveva deciso di restare, mi sono resa conto di quanto le nostre storie fossero simili.
Un viaggio avvenuto per caso, il suo nel 1996 per una vacanza, il colpo di fulmine per la luce, i colori e la vitalità di questo popolo, la scoperta che un viaggio aveva definitivamente cambiato il corso delle nostre vite. Senza saperlo con le sue parole traduce il mio stesso sentimento, “il mio legame con la Tunisia è una storia di rinascita e gratitudine e ogni progetto che realizzo è il mio modo di restituire ciò che questo Paese mi ha donato”. D’istinto penso a tutti gli sguardi incrociati in questi ultimi anni, ai rapporti di amicizia stabiliti e mi ritrovo con la mente nell’atelier di Mondher, la voce di Jacques Brel che invade la stanza, gli scacchi accanto ai pennelli, i dipinti che lo circondano, le candele accese per gli amici che non ci sono più, e la sensazione di essere ancora all’inizio di un viaggio verso casa.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Diletta D’Ascia, docente di sceneggiatura. Laureatasi a Roma al D.A.M.S. in Teorie psicoanalitiche del Cinema, ottiene un riconoscimento di merito al Premio Tesi di Laurea Pier Paolo Pasolini. Dirige e scrive vari cortometraggi e mediometraggi e pubblica articoli e saggi in varie riviste. È fondatore e Presidente dell’Associazione Culturale Gli Utopisti, con cui dal 2010 si occupa di realizzare corsi di formazione di cinema e progetti legati al sociale, in particolar modo contro la violenza sulle donne.
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