Le ragioni di una fiducia incondizionata
Quando il 4 maggio del 2021 è stato dato l’annuncio dell’arrivo di José Mourinho sulla panchina dell’A.S. Roma, il tifo calcistico giallorosso ha immediatamente proiettato sul tecnico portoghese grandi speranze di gloria, maturando la forte convinzione che finalmente Mourinho avrebbe difeso la squadra e attraverso questa il medesimo popolo romanista.
Tuttavia, dopo oltre due anni alla guida della Roma, al netto della conquista dell’UEFA Conference League 2022 e di una finale di UEFA Europa League 2023 (persa anche a causa di un arbitraggio assai controverso), la squadra giallorossa esprime un gioco piuttosto sterile e vive una fase avara di vittorie e di punti. L’inizio della Serie A 2023/2024 ha registrato il record negativo del campionato della Roma con la peggior partenza degli ultimi decenni, la panchina di Mourinho comincia a scricchiolare persino nella variegata tifoseria romanista che fino ad ora aveva invece concesso al tecnico portoghese un appoggio pressoché incondizionato (negli stadi e sui social media).
A fine settembre 2023, nel momento in cui mi accingo a concludere il presente articolo, la Roma di Mourinho sembra in ripresa dopo una gravissima crisi che ha raggiunto il suo apice nella clamorosa sconfitta per 4 a 1 contro il Genoa (squadra in lotta per non retrocedere in serie B e con un organico decisamente inferiore per valore tecnico ed economico). Mentre sulla stampa si rincorrono voci di esonero e già si fanno i nomi di allenatori di primo piano che potrebbero succedere a Mourinho (Antonio Conte e Hans-Dieter Flick tra gli altri), non sono pochi i tifosi e gli opinionisti che continuano a riporre massima fiducia nell’allenatore portoghese, scagionandolo dalle sue presunte responsabilità e individuano la fonte dei problemi della squadra nelle istituzioni calcistiche, nel mondo della comunicazione, negli arbitri, nella società romanista o tra i singoli calciatori.
In questo articolo, a partire dalla mia personale esperienza di appassionato di calcio, di tifoso (interista) e di abitante di Roma con tante frequentazioni romaniste, nel tentativo di proporre un un’interpretazione più generale sul senso della leadership contemporanea, descriverò la figura di José Mourinho, le ragioni del suo appeal sul pubblico e di conseguenza sulla stampa. Al di là dei meriti tecnici che in quanto tifoso interista non posso che riconoscere ad un’autentica leggenda del club milanese, mi sembra che il fatto che Mourinho sia quasi sempre rimasto nei cuori dei tifosi delle squadre che ha allenato, e che egli venga difeso persino quando la sua squadra si trovi nei bassifondi della classifica, faccia emergere un ordine di fenomeni che va oltre gli aspetti calcistici per approdare nel campo della costruzione culturale della leadership.
Difficile qui non pensare alle fondamentali pagine che Max Weber (1922; 2016) ha scritto sul dominio legittimo e che propone una tripartizione – dominio tradizionale, dominio burocratico e dominio carismatico – che dopo più di cento anni presenta ancora preziosi spunti di riflessione. Come è noto, lo studioso tedesco distingue il potere (Macht) dal dominio (Herrschaft) e individua come cruciale la completa accettazione dei dominati ad essere tali. Il consenso al dominio, cioè l’accettazione delle verità prodotte dal leader, diventa dunque una faccenda di legittimità (legitime Herrschaft), che si concretizza seguendo almeno tre direzioni: a) il dominio tradizionale è quello che definisce “dell’eterno ieri”, intendendo con questa espressione sottolineare quanto questo si fondi su una ripetizione di modelli e personalità che appaiono come “esistenti da sempre”; b) vi è poi il dominio burocratico o legale che è reso attivo attraverso il potere delle regole scritte e delle procedure severamente codificate secondo la visione fortemente razionalista di Weber; c) infine vi è il dominio carismatico, il quale si fonda su una caratteristica co-essenzialità alla personalità del leader e per tale ragione risulta essere sia l’idealtipo più refrattario ad una sistematizzazione sia quello più suscettibile delle articolazioni più inaspettate.
Seguendo l’invito dello stesso Weber a non considerare i tipi come essenzializzazioni della realtà, in questo articolo mi focalizzerò su come due sistemi di giustificazione del dominio – tradizionale e soprattutto carismatico – vengono reinterpretati da Mourinho ed altri per attualizzare un concetto di leadership che sicuramente deve essere letto alla luce della globalizzazione ma che può essere rintracciato molto indietro nel tempo, in un quadro culturale fortemente caratterizzato dal valore della guerra e della precognizione.
Proponendo un particolare tipo di giro lungo antropologico nel quale avrà anche un certo peso la mia stessa esperienza di tifoso interista e di estimatore di Mourinho – indimenticabile il suo gesto delle manette in rivolta contro la classe arbitrale e “il potere” in generale – in conclusione confronterò le strategie retoriche di Mourinho e il suo modo di “allenare stampa e tifosi” (frase pregnante sentita in una radio sportiva romana), con quelle di altri leader mostrando i tratti comuni sintetizzabili nel fatto che tali forme di leadership – pur poggiando sui già citati simboli di lunga durata – si auto-attribuiscono una più o meno implicita missione di salvaguardia (dominio tradizionale) e lavorano alla coltivazione di una forma di personalità contemporanea che conferisce una peculiare mediocrità al dominio carismatico.
Il carisma: marzialità e precognizione
Per parlare di leader e leadership occorre prima di tutto dare conto del significato di queste parole, del loro percorso etimologico e degli usi che ne vengono fatti oggigiorno. Derivato dell’inglese antico lædan (“guidare”, “andare avanti”, “marciare alla testa di”, “mostrare il cammino”), il termine ha il suo corrispettivo italiano in “duce” nell’accezione di “conduttore”, “guida”, “scorta” in senso proprio o figurato; la parola leader compare in varie forme in molte lingue germaniche andando sempre e comunque ad indicare un movimento marziale, un cammino pericoloso, un viaggiare, persino un passare nell’oltretomba (etymonline.com, 30/09/23). Si tratta di un’idea di “esperienza in movimento” che mostra grandi similitudini ad un altro termine fondamentale nella concezione occidentale della leadership, ovvero la nozione di regalità indoeuropea poi giunta fino a noi attraverso l’epopea dello Stato-Nazione.
Come mostra Benveniste (2001: 291-296) in relazione alla formazione del termine rex, partendo dalla nozione contemporaneamente materiale e morale come quello di regula, “lo strumento per tracciare la retta” che fissa la regola – dunque l’integrità che si oppone moralmente a ciò che è storto, contorto e non conforme – si ha l’emersione di tanti altri termini che indicano la rettitudine come nel latino rectus, nel greco euthùs, nel gotico raihts e nell’antico persiano rāsta che qualifica la “via” nel senso prescrittivo: “non lasciare la retta via”. Il rex dei latini e il verbo regere devono dunque intendersi come parole che non indicano semplicemente un sovrano politico bensì una personalità che traccia “la linea”, che mostra “la via da seguire” e che incarna ciò che è “retto” poiché è stato già misurato dalla conoscenza mistica del rex.
Se dunque nel mondo germanico il lædan assume una funzione di guida essenzialmente militare, la leadership del rex fa fondamento su una visione che mette l’accento sulla moralità dell’operato e sui poteri magico-cosmogonici del reggente. In buona sostanza, se il leader protegge la truppa o guida l’assalto al nemico, il rex conosce o incorpora una verità sull’universo ad altri preclusa.
Lungi dal sottovalutare il peso della storia e della cultura che ha certamente assegnato un valore specifico a tali termini, pur riconoscendo l’esistenza di altre forme di leadership (distributive, impersonali, egualitarie, di lignaggio, etc.), mi sembra importante sottolineare che questi due aspetti sollevati – la marzialità e la precognizione – abbiano avuto un ruolo centrale nella cultura occidentale e dunque nella diffusione su scala planetaria di una specifica idea di potere e di leadership applicata e attualizzata al nazionalismo, al capitalismo, allo sport, etc. Del resto, da Romolo a Re Artù passando per Shakespeare, i Re taumaturghi, il totalitarismo e per molte cariche presidenziali ispirate alla figura del sovrano buono e retto, l’idea che il leader sia un guerriero coraggioso e saggio è assai ricorrente e costantemente attualizzata.
Tutt’altro che difficile poi ritrovare l’aggressività guerresca del lædan nell’immaginario dei “capitani d’industria” o nella celebrazione a tinte eroiche della combattività capitalistica del CEO (Chief Executive Officer); allo stesso modo non è difficile rintracciare la figura del rex “genio illuminato” nella cultura del management, là dove si insiste molto sul concetto di leader che protegge e fa crescere in una dimensione perfettamente contrapposta alle maniere punitive e alla gerarchizzazione verticale del “capo”. Ecco il rex che mostra e incarna “la via” con l’autorevolezza dell’esempio.
Dal campo della competizione affaristica a quello della lotta sportiva il passo è breve e non sembra neppure necessario approfondire quanto quest’ultimo ambito abbia un rapporto osmotico con l’immaginario della guerra e con il linguaggio dello Stato-Nazione (Bausinger 2008). Forte di una storia di reciproci prestiti di valori e simboli – la strategia d’attacco, la previsione della tattica avversaria, i guerrieri, il capitano, la bandiera, etc. – il concetto di leader approda nel mondo dello sport e dunque nello specifico campo di calcio, un luogo che senza ironia può essere pensato come istituzionale nella misura in cui sembra incarnare tutta una serie di pratiche e simboli ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale contemporanea e in particolar modo per quelle compagini che perseguono una politica conservatrice, identitaria e nazionalista (l’appartenenza alla maglia, la territorialità della squadra, l’altro come nemico, etc. ).
È proprio in questo campo che entra in gioco la figura del leader incarnata da José Mourinho, così come quelle di tanti altri protagonisti dello sport più popolare del pianeta. Seguire la carriera del tecnico portoghese, il suo stile di gioco, il suo caratteristico modo di comunicare nonché l’attaccamento entusiastico che quasi sempre gli viene riconosciuto da tifosi e stampa, significa infatti seguire un peculiare processo di costruzione della leadership che si sviluppa secondo i caratteri della marzialità e della precognizione e che fonda la sua giustificazione – il suo credito popolare – in una zona tendente all’innovazione carismatica ma con alcuni elementi riconducibili ad una tradizione già strutturata.
Antesignano del “risultatismo”, corrente calcistica che alla bellezza del gioco predilige la concretezza delle vittorie, le squadre allenate da Mourinho si sono sempre caratterizzate per alcuni aspetti molto amati dal pubblico come l’adrenalinico ottenimento della vittoria negli ultimi minuti (con la spettacolare esplosione degli equilibri tattici e dei ruoli dei calciatori) e una parossistica aggressività manifestata nei confronti degli arbitri oltre che degli avversari.
Difficile dunque pronunciare il suo soprannome di “Special One”, osservare il suo “Triplete” interista o la sua prima impresa col Porto – quando conquistò la Champions League con una squadra decisamente inferiore ad altre corazzate europee (Manchester United, Milan e Real Madrid tra le altre) – senza pensare al concetto di carisma (il potere magico che rende straordinario l’individuo) proposto da Max Weber (1922; 2016); così come è difficile non pensare alla sua proverbiale abilità nell’anticipare le mosse degli avversari – in conferenza stampa e sul campo – senza chiamare in causa il potere profetico della precognizione. Il fatto poi che Mourinho si sia spesso distinto per le sue innate qualità motivazionali (“per lui avrei ucciso” ha dichiarato Zlatan Ibrahimovic), l’innesto di tanti calciatori esordienti (“i bambini di Mou”), e il fatto che abbia trasformato la sala stampa da luogo in cui gli allenatori si recano malvolentieri a parte integrante del campo da gioco – luogo nel quale egli “si sacrifica attirando tutta la pressione su di sé”; sono tutti elementi che alimentano l’immagine patriarcale del leader protettivo che guida l’attacco e che accende gli animi, polarizzando la discussione e indicando i nemici da distruggere (dentro o fuori dallo spogliatoio).
Nelle conclusioni affronterò quest’ultimo argomento in maniera più approfondita, nel prossimo paragrafo invece spenderò alcune righe sulla specifica esperienza di Mourinho a Roma nella convinzione che in questo contesto (calcisticamente periferico), l’allenatore portoghese – forse anche contro il suo intento iniziale – sia stato inserito in una cornice fortemente caratterizzata dalla dimensione della tradizione. Come cercherò di mostrare, si tratta di un aspetto assolutamente centrale che ha dato dei frutti di grande interesse per la generale discussione sulla leadership contemporanea.
La tradizione oltre il risultato
A differenza di città come Torino e Milano nelle quali, grazie a squadre come la Juventus, l’Inter e il Milan, si sono concentrati decine di scudetti e coppe, il contesto romano e romanista vanta numeri sensibilmente più contenuti. Come spesso accade nella cosiddetta cultura del “tifo oltranzista”, tale scarsità di titoli ha generato un’esperienza alternativa del calcio basata su un romanismo dalla forte tradizionalità, da un peculiare senso di comunità e da un attaccamento alla “magica Roma” che va “oltre il risultato” (Thomassen e Clough Marinaro 2014; Louis 2019). Non a caso, gli inni ufficiali della Roma, dalla canzone di Lando Fiorini – “se vinci o perdi non cambia niente” – a quella di Conidi – “quante volte in un tuo abbraccio ho preso coraggio” – passando per quella di Venditti – “me fai sentì ‘mportante anche se nun conto niente” – ciò che viene messo al centro è sempre la condivisione di un’esperienza collettiva fatta di malinconia e gioia, ma mai di ostentazione della vittoria. È probabilmente questo che rende i pochi successi ottenuti dalla Roma ancora più apprezzabili e leggendari e che soprattutto alimenta una sorta di gusto agrodolce per la condivisione della sconfitta, per la sofferenza (sportiva) e per l’odio (sportivo) verso gli avversari – in particolare quelli che “rubano” le vittorie.
Si tratta di un particolare gusto per “quel che sarebbe potuto succedere” che è attualmente riscontrabile in una sorta di “patrimonializzazione” della Roma dei primi anni Ottanta guidata dal leggendario Nils Liedholm, con un organico fatto di campioni come Falcão, Conti, Pruzzo e il capitano Agostino Di Bartolomei, tragicamente scomparso suicida a dieci anni esatti dalla finale di Coppa Campioni persa in casa contro il Liverpool.
Al di là del ricordo della vittoria dello scudetto 1983/1984 della quale presto ricorrerà il quarantennale, complice anche la coincidenza cronologica con la giovinezza della generazione babyboomer (quella che possiede ancora un ruolo egemonico nella definizione dei valori “buoni da tramandare”), l’adozione dell’iconico “lupetto” anni Ottanta per la maglia della stagione 2023/2024, la nostalgia per l’italianità dello sponsor Barilla contrapposto all’attuale Riyadh Season, così come i richiami alla clamorosa sconfitta nella finale del 1984, sono tutti elementi che formano una grammatica del ricordo giallorosso che paradossalmente mentre assegna grande risalto alla celebrazione del passato, della tradizione e della comunità – con alcuni “innovativi” richiami calcistici all’antica Roma – conferisce minore importanza ai successi contemporanei (Di Pasquale 2018).
Citando le parole di un amico romanista di circa quarant’anni: “impossibile” e “blasfemo” paragonare un successo del presente con uno della Roma del passato. Nelle narrazioni dei tifosi – giovani e anziani – l’epoca d’oro è quella degli anni Ottanta. Dopo quel momento, dunque, vi sarebbe stata un’inesorabile decadenza solo parzialmente riscattata dalla vittoria dello scudetto 2000/2001 e dalla vittoria della Conference League nella stagione 2021/2023. Al tal proposito mi sembra assai significativo che proprio in occasione di quest’ultima vittoria, nel quartiere Testaccio, sia comparso un murales raffigurante l’attuale capitano Pellegrini portato in trionfo sulle spalle del leggendario capitano Di Bartolomei; in altre parole, l’ottenimento di una vittoria contemporanea non basta di per sé ma deve essere consacrato dalla tradizione e dal richiamo al passato.
In un clima culturale di questo tipo, quale atteggiamento sembra caratterizzare un allenatore assolutamente egocentrico e carismatico come José Mourinho? Le dichiarazioni dello Special One su questo tema fanno emergere un atteggiamento piuttosto ambiguo. Nella conferenza stampa prima della finale di Europa League del maggio 2023 (match poi perso ai rigori), Mourinho fa riferimento all’attaccamento che ancora avverte nei confronti delle squadre precedentemente allenate:
«Io faccio il massimo e la gente non è stupida. Non è una questione di vincere o perdere, tu puoi vincere o perdere, a volte il bordo tra queste cose è molto sottile. Io penso che la gente nota che tu fai il massimo. Nel caso della Roma è qualcosa che va oltre la vittoria o la finale europea. Io penso che loro sentano che io vesto la maglia e lotto per loro ogni giorno» (traduzione dall’inglese mia).
Dello stesso tenore le medesime dichiarazioni andate in onda su Sky Sport nell’autunno del 2023:
«Quando sono arrivato e ho imparato a conoscere il romanismo, ho imparato a conoscere tutti i loro dubbi, ho imparato a conoscere tutte le loro frustrazioni e ho cercato di entrarci dentro. Mi sono fatto tante domande, cui ho bisogno di rispondere con il tempo. Mi sono affezionato tanto al romanista. Mi piace il romanismo. Mi piace il romanista puro, mi piace il romanista della strada, che va la mattina a Trigoria solo per avere una foto. Mi piace la gente che segue la squadra ovunque. Quando arrivi in due finali europee e prendi la città con te, quando tu piangi di gioia con loro, tu diventi ancora più uno di loro».
Tuttavia, nel settembre 2023, in occasione della disastrosa sconfitta per 4 a 1 contro il Genoa, Mourinho assume un atteggiamento più distaccato dalla “tradizione”, rinunciando anche ad individuare un nemico a cui attribuire la responsabilità dell’accaduto. Seguendo alcune dichiarazioni che non sono piaciute a molti tifosi, con un tono “moscio” e tutt’altro che “mourinhano”, egli sembra accettare la sconfitta senza lottare. Così facendo egli prende le distanze dalle responsabilità della disfatta e contemporaneamente evidenzia la forte distinzione tra la sua personalità di “professionista” e quella di romanista che perde ma non si arrende. Quel che poi sembra essere avvertito come ancora più grave è il fatto che il tecnico portoghese – più o meno inavvertitamente – nel tentativo di giustificare la bontà del suo passato operato finisce per sovrastimare il peso della sua impresa nella tradizione del romanismo contravvenendo al ben noto comandamento che “i giocatori, gli allenatori, i presidenti: tutto passa, la Roma resta”:
«è l’inizio peggiore della mia carriera ma è anche la prima volta che la Roma gioca due finali europee consecutive […] il mio messaggio [per i tifosi] è semplice: mi conoscono da più di due anni, sanno perfettamente quello che loro significano per me, sanno perfettamente anche il mio profilo come professionista… fa male al cuore, ovviamente per me stesso e per i tifosi, però io sono lo stesso che è andato [per le finali di coppa] a Budapest e a Tirana, sono lo stesso che ho creato con loro un rapporto veramente speciale… questa è la mia natura, domani lavorare e tornare a vincere».
Insomma, quando Mourinho ostenta la portata dei cambiamenti e della sua influenza personale sull’intera storia della Roma egli è visto come una minaccia persino se parla di una vittoria della Roma; dall’altro lato, anche se il tecnico portoghese va incontro a risultati assai deludenti, tutto gli è perdonato dal momento che egli si è battuto come un leone dimostrando di poter esser parte della grande famiglia del romanismo. Citando le parole di una tifosa romanista di prestigio come l’ex presidente Rosella Sensi: «La Roma è di chi soffre, la Roma è di chi sta vicino alla squadra, la Roma è un sentimento che si vive ogni giorno».
Ricorrendo alla chiave di lettura weberiana che sottolineava quanto il carisma fosse costretto a elaborare una struttura tradizionale per sopravvivere – un profeta di successo ha sempre una rete molto organizzata di seguaci/predicatori – si può dire che nel contesto romano il tentativo di Mourinho di “tradizionalizzare” il suo potere carismatico non sembra suscitare grande interesse, specialmente in quel gruppo di romanisti maggiormente attaccati alla tradizione che ho appena menzionato. Si tratta di qualcosa che sembra emergere ancora da un altro passaggio della controversa intervista rilasciata a Sky Sport nell’autunno 2023, quando Mourinho parla del cosiddetto mourinhismo e dell’anti-mourinhismo e – forse inavvertitamente – finisce per mancare di sensibilità nei confronti della tradizione del romanismo:
«a Roma, ci sono entrambe le fazioni. Il mourinhismo lo conoscono le persone che sanno cosa ho fatto. L’anti mourinhismo è cavalcato da gente felice in tutto il tempo in cui la Roma non vinceva una coppa, non aveva alcun tipo di successo europeo. Si divertono in radio e va bene. L’anti mourinhismo vende, il mourinhismo è un modo di stare nella vita più che nel calcio. Lo dico perché trovo gente per strada, in ogni punto del mondo, che si identifica con me e con il mio modo di stare nella vita. Per me, comunque, la partita più importante è sempre la prossima. Il resto è il passato, è storia».
Il succo della questione mi sembra sintetizzabile nel fatto che da un certo punto di vista la “cultura dell’oltre il risultato” non si curi dell’ottenimento di un titolo, quanto, piuttosto, della difesa della tradizione, così come la difesa della tradizione può anche non compiersi sul piano pratico del campo da calcio, ma sicuramente deve avere un’enunciazione retorica e una legittimazione collettiva. Può accadere di perdere, in alcuni casi fa anche bene, ma che non si rimanga in silenzio mentre ciò succede. L’unica sconfitta onorevole è quella che proclama la superiorità morale dei vinti e denuncia la corruzione dei vincitori.
Conclusioni: il rumore dei nemici
All’inizio di questo articolo ho tentato di descrivere il senso della leadership contemporanea a partire da una mappatura del percorso etimologico attraversato da termini fondanti come lædan e rex: colui che guida la truppa attraverso i pericoli della battaglia e colui che distingue ciò che è retto da ciò che è storto, ciò che è morale da ciò che è immorale, ciò che consacra il gruppo del noi da ciò che testimonia la corruzione degli altri.
Attraverso la figura carismatica di José Mourinho e la sua peculiare esperienza di allenatore dell’A.S. Roma, ho tentato di tracciare le caratteristiche di una contemporanea forma di leadership e come questa si articoli in un panorama fortemente connotato dal rispetto e dalla salvaguardia di una tradizione. Proprio in relazione a questo tema, ho cercato di descrivere un caratteristico “inceppamento” del dominio carismatico di Mourinho verificatosi non a causa di una sconfitta – di queste ce ne sono state tante e anche assai più umilianti – bensì a causa di un atteggiamento e delle dichiarazioni poco aggressive verso il nemico e alquanto irrispettose della tradizione del romanismo.
È adesso giunto il momento di indicare quali forme di leadership possono modellare tali processi e lascerò a chi legge valutare se e come questi possono essere rintracciati oltre l’ambito del calcio, nelle pratiche più ricorrenti di molti leader contemporanei.
Tra i numerosi video di TikTok riguardanti il mondo del calcio, il popolare social cinese mostra un particolare trend molto amato dai giovani italiani ma non solo. Il trend si sviluppa su un canovaccio ricorrente fatto di immagini di José Mourinho che si pavoneggia o esulta, affiancate da un testo che, al di là delle variazioni, pone sempre al centro il tema di una conquista assai modesta. Che si tratti di aver trovato una scusa ridicola per saltare un’interrogazione o di aver trovato una frase melensa per un corteggiamento, quel che caratterizza questi video è l’euforica celebrazione di un traguardo tutt’altro che glorioso ottenuto attraverso un’elaboratissima macchinazione e una ingente dissipazione di risorse.
Malgrado il noto egocentrismo di Mourinho, forse anche in ragione della recente scelta di allenare squadre poco blasonate come il Tottenham e la Roma, quello che tali TikTok mi sembra facciano emergere è un’associazione del tecnico portoghese ad una mediocrità che non lo danneggia, tutt’altro, finisce per avvicinarlo all’esperienza più banale delle persone comuni. Forse anche per assecondare questa narrazione di sé, egli stesso si è mostrato mentre festeggiava una vittoria della Roma mangiando una pizza dal cartone e mentre metteva in scena altri comportamenti “mediocri” come, ad esempio, preferire la tuta sportiva al completo elegante o ironizzare sulla qualità dell’organico a sua disposizione.
Naturalmente, la mia definizione di mediocrità non deve essere intesa secondo un’accezione moralistica, bensì interpretata seguendo una chiave di lettura sociologico-analitica: è mediocre ciò che sta nel mezzo, che si trova a uguale distanza tra due limiti estremi e che dunque non è né povero né ricco, né carne né pesce, né unico né comune, né coraggioso né vile, né tradizionale né moderno, né bello né brutto; al contrario del nemico che invece si colloca sempre e solo in uno dei due estremi.
Mi sembra che in questo sorta di prototipo dell’uomo comune offerto da Mourinho, capace di incarnare le ansie della classe media (Le Wita 1988; Meloni 2018), si possano individuare numerosi altri leader contemporanei. Figure che abbiamo osservato mentre profetavano grandiose rinascite, difendevano piccole e grandi tradizioni di senso comune o che sembravano lottare per cause assolutamente perse (esponendosi così alle facili critiche/ironie degli avversari); leader che dunque agivano esattamente come delle persone comuni pur disponendo – in quanto leader – di possibilità e risorse assolutamente fuori dal comune.
Sono convinto che il successo e l’apprezzamento di tali comportamenti vadano ricercati nel fatto che la mediocrità può funzionare come eccellente sistema di giustificazione del dominio e di riproduzione dello stesso. Questa, infatti, non chiede al leader di agire con responsabilità per ottenere dei risultati concreti ma postula una comunanza emotiva con i seguaci ed esige la vigorosa denuncia del nemico e della sua immensa e insuperabile immoralità. Se poi si tratta della conservazione di una tradizione – non necessariamente gloriosa – gli attacchi dei nemici offrono la più lampante dimostrazione che gli sforzi del leader non sono paragonabili alla malvagità dei nemici e dei loro piani corrotti. In questo senso il leader contemporaneo mostra di avere bisogno della sconfitta o di mostrare delle debolezze alla stessa maniera in cui egli ha bisogno di dimostrare la sua astuzia e il suo coraggio.
Il carismatismo di questo genere di leadership non si scopre nella totale distinzione del leader dai suoi seguaci bensì proprio nel fatto che egli mostra delle forti similitudini con questi e dunque – con le “medesime scarse risorse” e le “identiche debolezze” – egli è chiamato a lottare in una guerra impari contro un nemico meglio organizzato. La conseguenza di questo atteggiamento è che l’attaccamento al leader riconosciuto dai seguaci deve essere compatto, incondizionato, al di là del bene e del male, che ribadisca un’irriducibile contrapposizione tra “noi” e gli “altri”, adoperando un senso della critica totalmente minato per scongiurare la possibilità che gli avversari possano avere la meglio nelle sorti della guerra.
Ecco allora una possibile chiave di lettura per la dichiarazione che José Mourinho rilasciò durante un’assai famosa conferenza stampa ai tempi in cui allenava l’Inter: “Oggi ho sentito il rumore dei nemici! Fantastico! Questo mi piace”.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
[*] Desidero ringraziare Gaia Santini e Flavio Lorenzoni per le critiche ed i suggerimenti che hanno rivolto a questo testo. Naturalmente la responsabilità degli errori è tutta del sottoscritto.
Riferimenti bibliografici
Bausinger, H., 2008, La cultura dello sport, Roma: Armando editore.
Benveniste, É., 2001, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Potere, diritto, religione, vol.2, Torino: Einaudi.
Di Pasquale, C., 2018, Antropologia della Memoria. Il ricordo come fatto culturale, Bologna: Il Mulino.
Le Wita, B., 1988.,Nu vue ni connue. Approche ethnographique de la culture bourgeoise, Paris, MSH.
Louis, S., 2019, Ultras. Gli altri protagonisti del calcio, Milano: Meltemi.
Meloni, P., 2018, Antropologia del consumo. Doni, merci, simboli, Roma: Carocci.
Thomassen, B., Clough Marinaro, I. (eds), 2014, Global Rome: changing faces of the eternal city, Bloomington, Indianapolis: Indiana University Press.
Weber, M., 1922, Wirtschaft und Gesellschaft, 5 vol. Tübingen: Mohr.
Weber, M., 2016, Il Leader, Roma: Castelvecchi.
Sitografia
Etymonline.com: https://www.etymonline.com/word/leader#:~:text=leader%20(n.),see%20lead%20(v.)). (30/09/23).
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Fulvio Cozza, ricercatore indipendente, PhD in Antropologia culturale ed Etnologia presso la Sapienza Università di Roma. I suoi studi riguardano il rapporto tra vita quotidiana, pratiche archeologiche e forme di intimità nello spazio urbano di Roma. Nel 2021 ha pubblicato una monografia frutto della sua ricerca sul campo in alcuni scavi archeologici universitari dal titolo: Fare Archeologia. Etnografia delle Pratiche Ricostruttive, Roma, Cisu.
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