di Francesco Medici
Il 17 luglio 2023, in occasione del centenario di The Prophet, l’opera più nota e acclamata dello scrittore e artista libanese residente negli Stati Uniti Kahlil Gibran (Ǧubrān Ḫalīl Ǧubrān, 1883-1931), pubblicata a New York per i tipi dell’editore Knopf (odierna Random House) nel settembre del 1923 [1], si è tenuto a Beirut, presso la Lebanese American University (LAU), un convegno internazionale patrocinato dal Center for Lebanese Heritage, sotto la direzione del poeta, critico letterario e giornalista Henri Zoghaib. Diversamente da tutti gli altri interventi, il mio contributo all’evento non era incentrato sul celebrato long-seller, ad oggi tradotto in oltre un centinaio di idiomi in tutto il mondo [2], bensì sulla scoperta di alcune informazioni finora sconosciute riguardanti l’attività politica del suo autore.
Quanto riportato di seguito costituisce una sintesi ragionata in lingua italiana di una sezione del mio paper relativa al coinvolgimento e all’impegno personali di Gibran in una delle vicende più tragiche della storia della sua terra d’origine [3].
L’Impero ottomano entrò nel Primo conflitto mondiale al fianco delle Potenze Centrali (Austria-Ungheria, Germania e Bulgaria) con un attacco a sorpresa mosso contro l’Impero russo sulla costa del Mar Nero il 29 ottobre 1914. Il 5 novembre lo zar Nicola II (1868-1918) e gli alleati della Triplice Intesa (Gran Bretagna e Francia) dichiararono guerra alla Sublime Porta e misero al contempo in atto un blocco delle rotte commerciali nel Mediterraneo orientale con l’obiettivo di strangolare l’economia e indebolire lo sforzo bellico dei Turchi. Per tutta risposta, Cemâl Pascià (1872-1922), comandante della Quarta Armata ottomana, temendo un’insurrezione da parte dei sudditi arabi in Medio Oriente, in particolare quelli di fede cristiana, impose a sua volta un blocco per impedire al mutasarrifato del Monte Libano [4] di importare cibo dalla vicina Siria in modo tale da affamare i potenziali rivoltosi.
L’alto funzionario del Ministero degli Interni ottomano Ali Münif Bey (1874-1950), nominato amministratore del Monte Libano (1915-1917), si adoperò con ogni mezzo per abolire i privilegi di cui la regione, dato il suo statuto di semi-autonomia, aveva goduto fino ad allora, perpetrando ogni sorta di soprusi sulle popolazioni locali, comprese torture, deportazioni ed esecuzioni. Ad aggravare la già drammatica situazione, un terribile flagello naturale si abbatté su quei territori: devastanti invasioni di cavallette distrussero le piantagioni e i raccolti, senza che il governo turco facesse nulla per soccorrere i sinistrati né tantomeno per alleviarne le sofferenze. Questa convergenza di fattori politici e ambientali scatenò la cosiddetta Grande Carestia del Monte Libano, che tra il 1915 e il 1918 avrebbe causato il decesso per stenti e malattie di circa la metà degli abitanti di quell’area.
Nell’estate del 1915 tra i siro-libanesi residenti in America cominciarono a circolare le prime voci confuse e frammentarie relative a ciò che stava accadendo alle loro famiglie e ai loro congiunti oltreoceano:
«Un esercito di mendicanti vagava per la città di Beirut. Uomini, donne e bambini deperiti rovistavano nei bidoni della spazzatura o si cibavano delle carcasse di animali. Altri, stremati, si lasciavano morire per le strade. Intanto si propagavano infezioni e malattie. Le mosche domestiche e i pidocchi diffondevano il tifo, i topi la peste bubbonica, le zanzare la malaria, mentre sciami di locuste oscuravano il sole» [5].
Gibran venne raggiunto da quelle infauste notizie mentre si trovava in vacanza con la sorella Marianna (Maryānā Ḫalīl Ǧubrān, 1855-1972) e alcuni parenti presso un piccolo cottage in Jerusalem Road, a Cohasset, località costiera situata a venticinque miglia a sud di Boston. Il 10 settembre 1915 scrisse alla sua amica e mecenate Mary Elizabeth Haskell (1873-1964):
«Sono in partenza tra un’ora circa per rientrare a New York. Ieri sera ho ricevuto un telegramma e stamattina una lettera con cui mi reclamano per andare a occuparmi di un’iniziativa riguardante la Siria alla quale avevo promesso di prendere parte […]. Quella povera gente sta soffrendo immensamente e noi che siamo qui stiamo cercando di fare del nostro meglio per aiutarla» [6].
Nei mesi successivi, il numero delle vittime della carestia andò aumentando in modo esponenziale. Le comunicazioni tra il Monte Libano e il resto del mondo, inoltre, si facevano sempre più difficoltose. Gibran cominciò a inviare piccole somme di denaro in Medio Oriente a titolo personale e decise poi di devolvere alla causa anche i proventi di Dam‘ah wa ibtisāmah (Una lacrima e un sorriso) [7], il libro che aveva pubblicato poco tempo prima. Si era ormai convinto che quel disastro fosse stato accuratamente pianificato dal governo ottomano e che le stesse atrocità che avevano colpito gli Armeni si sarebbero presto propagate anche nell’area a maggioranza cristiana del Monte Libano. Il 26 maggio 1916 scrisse infatti alla Haskell:
«La mia gente, la gente che abita il Monte Libano, è stremata dalla fame a causa di un piano ordito dal governo turco. 80.000 sono già morti e a migliaia muoiono ogni giorno. Ciò che è accaduto agli Armeni sta succedendo ora in Siria. Il Monte Libano, anzi, essendo cristiano, sta soffrendo ancora di più. Puoi immaginare, Mary, come io mi senta in questo momento. Non riesco a dormire, né a mangiare, né a trovare pace. Tutti i Siriani che vivono qui in America sono torturati dalla stessa angoscia. Stiamo cercando di fare del nostro meglio, dobbiamo salvare coloro che sono ancora in vita» [8].
Dopo aver letto della crisi nel Monte Libano, l’amica gli inviò immediatamente un assegno di ben 400 dollari. Gibran, ritenendo eccessivo per un cittadino americano l’importo di tale donazione, il 29 maggio le scrisse:
«Dio ti benedica, cara Mary. […] Non trovo le parole per dirti quanto tu sia buona e meravigliosa. Stasera informerò i miei compatrioti che desideri offrirci il tuo aiuto. Forse dirò loro che hai promesso di donarci 100 dollari. Poiché voglio che i Siriani che vivono qui capiscano che devono unirsi e sostenersi tra loro prima di rivolgersi ad altri. Certo, i Siriani da soli non possono salvare il Monte Libano, ma è opportuno che si organizzino autonomamente, magari poi gli Stati Uniti – questo Paese così caritatevole e potente – salveranno il Monte Libano come hanno fatto con altre nazioni» [9].
Il Syrian-Mount Lebanon Relief Committee (Comitato di Assistenza per la Siria e il Monte Libano) fu costituito all’inizio di giugno del 1916 a Brooklyn, New York, con Najeeb S. Maloof (Naǧīb Šāhīn Ma‘lūf, 1865-1916), facoltoso importatore di pizzi e merletti, come presidente e con lo scrittore Ameen Rihani (Amīn Fāris al-Rīḥānī, 1876-1940) come vicepresidente, allo scopo di raccogliere fondi negli Stati Uniti per fronteggiare la carestia. I tesorieri erano Nami T. Tadross (Ni‘mah Tādrus), Antone Simon (Anṭūn Sam‘ān) e Kaleel Teen (Ḫalīl al-Tīn). In qualità di segretario, Gibran divenne il portavoce ufficiale del comitato. L’11 giugno ne diede notizia alla Haskell:
«Abbiamo istituito un comitato di assistenza e dovremo tutti fare del nostro meglio. Mi hanno eletto segretario: ciò significa che quest’estate non avrò tempo né per la mia vita privata, né per i miei impegni personali, né per riposare. È una grossa responsabilità, sia fisica sia mentale, ma devo farmene carico ad ogni costo. Tragedie come questa spalancano il cuore e fanno nascere il desiderio di prestare aiuto al prossimo senza riserva alcuna. Non mi era mai capitata un’opportunità simile per servire il mio popolo. Sono felice di poterlo fare ora e sento che Dio mi aiuterà. E non so quello che mi succederà domani o dopodomani. Posso solo rimettermi nelle mani della vita. È assai probabile che dovrò viaggiare per tutto il Paese per parlare con i Siriani. Bisogna far sì che la macchina si metta in moto innanzitutto qui a New York e poi in altre città. […] Adesso mi accingo a recarmi a Brooklyn per lavorare con due giovani che ho assunto come miei segretari personali. Non escludo che me ne occorrerà anche un terzo» [10].
Il 14 giugno, all’amica che gli chiedeva se e in quale modo potesse essergli di supporto per le attività del comitato, rispose:
«Ti ringrazio tanto, cara Mary. E grazie anche a nome della mia gente. Ma non c’è nulla che tu possa fare. Il lavoro del comitato sta procedendo bene adesso, e disponiamo di un gran numero di volontari e volontarie che si occupano di ogni genere di questioni. L’obiettivo più difficile che ci prefiggiamo ora è che tutti i Siriani collaborino con la gente del Monte Libano – e che il governo turco ci permetta di rifornire il Paese di generi alimentari. Possiamo farcela grazie al governo americano» [11].
I colleghi del comitato dovettero presto concordare con Gibran sul fatto che la Sublime Porta avesse deliberatamente provocato quella catastrofe dato che molti Siriani simpatizzavano con gli Alleati. Intanto, poiché quella tragedia stava cominciando ad assumere proporzioni bibliche, Gibran si decise a contattare direttamente il Dipartimento di Stato americano. Il 29 giugno scrisse alla Haskell:
«Tutto procede bene e stiamo ricevendo continue donazioni. Certo, ci vorrà un po’ di tempo e molta pazienza per mettere d’accordo tutti i Siriani del Nord America affinché collaborino per questa causa comune. Ma la cosa più difficile è inviare scorte alimentari nel Monte Libano. Siamo assolutamente sicuri che i Turchi vogliano far morire di fame la nostra gente perché non pochi dei nostri compatrioti lì sono dalla parte degli Alleati nel pensiero e nello spirito. Il governo americano è il solo al mondo che possa aiutarci. Ho scritto al Dipartimento di Stato a Washington, che mi ha assicurato che questo governo intende seriamente adoperarsi per alleviare le sofferenze della Siria. Ma tu sai come stanno attualmente le cose a Washington. Troppe questioni di rilevanza mondiale e troppe difficoltà da risolvere. Ho donato a tuo nome 150 dollari al comitato di assistenza. La tua è fino a questo momento la donazione più cospicua che ci sia pervenuta da parte di un cittadino americano. Quanto alla Rivolta araba, si tratta di qualcosa di davvero epocale. Nessuno che viva fuori dall’Arabia può sapere quanto sia importante e quanto lontano porterà. Ma la nascita di un movimento simile è ciò che ho sognato e per cui mi sono impegnato nel corso degli ultimi dieci anni. Se gli Arabi avessero l’appoggio degli Alleati, non creerebbero semplicemente un regno, ma darebbero un contributo importante al mondo intero. So bene, Mary, cosa c’è nell’anima degli Arabi. Essi non possono organizzarsi senza l’aiuto dell’Europa, ma possiedono una visione della vita che nessun’altra razza possiede» [12].
Quel giorno stesso si apprestò a inviarle da parte del comitato una regolare ricevuta della somma versata, allegandola alla seguente lettera ufficiale:
«Gentile Signora, con la presente Le invio ricevuta di versamento del Suo contributo per la nostra raccolta fondi insieme ai più sentiti ringraziamenti a nome della nostra gente sofferente. La generosità degli Americani, che non conosce limiti né razziali né religiosi, è oggi il solo bel fiore nel giardino desolato dell’umanità. E ogni vita redenta laggiù, tra quelle antiche colline all’ombra del sacro cedro, è una nuova espressione vivente di gratitudine verso l’America. La risposta al nostro appello è stata positiva, ma dobbiamo sfamare e vestire mezzo milione di persone. Voglia dunque spendere tra la Sua cerchia di conoscenti una buona parola a favore degli abitanti affamati del Monte Libano. RingraziandoLa ancora, La prego di accettare, gentile Signora, i miei più distinti saluti. Suo G.K. Gibran, Segretario» [13].
Questo l’appello che, come segretario del Syrian-Mount Lebanon Relief Committee, Gibran fece pervenire il 17 giugno 1916 al Segretario di Stato Robert H. Lansing (1864-1928):
«Egregio Signore, quindici giorni fa il Presidente e il Segretario di Stato facente funzioni hanno concesso un incontro a una delegazione della stampa araba di questa città [New York] per discutere delle drammatiche condizioni in cui versa attualmente la popolazione della Siria e del Monte Libano. L’appello dei delegati affinché il governo degli Stati Uniti interponga i suoi buoni uffici al fine di ottenere per noi il permesso del governo ottomano di introdurre generi alimentari nella regione colpita ha trovato orecchie e cuori sensibili e comprensivi sia da parte di Sua Eccellenza il Presidente sia degli altri funzionari governativi che la delegazione ha avuto l’onore di incontrare. Con la presente mi permetto di sottoporre alla Sua cortese attenzione le traduzioni in inglese di alcuni resoconti della carestia che sta affliggendo quei territori, così come sono stati pubblicati di recente sui giornali arabi del Cairo, in Egitto. Tali resoconti, come Lei potrà constatare, confermano tutti i precedenti resoconti trasmessi per cablogramma, così come quelli che il Dipartimento ha ricevuto dall’Ambasciatore francese. La popolazione della Siria e del Monte Libano, Signore, sta effettivamente morendo di fame e di malattie causate dalla malnutrizione. Le sofferenze che quelle genti inermi stanno attualmente patendo sono indicibili e il rischio è quello di una loro totale estinzione. Ci appelliamo a Lei, Signore, noi Siriani di questo Paese, migliaia dei quali sono cittadini americani, a nome della nostra terra afflitta e del nostro popolo affamato. Confidiamo che Lei non mancherà di interporre i Suoi buoni uffici per ottenere a nostro beneficio un permesso da parte del governo turco che ci consenta di poter far arrivare generi alimentari in Siria e nel Monte Libano. In collaborazione con il Comitato Americano, abbiamo ora istituito un nostro comitato di soccorso, e ci prefiggiamo di raccogliere al più presto fondi sufficienti per poter inviare laggiù una nave carica di scorte alimentari. Vorremmo inoltre che la nave salpasse prima del prossimo inverno, da New York oppure dall’Egitto, per scongiurare, se possibile, gli effetti di una catastrofe che potrebbe determinare la scomparsa di un’intera razza. Fiducioso in un Suo sollecito e positivo riscontro, porgo i miei più cordiali saluti. Gibran K. Gibran, Segretario».
Il «Comitato Americano» cui Gibran si riferiva era l’American Committee for Armenian and Syrian Relief (Comitato Americano di Assistenza per l’Armenia e la Siria). Fondata l’anno prima su pressione dell’ambasciatore statunitense presso l’Impero ottomano Henry Morgenthau (1856-1946) e con il supporto dell’allora presidente Woodrow Wilson (1856-1924) con lo scopo di sollecitare donazioni da parte dei cittadini statunitensi, tale organizzazione includeva tra i membri del direttivo diverse personalità illustri: il presidente dell’Università di Harvard Charles W. Eliot (1834-1926); il missionario protestante James L. Barton (1855-1936); Samuel T. Dutton (1849-1919), docente presso la Columbia University, nonché fiduciario dell’American College for Girls di Costantinopoli; l’imprenditore, investitore e filantropo Cleveland H. Dodge (1860-1926).
Il primo dei tre resoconti allegati alla missiva di Gibran indirizzata a Lansing non reca alcun riferimento specifico, se non l’intestazione ufficiale del Syrian-Mount Lebanon Relief Committee (55 Broadway, New York):
«La Siria e il Monte Libano si trovano di fatto sotto assedio da quando la Turchia è entrata in guerra. La costa della Siria è stata minata dai Turchi e bloccata dagli Alleati, senza possibilità di comunicazione con l’esterno. Le condizioni naturali del Paese, delimitato a est dal deserto e a ovest dal mare, rendono la situazione disperata. Il totale isolamento non potrà che portare all’estinzione della popolazione. Le risorse interne del Paese, specialmente nel Monte Libano, sono sempre state scarse a causa dell’aridità di alcune aree e dello stato incolto di altre. Inoltre, ben pochi vi sono rimasti a coltivare la terra. Gli uomini di qualsiasi confessione religiosa abili al servizio militare sono stati arruolati nell’esercito e inviati nel Caucaso o in Mesopotamia. L’invasione di locuste, terribile piaga dell’Asia [14], ha falcidiato l’intero Paese la scorsa primavera, distruggendo i raccolti e la vegetazione. L’apertura della linea ferroviaria di Costantinopoli da parte degli alleati teutonici, i quali hanno requisito capi di bestiame e grano ovunque siano riusciti a trovarne, ha aggravato la miseria degli autoctoni. Il Monte Libano, che oggi è tagliato fuori dai due vilayet confinanti [15], così come la Siria stessa è tagliata fuori dal mondo esterno, manca di qualsiasi mezzo di trasporto. Tutti i muli e i cavalli sono stati infatti requisiti dai Turchi e l’unica ferrovia che attraversa le catene montuose tra Beirut e Damasco è raramente in funzione a causa della mancanza di carbone o di legna. Il governo turco appare indifferente a quanto sopra descritto oppure non è riuscito a farsi carico di un’adeguata distribuzione delle poche provviste disponibili nel Paese. È un fatto acclarato che anche la Germania abbia attinto alle risorse dei Turchi. Negli ultimi sei mesi gli abitanti sono stati in grave difficoltà. In nessun luogo del mondo, nemmeno in Belgio dopo la sua invasione, né in Serbia, si sono mai verificate circostanze così drammatiche [16]. Da fonti attendibili e dai pochi fuggitivi che sono usciti dal Paese colpito, come dimostrano i rapporti allegati, giungono notizie secondo cui donne e bambini stanno morendo ai bordi delle strade e nei campi, dove cercano di placare la fame con le poche erbe che riescono a reperire. Secondo cablogrammi ricevuti da fonti affidabili in Egitto, confermati dai corrispondenti sul posto, soltanto nel Monte Libano 80.000 persone sono già morte di fame. Il Monte Libano non costituisce che una piccola porzione della Siria, con una popolazione di circa 400.000 abitanti. Quale sia il numero delle vittime della carestia in altre aree del Paese non è ancora noto. Entro il prossimo inverno, se non verranno inviati soccorsi, un’intera razza sarà annientata dalla carestia. La Siria, compreso il Monte Libano, conta in totale una popolazione di circa 4.000.000 di anime».
Il secondo resoconto è la traduzione di un articolo pubblicato il 14 giugno 1916 su «Mir’āt al-Ġarb» (‘Lo Specchio dell’Occidente’), traslitterato in inglese come «Meraat-ul-Gharb – The Daily Mirror», quotidiano in lingua araba fondato nel 1899 a New York dal libanese Najeeb M. Diab (Naǧīb Mūsá Diyāb, 1870-1936). Così scrive un anonimo inviato speciale in Egitto:
«Il Cairo, 25 maggio 1916. La settimana scorsa vi ho informati tramite telegramma della morte per fame di 80.000 persone nel Monte Libano, in Siria. Il telegramma di risposta inviato dalla United Syrian Society di New York[17], in cui si chiedono ulteriori dettagli al riguardo, è stato ricevuto oggi e sarà letto dai Siriani residenti qui durante un’assemblea generale che si terrà presso la sede del Patriarcato della Chiesa Greco-Cattolica. Avrei voluto scrivervi più diffusamente in merito agli effetti della calamità, ma la censura sui telegrammi è molto severa. Mi appresto quindi a riportare quanto ho appreso finora. Un sacerdote maronita, inviato da qui per indagare sulla situazione nel Monte Libano, è stato prelevato da una torpediniera francese ed è sbarcato da qualche parte sulla costa siriana. Ha incontrato parecchie difficoltà ad entrare e uscire dal Paese. E mentre si trovava lì ha corso molti pericoli. Dal breve racconto, per come l’ho ascoltato dalle sue stesse labbra, si evince che la miseria della gente del Monte Libano è indescrivibile. Nella sola città di Ashkout [18] sopravvivono soltanto 94 persone, il resto della popolazione è morto per fame. Il tasso di mortalità è aumentato a tal punto che il mutaṣarrif (governatore) Münif Pascià ha emesso un decreto che consente alla gente di seppellire da sé i propri cari senza il bisogno di un permesso legale. Questo è l’unico provvedimento che il governatore è stato disposto a prendere. Infatti, quando gli è stato rivolto un appello accorato, ha risposto: “Per caso qualche donna del Monte Libano ha mangiato il proprio figlio per nutrirsi? No? Allora non c’è né fame né carestia nella regione”. La poca farina che raggiunge il Monte Libano viene venduta a 25 piastre al rotl[19] (circa 20 centesimi alla libbra), mentre a Beirut viene venduta a 5 piastre. E ciò che è peggio è che quella farina non è altro che una miscela macinata di avena, foraggio e segatura. Il prete, il mio informatore, me ne ha mostrata una manciata, un campione della quale vi allego alla presente. Chiunque a Beirut o a Damasco venga sorpreso a trasportare pane da destinare al Monte Libano viene arrestato e preso a frustate. Le ragazze armene vengono vendute per le strade di Beirut per 10 o 20 piastre ciascuna, ma solo ai musulmani. Poiché è successo che un giorno un cristiano abbia pagato per ottenere alcune di queste ragazze, ma al solo scopo di metterle in salvo; quando la cosa è stata portata all’attenzione del governo [turco], le giovani gli sono state sottratte e l’uomo è stato fustigato. Tra i molti che sono stati impiccati per reati politici c’era Joseph Hany, il cui nome figurava in una petizione rinvenuta negli archivi del consolato francese a Beirut nella quale i firmatari chiedevano alla Francia che [il vilayet di] Beirut fosse incluso nello statuto autonomo del Monte Libano[20]. Riassumo brevemente qui di seguito ciò che abbiamo fatto per sollecitare un possibile intervento di soccorso. Si sono tenuti diversi incontri, a cui hanno partecipato alcuni dei più illustri e influenti esponenti di tutte le confessioni religiose, musulmani e cristiani, ed è stato rivolto un appello al rappresentante francese e al viceré inglese in Egitto [21], che hanno promesso di comunicare con i rispettivi governi affinché il governo degli Stati Uniti o i suoi rappresentanti si occupino della distribuzione di cibo ai sinistrati. Le ultime notizie che ci giungono dal Monte Libano confermano i resoconti scorsi. Cito dall’ultima comunicazione quanto espresso presumibilmente dal Patriarca dei Maroniti [22]: “Mandateci cibo, non oro. Perché se l’oro ci fosse di qualche utilità al momento, avrei già da tempo dato via tutti gli arredi d’oro e d’argento delle chiese per sfamare i bisognosi…”. Il comitato di assistenza, che sarà organizzato sotto gli auspici del Sultano d’Egitto[23], con uno dei principi della famiglia reale come presidente, farà appello al governo degli Stati Uniti e a Sua Santità il Papa di Roma [24] per ottenere per noi il permesso del governo turco di poter introdurre cibo in Siria e nel Monte Libano».
Il terzo e ultimo resoconto è la traduzione di un articolo pubblicato il 18 maggio 1916 sul quotidiano cairota «al-Ahrām» (‘Le piramidi’), il cui caporedattore era all’epoca lo scrittore e giornalista libanese Dāwūd Barakāt (1868-1933):
«La comunicazione del nostro corrispondente dalla Siria, che abbiamo pubblicato pochi giorni fa e che aveva sortito l’effetto di placare l’apprensione dei nostri lettori, pare abbia subìto un ritardo nella trasmissione – si riferiva purtroppo a circostanze ormai trascorse da tempo. Gli abitanti del Monte Libano, secondo resoconti aggiornati, stanno soffrendo miserie e privazioni indicibili; stanno effettivamente morendo di fame; il Paese è minacciato dalla carestia. Inoltre Enver Pascià[25], con la sua recente visita in Siria, invece di offrire loro una qualche speranza di ricevere aiuti immediati, ha di contro esasperato l’angoscia e lo sconforto di quella gente. Quest’ultimo ha infatti tagliato qualsiasi approvvigionamento alimentare per il Monte Libano, eccezion fatta per una sottospecie di farina – una miscela scura di avena e segatura – che viene distribuita ogni 25 giorni tra gli affamati nella quantità di appena 4 chilogrammi a testa. Tale farina non solo non è nutriente, ma è dannosa per la salute. Il risultato è che le persone stanno morendo di fame. Molte tra loro vengono trovate senza vita sulle strade e nelle valli, dove vanno in cerca di erbe per nutrirsi, ma che non riescono a trovare. Ciò è dovuto alle locuste che, come se già non bastassero le afflizioni di cui soffre il Paese, hanno infestato negli ultimi undici mesi la regione, lasciando agli abitanti ben poco di cui cibarsi. Quando i portavoce del popolo si sono rivolti al mutaṣarrif Münif Pascià per richiedere aiuto, è stato loro risposto che il governo sa il fatto suo e che soltanto qualora si verificassero casi di cannibalismo una denuncia di carestia troverebbe giustificazione. Tutti i muli, i cavalli e i capi di bestiame sono stati requisiti a beneficio dell’esercito; inoltre, per mancanza di buoi e di sementi, è impossibile coltivare la terra o seminare nuovi raccolti. I capipopolo, tra cui molti vescovi, sono stati mandati in esilio; intere famiglie sono state indotte, dalla fame e dal governo stesso, a trasferirsi nell’entroterra; il numero dei morti aumenta a tal punto con il passare dei giorni che è stato rilasciato un permesso per la loro sepoltura al di fuori dei cimiteri. In molti villaggi un terzo o più della popolazione è morto di inedia. E sebbene un rotl (5 libbre) di farina venga venduto per 25 piastre (circa 90 centesimi), si fatica a trovarne in giro. È vero che alla gente del Monte Libano non è permesso acquistare beni di prima necessità a Beirut. E chiunque venga scoperto a contrabbandare farina o pane tra le montagne viene denudato dai soldati di guardia e fustigato. Anche il diritto di caccia è stato sospeso e nessuno osa portare con sé un fucile. Ad oggi (mese di maggio) si stima siano morte di fame circa 80.000 persone. Quanto al denaro che è stato inviato agli abitanti del Monte Libano e della Siria dai loro parenti residenti in America, il Governo ha ordinato ai Missionari Americani, che se ne sono gentilmente fatti latori, di depositare tutte le somme ricevute, a nome dei rispettivi destinatari, nelle casse della Banca Imperiale Ottomana di Beirut. Il Governo ha poi emesso un ordine alla Banca affinché dette somme siano pagate in rate mensili non prima di un anno dalla data in cui sono state versate. E che i pagamenti dovranno essere effettuati in contanti, non in oro, al tasso di cambio di 80 piastre per sterlina, che in tempi normali vale 136 piastre. Un intero popolo, date queste spaventose circostanze, è destinato all’estinzione. E le forche, che sono ancora rizzate nelle piazze delle principali città, stanno aggiungendo orrore all’orrore. Il mese scorso 11 persone sono state impiccate a Beirut, 8 ad ‘Alayh[26], nel Monte Libano, 7 a Damasco e 9 ad Haifa».
Il riscontro del Dipartimento non si fece attendere. Il 20 giugno 1916, Alvey A. Adee (1842-1924), secondo assistente del segretario di stato americano, così rispose alla lettera di Gibran:
«Egregio Signore, il Dipartimento accusa ricevuta della Sua lettera del 17 giugno riguardo alla situazione in Siria nella quale si richiede al Governo [statunitense] di interporre i suoi buoni uffici per aiutare ad alleviare le sofferenze dei Siriani. In risposta, il Dipartimento si pregia di informarla di aver inviato un telegramma all’Incaricato d’affari americano a Costantinopoli con l’istruzione di indagare e riferire circa la situazione in Siria, e di informare il Governo turco che negli Stati Uniti vi è un forte sentimento di solidarietà verso gli abitanti indigenti in Siria e che molte persone negli Stati Uniti vorrebbero, se possibile, mandare aiuti nel Paese. L’Incaricato d’affari è stato inoltre deputato ad accertare se il Governo turco consentirà che i rifornimenti di soccorso vengano inviati per la distribuzione tra gli abitanti della Siria da parte di un comitato neutrale. Suo devotissimo, per il Segretario di Stato, Alvey A. Adee, Secondo Assistente del Segretario».
Il 7 luglio Gibran scrisse a Mary di essere completamente assorbito dal lavoro per il comitato, ma le sue parole sembrano rivelare un certo ottimismo:
«Venerdì e sabato dovrò lavorare presso l’ufficio del comitato, come ogni altro giorno, del resto. […] In questi giorni […] non faccio altro che il segretario di un comitato di soccorso. Mi manca perfino il tempo per pensare o per sognare. Anche la mia immaginazione dorme, e ogni giorno torno a casa così stanco da non riuscire neppure a prendere sonno. Ma sto bene e tutto procede al meglio» [27].
In verità, da una lettera che Gibran spedì ad Ameen Rihani in quelle stesse settimane, si apprende che il clima in cui si trovava a lavorare non era affatto esente da contrasti, sia all’interno sia all’esterno del comitato. Inoltre, nonostante le terribili sofferenze patite dagli abitanti del Monte Libano, molti Siriani in America mostravano un’indolenza e un’apatia che mandavano Gibran su tutte le furie:
«La situazione qui si fa ogni giorno più assurda e la mia pazienza è giunta al limite. Mi ritrovo tra persone di cui non comprendo la lingua e che non comprendono la mia. Ameen Saliba sta provando a fondere il suo comitato con quello di Philadephia, e potrebbe riuscirci. Nami Tadross non è mai venuto in ufficio e non firma le ricevute. Najeeb Shaheen [Maloof] si è formalmente dimesso e io sto cercando di tenerlo buono con tutte le carte che ho in mano. Najeeb Kasbani è oberato di lavoro e non sa più che pesci prendere. Il sig. Dodge ci ha informati che è in partenza per la campagna e ci ha detto di rivolgerci al sig. Scott [28]. Il sindaco [29] non può accordarci il permesso per una sottoscrizione pubblica. Quanto ai Siriani, sono ancora più indecifrabili del solito. I capi diventano sempre più arroganti e le malelingue sempre più affilate. Tutto questo, Ameen, mi ha portato a odiare la vita e, se non fosse per le grida degli affamati che mi lacerano il cuore, non avrei trascorso un minuto di più in questo ufficio, né un’ora in questa città. Domani sera ci incontreremo per illustrare al nostro comitato la questione delle oblazioni da destinare al Comitato Americano [American Committee for Armenian and Syrian Relief]. Giuro su Dio, Ameen, che avrei preferito condividere lo strazio degli affamati e le sofferenze degli oppressi. E se potessi decidere se morire nel Monte Libano o vivere tra questa gente, sceglierei la morte» [30].
Tali divisioni e disaccordi in seno al Syrian-Mount Lebanon Relief Committee portarono alla formazione di un nuovo direttivo: Najeeb Kasbani (Naǧīb Kasbānī), presidente; Ameen Rihani e Shoukri Rhayem (Šukrī Raḥayyim), vicepresidenti; Nami Tadross, Danielle Faour (Dānīāl Fā‘ūr), Youssef Bek Mouoshi (Yūsuf Bik Mu‘ūšī), Kaleel Teen e Ghatas Fares (Ġaṭās Fāris), tesorieri; Gibran fu confermato segretario [31] (l’ex presidente Najeeb S. Maloof morì in un tragico incidente il 5 settembre [32]). In una lettera del 22 agosto, Gibran raccontò anche alla Haskell di quanto fosse esausto, le confermò che il governo turco, come previsto, aveva rifiutato di dare il proprio consenso per i soccorsi in Siria e le annunciò che sarebbe quanto prima andato in vacanza a Cohasset per concedersi un po’ di riposo:
«Ha fatto – e fa ancora – un caldo terribile qui e sono stanco fisicamente, ma il mio spirito non cede. Per un motivo o per l’altro, non riesco ad andarmene, ma lo farò, e presto, anche. Ho un gran bisogno di cambiare aria. Quando si lavora in un comitato di assistenza ci si occupa di qualcosa di più importante delle comodità. Ogni dollaro raccolto porta con sé un piccolo alito di vita, e si prova una strana dolcezza nel cuore. Sono certo che sai cosa intendo. Sì, purtroppo la Turchia ci ha negato il permesso di offrire aiuti alla Siria. Ma possiamo inviare del denaro da distribuire ai bisognosi. È vero che i raccolti sono andati molto bene quest’anno, grazie a Dio, ma c’è un tremendo bisogno di denaro. Gli americani che sono in Siria possono distribuire qualsiasi cosa mandiamo loro. Il governo americano può fare molto se vuole. Ma scegliere la strada più difficile (e di solito la via più difficile è quella giusta) significa essere sovrumani in tempi come quelli odierni, dominati da interessi e desideri particolaristici e in cui ciascuno esercita una sua propria giustizia. Ad ogni modo, il sig. Elkus, il nuovo ambasciatore in Turchia[33], prima di salpare ha promesso di fare tante cose buone per noi. Ha lasciato questa città per andare a ricoprire il suo incarico circa una settimana fa. […] Se le cose andranno bene durante questa settimana qui in ufficio, potrò andarmene a Cohasset per una decina di giorni. Potrei partire lunedì o martedì della settimana prossima. Ma non posso esserne certo – sai come vanno certe cose, Mary» [34].
Gibran partì per Cohasset con la sorella Marianna all’inizio di settembre. Stavolta aveva accolto l’invito della sua amica Julia Manning, una signora dell’alta società bostoniana, a soggiornare nella casa estiva di quest’ultima al 53 di Bow Street. Purtroppo quei mesi di duro lavoro e di totale abnegazione lo avevano prostrato molto più gravemente di quanto lui stesso potesse immaginare. Da una lettera del 22 settembre inviata al poeta Witter Bynner (1881-1968) emergono infatti le sue precarie condizioni di salute: «Sono a letto malato. Sono arrivato a Cohasset circa due settimane fa con il corpo senz’ali e l’anima spossata, e ora mia sorella e un bravo dottore si stanno prendendo cura di me». Alcuni giorni dopo, in un’altra lettera non datata indirizzata nuovamente all’amico Bynner, Gibran fu più preciso: «Pare si tratti di un esaurimento nervoso. Il superlavoro e la tragedia del mio Paese mi hanno causato un dolore freddo e sordo al lato sinistro del corpo: viso, braccio e gamba» [35]. Il 14 settembre aveva ricevuto la seguente missiva da Rihani, che gli prospettava soluzioni alternative per eludere il blocco della Turchia e poter consegnare gli aiuti in Siria:
«Caro Gibran, ieri, quando sono tornato dalla montagna, ho ricevuto la tua lettera e mi è molto dispiaciuto leggere della tua salute malferma. Spero tu stia meglio ora e che possa tornare tra noi quando ti sarai completamente ristabilito. Non preoccuparti, fratello mio, del lavoro incompiuto. Se i nostri sforzi nel lavoro fossero all’altezza dei fini che intendiamo perseguire, tutti noi saremmo tra gli individui più felici e rispettati – e sai bene cosa intendo quando dico tutti. È un vero onore per noi dire di lavorare per un comitato che non gode dell’appoggio dei Siriani che vivono qui! Tuttavia, non mi perdo d’animo, anche se avrei preferito ascoltarti raccontare di te in questo periodo di assenza. Comunque, non pensare che io sia sommerso di lavoro in quest’ufficio, ce n’è molto meno del solito. Ma il comitato ha indetto una riunione martedì prossimo per discutere circa l’invio del denaro attraverso i funzionari statali – mentre il nostro amico e il suo partito chiedono sia fatto pervenire direttamente al Patriarca maronita. Spero che, per martedì, sarai perfettamente guarito e in condizione di essere presente all’incontro per aiutarci a sostenere ciò che è legittimo e a respingere ciò che non lo è. Tutti i nostri fratelli ti mandano un saluto, in modo particolare Najeeb Kasbani, che è appena arrivato. Che il Signore ti conceda buona salute e forza perché tu possa raggiungerci presto» [36].
I dissapori tra i membri del comitato finirono purtroppo per incrinare anche i rapporti tra Gibran e lo stesso Rihani, come si può desumere da una nota di Mary Haskell del 5 ottobre che riporta fedelmente le parole dell’amico:
«Le spie turche, ovviamente, osservano tutto ciò che facciamo qui. […] Non posso non occuparmi della Siria; non potrei mai, sono siriano… e tuttavia questo lavoro mi sta conducendo al limite della sopportazione. Rihani e tutti gli altri si intendono benissimo tra loro, ma io non li comprendo e loro non comprendono me. Mi dicono: “Sta’ al tuo posto e lascia fare a noi”. Ma devono stare attenti: io sono la gallina dalle uova d’oro, perché io sono in grado di procurare denaro come nessuno di loro saprebbe fare. La Turchia ha fatto di tutto per dividere coloro che governa, perciò i Siriani non si fidano l’uno dell’altro. Temono che, se donano denaro al comitato, i loro soldi non saranno consegnati ai sofferenti in Siria. Sono io che devo parlare a quella gente per spiegare la situazione e per convincerla. Solo io sono capace di farli commuovere e ottenere ciò che chiedo… Le spie seguono ogni movimento del comitato a New York, e se un siriano negli Stati Uniti fa qualcosa che non piace alla Turchia, quest’ultima si vendica sui suoi parenti in patria. Ecco perché i Siriani qui sono così cauti e timorosi» [37].
In quello stesso ottobre venne pubblicato a New York un numero speciale del mensile arabo-americano «al-Funūn» (o «Al-Funoon», ‘Le arti’, in arabo) sulla crisi siriana dal titolo ‘Adad Sūriyā al-mankūbah (Numero sulla Siria colpita). Esso includeva, tra gli altri, il racconto Mahraǧān al-mawt (La fiera della morte) di Mikhail J. Naimy (Mīḫā’īl Yūsuf Nu‘aymah, 1889-1988) [38], il saggio al-Ǧaw‘ (La fame) di Ameen Rihani, la lirica Fī al-layl (Alla notte) di Elia Abu Madi (Īlīyā Abū Māḍī, 1890-1957), noto anche come Elia D. Madey. Gibran vi contribuì con tre disegni – l’illustrazione di copertina, raffigurante una famiglia denutrita e macilenta; uno schizzo dal titolo al-Ǧā’i‘ah al-musta‘ṭiyyah (La mendicante affamata); un ritratto di profilo della sua defunta madre Kamila Rahme (Kāmilah Raḥmah, 1858-1904) recante la didascalia «Waǧatu ummī waǧatu ummatī» («Il volto di mia madre è il volto della mia nazione») – e con un poème en prose intitolato Māta ahlī (Morta è la mia gente) [39].
Il componimento consiste in un’elegia dedicata alle vittime del genocidio, con alcuni passaggi in cui l’autore assume un tono fortemente autoaccusatorio, che si conclude con un toccante appello da parte del poeta affinché i lettori sostengano gli sforzi del comitato di soccorso:
«Morta è la mia gente, ma io sono ancora vivo, e solo e abbandonato piango la mia gente.
Morti sono i miei cari, e la mia vita, senza di loro, è tormentata dall’angoscia.
Morta è la mia gente e anche i miei cari. Le alture del mio Paese sono sommerse di lacrime e di sangue, e io sono qui, vivo come quando la mia gente e i miei cari gioivano tra le braccia della vita e le colline del mio Paese erano inondate dalla luce del sole.
D’inedia è morta la mia gente, e chi non è perito per la fame è stato trucidato dalla spada; e io sono qui, in questa nazione lontana, come un prigioniero tra persone felici e serene che mangiano cibi gustosi, bevono bevande prelibate, riposano su soffici letti e ridono dei giorni mentre i giorni ridono di loro.
La mia gente ha sofferto una morte dolorosa, e io sono qui a vivere nell’abbondanza e nella pace. Ed è questa la tragedia che si svolge sul palcoscenico della mia anima.
Se avessi patito la fame con la mia gente lasciata morire di fame e se fossi stato perseguitato insieme ai miei compatrioti, meno greve sarebbe il peso di questi giorni sul mio cuore, e l’oscurità della notte sarebbe meno fonda ai miei occhi incavati, perché chi condivide con la sua gente il dolore e l’agonia riceve il conforto supremo che viene dal martirio, o si sente almeno orgoglioso di se stesso perché muore innocente con gli innocenti.
Ma io non sono con la mia gente affamata e perseguitata, che avanza nella processione della morte verso la gloria del martirio. Sono qui, al di là dei sette mari, a godere l’ombra della tranquillità e tra l’apatia di chi si sente al sicuro. Sono qui, lontano da quella catastrofe e dagli afflitti, e di nulla posso essere fiero, se non delle mie lacrime.
Cosa può fare un figlio in esilio per il suo popolo affamato?
A cosa può valere, mi chiedo, il lamento di un poeta?
Se io fossi una spiga di grano cresciuta nella terra del mio Paese, il bambino affamato mi raccoglierebbe e con i miei chicchi scaccerebbe la mano della morte.
Se fossi un frutto maturo nei giardini del mio Paese, la donna sfinita mi coglierebbe per mantenersi in vita.
Se fossi un uccello che vola alto nel cielo del mio Paese, un mio fratello bisognoso potrebbe darmi la caccia e allontanerebbe con le mie carni l’ombra della tomba dal suo corpo.
Ma, ahimè, non sono una spiga di grano cresciuta nelle pianure della Siria, né un frutto maturo nelle valli del Monte Libano – e questo è il mio rimpianto, il muto dolore che mi umilia dinanzi a me stesso e ai fantasmi della notte.
Questa è la dolorosa tragedia che mi serra le labbra, mi incatena le mani e mi paralizza, privandomi della forza, della volontà e dell’azione.
Mi dicono: “La tragedia del tuo Paese non è che una piccola parte della rovina del mondo, e le lacrime e il sangue versati dal tuo popolo non sono che poche gocce del fiume di sangue e di lacrime che scorre giorno e notte nelle valli e nelle pianure della terra”.
Sì, ma la catastrofe del mio Paese è la catastrofe di chi non ha voce. La catastrofe del mio Paese è un crimine concepito dalle menti di vipere e serpenti. La catastrofe del mio Paese è una tragedia senza cori né spettatori.
Se il mio popolo fosse caduto rivoltandosi contro despoti e tiranni, avrei detto: “Morire per la libertà è più onorevole che vivere all’ombra della passiva sottomissione, perché chi va incontro alla morte brandendo la spada della verità sarà immortale come la verità eterna”.
Se la mia nazione avesse partecipato alla guerra di tutte le nazioni e fosse perita sul campo di battaglia, avrei detto che la furia dell’uragano ha spezzato con la sua potenza i rami verdi, e che la morte violenta sotto l’impeto della tormenta è più nobile della lenta agonia tra le braccia della vecchiaia.
Se un terremoto avesse devastato il mio Paese e la terra avesse inghiottito la mia gente, avrei detto: “È accaduto a causa di una legge guidata da una volontà superiore alle forze dell’uomo, e sarebbe pura follia se noi, miseri mortali, tentassimo di sondarne gli arcani disegni”.
Ma i miei compatrioti non sono morti da ribelli, non sono caduti sul campo di battaglia, e non è stato il terremoto a distruggere e ad annientare il mio Paese.
Il mio popolo è morto in croce.
Morto con le mani protese verso Oriente e verso Occidente, con gli occhi rivolti all’oscurità del firmamento.
Morto in silenzio, perché l’umanità è stata sorda alle sue grida.
È morto perché non ha assecondato ipocritamente i nemici, né ha odiato gli amici, come fanno i traditori.
È morto perché non era un popolo di criminali.
È morto perché non ha oppresso i suoi oppressori.
È morto perché credeva nella pace.
È morto di fame in una terra prodiga di latte e di miele.
Morto perché i mostri infernali hanno divorato tutte le loro greggi nei campi e le ultime scorte nei granai.
È morto perché le vipere e i loro figli hanno avvelenato l’aria che dava vita al riso, coprendo il profumo delle rose e dei gelsomini.
Il mio popolo e il vostro popolo, Siriani, è morto. Ma cosa possiamo fare per i sopravvissuti?
Il nostro dolore non placherà la loro fame, le nostre lacrime non estingueranno la loro sete. Come possiamo allora salvarli dalla stretta della fame e della sete?
Vogliamo forse restare scettici, esitanti, indolenti, distratti da inezie e frivolezze, dimenticando quest’immane catastrofe?
Fratello, l’amore che ti fa donare una parte della tua vita a coloro che sono in pericolo di perdere la propria è tutto ciò che può renderti degno della luce del giorno e della quiete della notte.
E la moneta che lasci cadere nella mano vuota del mendicante è il cerchio dorato che congiunge l’umano che è in te al divino che è in te» [40].
Nell’estate del 1916 l’American Committee for Armenian and Syrian Relief aveva avviato una campagna di raccolta fondi per il Monte Libano. L’iniziativa ottenne un enorme successo tra gli americani, tanto che la Caesar, una carboniera della Marina Militare degli Stati Uniti, venne caricata di aiuti umanitari per un valore complessivo di circa 700.000 dollari [41]. Il 5 novembre, Gibran condivise la buona notizia con la Haskell:
«Il lavoro del nostro comitato procede alla grande. Non ho nutrito altra aspirazione nella mia vita se non il desiderio costante di far andare bene le cose, e le cose stanno andando bene. La Marina Militare degli Stati Uniti ha messo a disposizione del comitato una nave che, in collaborazione con la Croce Rossa, stiamo cercando di caricare di cibo, medicine e altri generi di conforto. Il Comitato Americano è stato molto generoso – e credo che saranno inviati aiuti per non meno di 750.000 dollari. Tutto questo, Mary, significa lavoro, lavoro e ancora lavoro, giorno e notte. Ma è senza dubbio il lavoro più importante che io abbia mai svolto. E non mi sono concesso un attimo di tregua, neanche uno, da quando sono tornato da Cohasset. Non sono mai stato così concentrato sul tempo che passa, nel tentativo di non perdere neppure un minuto. Perdere un minuto in situazioni del genere significa perdere un’opportunità, e non si possono perdere opportunità, di nessun genere, quando la tua anima sente le grida di migliaia di persone sofferenti. Ma è così bello avere fretta: ti fa sentire come se avessi le ali che battono» [42].
Per tutte le settimane precedenti la partenza del Caesar, Gibran continuò a lavorare indefessamente, come scrisse a Mary il 7 novembre: «In questi giorni mi reco all’ufficio del comitato ogni mattina di buon’ora, e temo di doverci andare anche venerdì mattina. […] Stiamo cercando di ottenere l’autorizzazione per allestire un bazar siriano di beneficenza. La domenica è sempre una giornata favorevole per questo genere di iniziative» [43]. Il 17 dicembre la nave poté finalmente salpare dal porto di New York con il permesso di approdare a Beirut alla fine del mese. Per via del suo carico di doni e della data di arrivo prevista, venne soprannominata ‘la nave di Natale’ (‘the Christmas Ship’). Alcune rare fotografie ufficiali scattate poco prima della partenza mostrano tra gli altri, riuniti sul molo, il tenente comandante John M. Enochs (1878-1932), capitano del Caesar, Dodge, Dutton, Morgenthau e la moglie di quest’ultimo, la filantropa Josephine Sykes (1863-1953).
Nella sua autorevole biografia di Gibran, Suheil B. Bushrui (Suhayl Badī‘ Bušrū’ī, 1929-2015) scrive che quella fin qui raccontata fu una vicenda a lieto fine: «Dopo tutte quelle settimane frenetiche, i sogni del comitato si realizzarono non appena il Caesar salpò finalmente per la Siria» [44]. Ma purtroppo le cose andarono assai diversamente: il piroscafo non raggiunse mai Beirut. Restò infatti bloccato per mesi ad Alessandria d’Egitto, senza il permesso delle autorità ottomane di proseguire il suo viaggio nel Mediterraneo. In una lettera a Mary del 9 febbraio 1917, si può leggere tutta la profonda e amara delusione di Gibran al riguardo: «Le notizie dalla Siria e dal Monte Libano sono più atroci di quanto si possa sopportare. Un gruppo di giovani siriani si incontrerà domani sera qui nel mio studio per parlare della situazione. […] Tutta questa storia è diventata un incubo senza fine, e devo confessarti che a volte sarei quasi tentato di lasciar perdere tutto»[45]. Quanto al destino del carico a bordo del Caesar, una parte restò danneggiata durante la traversata dell’Atlantico, un’altra fu venduta in Egitto e un’altra ancora venne spedita a Salonicco, in Grecia. Gli sventurati del Monte Libano e della Siria non videro mai nulla di quanto, con immani e innumerevoli sforzi, era stato raccolto e inviato loro dagli Stati Uniti.
Per ragioni di rigore scientifico, si riporta qui di seguito la trascrizione completa e letterale nell’originale inglese di tutti i documenti inediti appartenenti al fascicolo dello scambio epistolare intercorso tra Gibran e il Dipartimento di Stato americano (per le relative fonti d’archivio, si rimanda alle note) tradotti in italiano nel presente articolo:
The Syrian-Mount Lebanon Relief Committee
55 Broadway
Najeeb S. Maloof, Chairman
31 Rector St., N.Y.
Ameen Rihani, Ass’t. Chairman
164 Remsen St., B’klyn, N.Y.
Gibran K. Gibran, Secretary
51 W. 10th St., N.Y.
Treasurers:
Nami Tadross
33 Union Square, N.Y.
Antone Simon
60 Washington St., N.Y.
Kaleel Teen
79 Worth St., N.Y.
New York, June 17, 1916
The Honorable Robert H. Lansing,
Secretary of State,
Washington, D.C.
Sir;
A fortnight ago a delegation of the Arabic Press of this City were accorded an interview by the President and the Acting Secretary of State in regard to the distressful condition of the people of Syria and Mt. Lebanon, and their appeal that the United States Government use its good offices in our behalf to the end of obtaining permission from the Ottoman Government to introduce foodstuff into the stricken country, met with a responsive and sympathetic ear and heart both from his Excellency the President and the other Government officials the delegation had the honor to meet.
I now beg to enclose for your distinguished consideration, translations of accounts of the famine that is impending over the country, as published in the recent issues of the Arabic papers of Cairo, Egypt. These accounts, as you will see, confirm all former reports received by cable, as well as the accounts which the Department received from the French Ambassador.
The people of Syria and Mt. Lebanon, Sir, are actually dying of starvation and the diseases resulting from lack of nourishment. Their distress is appalling, and they are to-day a helpless people doomed to extinction.
We appeal to you, Sir, we the Syrians of this country, thousands of whom are American citizens, in behalf of our stricken country and our starving people. We trust that you will continue to exert your good offices to the end of securing for us a permission from the Turkish Government to introduce food supplies to Syria and Mt. Lebanon.
We are now an organized Committee of Relief, working in cooperation with the American Committee, and we hope to raise enough funds soon to be able to send a shipload of food supplies. And we want to send this ship before the coming winter, either from New York or from Egypt, to ward off, if possible, the effects of the impending famine that threatens the extinction of a whole race.
I trust to receive a favorable word from you soon, I am, Sir,
Yours respectfully
Gibran K. Gibran
Secretary.
***
FROM THE SYRIAN-MT. LEBANON RELIEF COMMITTEE.
55 Broadway, New York
Syria and Mt. Lebanon have been practically under siege ever since Turkey entered the war. The coast of Syria has been mined by the Turks and blockaded by the Allies, and there is no possibility whatever of communication with the outside world. Add to this the natural condition of the country, which is bounded on the east by the desert and on the west by the sea, and its plight is complete. Its complete isolation will ultimately result in the extinction of the population.
The resources of the country, especially in Mt. Lebanon, have always been scant owing to the aridity of some sections and the uncultivated state of others. Besides, few people are left to till the soil.
Able bodied men of all creeds have been drafted for the army and sent to the Caucasus or to Mesopotamia.
The locusts, that terrible plague of Asia, have spread all over the country last Spring, eating up the harvest, devouring every green thing.
The opening of the Constantinople railroad by the Teutonic Allies, who commandeered cattle and wheat wherever they could find them, has added to the misery of the inhabitants.
In Mt. Lebanon, which is cut off to-day from the two vilayets surrounding it as Syria itself is cut off from the outside world, there is no means of transportation whatever. All mules and horses have been requisitioned by the Turks, and the only railroad running through the Lebanons from Beirut to Damascus, is seldom in operation for lack of coal or wood.
The Turkish Government is indifferent to these conditions, or it has failed to take charge of the even distribution of what little provision there is in the country. It is a fact also that Germany itself has drawn upon the resources of the Turks.
For the last six months the inhabitants have been in dire distress. Nowhere in the world, not even in Belgium following its invasion, nor in Serbia, have such conditions been known. From reliable sources as well as from the few fugitives that have escaped from the stricken country, as the attached reports show, the news comes that women and children are dying on the roadsides and in the fields, where they seek to alley their hunger with what few herbs they can find.
According to cablegrams received from reliable sources in Egypt, which are confirmed by correspondents, eighty thousand people have already died of starvation in Mt. Lebanon alone.
Mt. Lebanon is but a small section of Syria with a population of about 400000. What the toll of famine has been in other parts of the country, it is not yet known.
By next winter, if no relief is sent to the country, a whole race will be annihilated by famine.
Syria, including Mt. Lebanon, has a population of about four million souls.
***
«The Daily Mirror», an Arabic Newspaper in New York, publishes under date of June 14, 1916, the following from its Special Correspondent in Cairo, Egypt.
Cairo, May 25, 1916
I cabled you last week of the death of 80,000 people in Mt. Lebanon, Syria, of starvation. And the cablegram of the United Syrian Society of New York in reply, asking for further details, was received to-day and will be read at a general meeting of Syrians here, which will be held at the Patriarchate of the Greek Catholic Church.
I should have been very glad to cable you at length of the calamity, were it not that the censorship on cablegrams is very strict. I therefore hasten to write to you of what I have hitherto learned.
A Maronite priest, who was sent from here to investigate conditions in Mt. Lebanon, was taken on a French torpedo boat and he landed somewhere on the Syrian coast. He had great difficulty in getting into, and out of, the country. And while there, he was beset with dangers.
His story in brief, as I have it from his own lips, is that the misery of the people of Mt. Lebanon is past description. In one town alone, Ashkout, only 94 people still exist, the rest of the population having perished of starvation. And the death rate has risen to such an extent that the Mutasarrif (Governor) Munif Pasha issued a decree allowing the people to bury their dead without a legal permit. Which is all that he was willing to do.
For when he was appealed to, he said, «And has any woman eaten her own child yet in Mt. Lebanon? No? Then, there is no hunger and no famine in the land».
What little flour reaches Mt. Lebanon is sold for 25 piasters a rotl (about 20 cents a pound) while in Beirut it is sold for 5 piasters. And still worse, this flour is but a ground mixture of oats and fodder and sawdust. The priest, my informant, showed me some of it, a sample of which I am sending you by mail.
Any one in Beirut or in Damascus, who is found carrying bread to Mt. Lebanon, is arrested and punished – beaten with the lash.
Armenian girls are sold in the streets of Beirut for 10 or 20 piasters each, – sold to Mohammedans only. For it happened that a Christian one day bought some of these girls to rescue them; but when the matter was brought to the attention of the Government, they were taken away from him and he was whipped.
Among the many who were hanged for political offense was Joseph Hany, whose name was subscribed to a petition found in the archives of the French Consulate in Beirut, in which the petitioners ask of France that Beirut be included in the autonomous plan of Mt. Lebanon.
What we have done in the way of possible relief may be summed up in a few words. Several meetings have been held, which were attended by some of the most distinguished and influential of all denominations, Mohammedans and Christians, and an appeal was made to the French Agent and the English Viceroy in Egypt, who promised to communicate with their respective Governments to the end that the Government of the United States or its agents undertake the distribution of food among the stricken people.
The last news reaching us from Mt. Lebanon confirms the past reports. I quote from the latest communication, which is presumably from the Patriarch of the Maronites:
«Send us food, not gold. For if gold were of any use to us at present, I should have long since disposed of the gold and silver ware of the churches to feed the starving people…».
The Relief Committee, which is to be organized under the auspices of the Sultan of Egypt, with one of the princes of the royal family for its chairman, is going to appeal to the United States Government and to his Holiness the Pope of Rome to obtain for us the permission of the Turkish Government to introduce food stuff into Syria and Mt. Lebanon.
***
«Al-Ahram», one of the leading papers of Cairo, Egypt, publishes the following in its issue of May 18, 1916.
The communication of our Syrian Correspondent, which we published recently and which had the tendency of allaying the anxiety of our readers, was apparently delayed in transmission and referred to a condition long past. For the people of Mt. Lebanon, according to the latest reports, are suffering untold miseries and privations; they are actually dying of hunger; the country is threatened with famine. And the recent visit of Enver Pasha to Syria, instead of affording them some hope of instant relief, has added, on the contrary, to their distress and despair.
For Enver Pasha has cut off all food supplies from Mt. Lebanon, except a miserable excuse for flour, – a black mixture of oats and sawdust – of which a person gets but four kilograms every twenty-five days. Which flour is not only not nourishing, but is unhealthy and engenders disease. The result is that people are perishing of hunger. Many of them are found dead on the roads and in the valleys, were they go seeking nourishment in the herbs, which they cannot find. For the locusts, to add to the afflictions of the country, have been for the last eleven months its unwelcome guest and have scarcely left a green thing for starving man.
When the representatives of the people appealed to the Mutasarrif Munif Pasha for relief, they were told that the Government knows its business and that only when people begin to eat each other would their complaint of a famine be justified.
All mules and horses and cattle have been requisitioned for the army; and for lack of oxen and lack of seeds it is impossible to cultivate the land or to sow new crops.
The leaders of the people, including many bishops, have been exiled; whole families have been driven, either by hunger or by the Government, to the interior; and the number of dead is so increasing day by day that a permit was issued for their burial outside the cemeteries.
In many villages a third or more of the population have died of starvation. And while a rotl (five pounds) of flour is sold for twenty-five piasters [about 90 cents], it can scarcely be had. It is true that the people of Mt. Lebanon are not permitted to buy any of the immediate necessities of life in Beirut. And whosoever is found smuggling flour or bread into the Mountains, is stripped by the soldiers on guard and whipped. Hunting rights too have been suspended, and no one dares carry a shot gun.
Up to this month (May) about 80,000, it is estimated, have died of starvation.
As for the money that was sent to the people of Mt. Lebanon and Syria from their relatives in America, the Government has ordered the American Missionaries who kindly undertook the transmission of same, to deposit all sums received, in the names of their respective recipients, in the Imperial Ottoman Bank of Beirut. And then it issued an order to the Bank that said sums shall be paid in monthly installments a year after the date on which they were deposited. And the payments shall be in bills, not in gold, at the rate of exchange of 80 piasters a pound sterling, which in normal times is worth 136 piasters.
A whole people, under these appalling circumstances, is doomed to extinction. And the gallows, which are still standing in the squares of the leading cities, are adding to the horror of the situation. Last month eleven people were hanged in Beirut, 8 in Aley, Mt. Lebanon, 7 in Damascus and 9 in Haifa.
***
June 20, 1916
Mr. Gibran K. Gibran, Secretary.
The Syrian-Mount Lebanon Relief Committee,
55 Broadway, New York City.
Sir:
The Department acknowledges the receipt of your letter of June 17th, referring to the situation in Syria and requesting that the Government use its good offices to assist in alleviating the conditions among the Syrians.
In reply the Department begs to inform you that it has cabled the American Chargé d’Affaires at Constantinople, instructing him to investigate and report as to the situation in Syria, and to inform the Turkish Government that there is a strong feeling of sympathy in the United States for the destitute inhabitants in Syria and that many people in the United States would like to send relief to Syria if this could be done. The Chargé d’Affaires was further instructed to ascertain whether the Turkish Government will permit relief supplies to be sent for distribution among the inhabitants of Syria by a neutral committee.
I am, Sir,
Your obedient servant,
For the Secretary of State:
Alvey A. Adee
Second Assistant Secretary [46]
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] Per una traduzione in italiano dell’opera, cfr. K. Gibran, Il Profeta, nuova edizione curata e tradotta da F. Medici, con i manoscritti e le illustrazioni originali dell’Autore, testo originale inglese a fronte, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005.
[2] Cfr. F. Medici, Gibran’s The Prophet in All the Languages of the World, in 5ème Rencontre Internationale Gibran, IMA, Paris, 3 Octobre 2019, Center for Lebanese Heritage (Lebanese American University-LAU), Beirut 2020: 111-135.
[3] Cfr. F. Medici, Kahlil Gibran between the Great Famine of Mt. Lebanon and the First Red Scare in the USA. Unpublished and Secret Documents, «Mirrors of Heritage», Special Issue – Centennial of The Prophet, Lebanese American University (LAU), September 2023: 176-225.
[4] Distretto semi-autonomo a maggioranza cristiana dell’Impero ottomano creato nel 1861 per pressione diplomatica europea.
[5] S. Bushrui & J. Jenkins, Kahlil Gibran: Man and Poet. A New Biography, Oneworld, Oxford-Boston 1998: 154. Le traduzioni in italiano di tutte le citazioni da fonti straniere, se non diversamente indicato in nota, sono dell’autore del presente articolo.
[6] The Letters of Kahlil Gibran and Mary Haskell. Visions of Life as Expressed by the Author of “The Prophet”, arranged and edited by A. Salem Otto, Smith & Company Compositors – Southern Printing Company, Houston 1970: 438-439. Il toponimo Siria è qui da intendersi come la Grande Siria ottomana, cioè l’area che includeva approssimativamente gli attuali Libano, Siria, Palestina, Israele e Giordania.
[7] Ǧ.Ḫ. Ǧubrān, Dam‘ah wa ibtisāmah, Maṭba‘at al-Atlantīk, New York 1914 (cfr. K. Gibran, Il pianto e il sorriso, a cura di L. Carra, Guanda, Milano 1989).
[8] Otto: 479-480.
[9] Otto: 481.
[10] Otto: 484-485.
[11] Otto: 485-486.
[12] Otto: 487. Con l’espressione ‘Rivolta araba’ si indica la guerra intrapresa nel 1916 dallo šarīf della Mecca Ḥusayn Ibn ‘Alī al-Hāšimī (1854-1931) per sottrarre la Penisola Arabica al dominio ottomano e creare uno Stato arabo hashemita, esteso alla Siria. L’insurrezione, che durò fino al 1918, fu preceduta dagli accordi intercorsi nel 1915 tra lo stesso Ḥusayn e il diplomatico inglese Arthur H. McMahon (1862-1949), il quale promise l’appoggio del governo britannico.
[13] Cfr. Collection Number 02725: Minis Family Papers, 1739-1948, Subseries 2.4, Kahlil Gibran Materials, 1904-1931 and undated, Folder 271 (Letters, 1916), Southern Historical Collection at the Wilson Library of the University of North Carolina at Chapel Hill, NC, USA.
[14] Da intendersi qui come Asia occidentale, cioè il Vicino Oriente.
[15] I vilayet (circoscrizioni amministrative nel tardo Impero ottomano) geograficamente più prossimi al Monte Libano erano quelli di Beirut, della Siria e di Aleppo.
[16] L’invasione del Belgio nell’agosto del 1914 si svolse durante la fase iniziale del primo conflitto mondiale sul fronte occidentale a seguito della decisione della Germania di dichiarare guerra alla Francia e alla Russia. La dichiarazione di guerra da parte dell’Austria-Ungheria al Regno di Serbia risale invece al 28 luglio dello stesso anno. L’esercito serbo tentò una strenua difesa del Paese ma, essendo decisamente inferiore nei mezzi e negli uomini, venne sopraffatto dalle forze austro-ungariche, tedesche e bulgare, e costretto a ritirarsi dal proprio territorio nazionale.
[17] Fondata il 26 aprile 1892 dal presbiteriano siriano Ameen F. Haddad (Amīn Fāris Ḥaddād, 1865-1931), fu la prima grande organizzazione non settaria negli Stati Uniti ad occuparsi dell’istruzione e dell’americanizzazione degli immigrati arabi appena arrivati a New York e dei loro figli.
[18] ‘Ašqūt (generalmente traslitterato come Ashkout, Ashqout o Achqout) era allora ed è tutt’oggi un comune a maggioranza cristiana situato a una trentina di chilometri a nord di Beirut.
[19] Il rotl (anche rotel, rottle, ratel) è un’unità di misura, corrispondente a 0,448 chilogrammi, ancora oggi utilizzata in molti Paesi arabi.
[20] Yūsuf Bišārah al-Hānī (talvolta traslitterato anche come Joseph Hani) era un maronita residente a Beirut. Nel marzo 1913 fu uno dei sei uomini che firmarono una petizione inviata al console francese a Beirut François Georges-Picot (1870-1951) per chiedere l’appoggio della Francia al fine di liberare la Siria e il Monte Libano dal giogo ottomano. L’uomo venne impiccato sulla pubblica piazza dai Turchi con l’accusa di alto tradimento il 5 aprile 1916 a al-Burǧ (‘La Torre’, o Piazza dei Cannoni, oggi conosciuta come Piazza dei Martiri), a Beirut, alle 5 del mattino del 5 aprile 1916. Il suo nome, insieme a quelli di altri nazionalisti giustiziati, viene commemorato ogni anno il 6 maggio, il Giorno dei Martiri, negli odierni Libano e Siria.
[21] Si tratta del già menzionato MacMahon, alto commissario britannico al Cairo.
[22] Elias B. Huwayyik (Īlyās Buṭrus al-Ḥuwayyik, 1843-1931).
[23] Hussein Kamel (Ḥusayn Kāmil, 1853-1917), sultano d’Egitto dal 1914 al 1917 durante il protettorato britannico.
[24] Papa Benedetto XV (Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa, 1854-1922).
[25] İsmail Enver (1881-1922), insieme a Mehmed Talat (1874-1921) e al già citato Cemâl, componeva il triumvirato dittatoriale che guidò l’Impero ottomano dal 1914 al 1918.
[26] Città situata in una zona collinare a una ventina di chilometri a sud-est di Beirut.
[27] Otto: 489.
[28] George T. Scott (1881-1979), segretario del Consiglio Presbiteriano delle Missioni Estere.
[29] John P. Mitchell (1879-1918), sindaco di New York dal 1914 al 1917.
[30] F. Medici, Figli dei cedri in America. Il carteggio tra Ğubrān Ḫalīl Ğubrān e Amīn Fāris al-Rīḥānī, «La rivista di Arablit», I, 1, giugno 2011: 97-98 (cfr. Correspondence between Gibran and Rihani, in Excerpts from Ar-Rihaniyat by Ameen Rihani, edited with an introduction by N.B. Oueijan, Notre Dame University Press-Louaize, Beirut 1998: 71-72). La lettera non datata è scritta su carta intestata del Syrian-Mount Lebanon Relief Committee.
[31] Come confermato da una lettera a firma dello stesso Gibran, redatta su carta intestata del comitato e inviata al presidente del Syrian American Club di Boston in data 28 luglio 1916. Il documento è conservato presso l’archivio dell’Arab American National Museum (AANM), Evelyn Shakir Collection, Dearborn, Michigan, USA.
[32] Cfr. Najib S. Maloof is Killed. New York Merchant Thrown from Auto in Tuxedo Park, «The New York Times», Sept. 6, 1916: 6.
[33] Abram I. Elkus (1867-1947) fu ambasciatore degli Stati Uniti nell’Impero ottomano a Costantinopoli dal 2 ottobre 1916 al 20 aprile 1917.
[34] Otto: 495.
[35] S. Mujais, The Face of the Prophet. Kahlil Gibran and the Portraits of the Temple of Arts, Kutub, Beirut 2011: 31-33.
[36] Figli dei cedri in America: 98 (cfr. Correspondence between Gibran and Rihani: 74).
[37] Cfr. J. Gibran & K.G. Gibran, Kahlil Gibran: Beyond Borders, foreword by S. Hayek-Pinault, Interlink Books, Northampton 2017: 263.
[38] Cfr. M. Nu‘aymah, La fiera della morte, in O. Capezio, Gli arabi in America: la letteratura araba d’emigrazione nella rivista al-Funūn, L’Orientale Editrice, Napoli 2015: 137-151.
[39] «al-Funūn», II, 5 (Oct. 1916): 385-389.
[40] K. Gibran, Morta è la mia gente, in Poeti arabi della diaspora: versi e prose liriche di Kahlil Gibran, Ameen Rihani, Mikhail Naimy, Elia Abu Madi, traduzione e cura di F. Medici, presentazione di K.J. Boloyan, prefazione di A.A. Rihani, Stilo Editrice, Bari 2015: 124-127.
[41] Il carico includeva: 5.000 galloni di olio di semi di cotone; 825.000 libbre di grano intero; 1.000 casse di latte condensato; 200.000 libbre di zucchero; 13.640 piedi cubi di generi alimentari e vestiti donati; 80.000 libbre di fagioli; 980.000 libbre di farina; 100.000 libbre di grano macinato; 300.000 libbre di riso; 5.000 galloni di cherosene; diverse casse di cloroformio ed etere; diverse casse contenenti cibo e indumenti per la colonia americana residente a Beirut; 458 casse di forniture ospedaliere. Tale elenco dettagliato è riportato in una lettera datata 4 maggio 1917 dell’allora Assistente del Segretario di Stato americano William Phillips (1878-1968) all’indirizzo di Juan Riaño y Gayangos (1865-1939), ambasciatore spagnolo negli Stati Uniti (cfr. Papers Relating to the Foreign Relations of the United States, 1918, Supplement 2, The World War, Document 668, File No. 867.48/608).
[42] Otto: 501.
[43] Otto: 502.
[44] Bushrui & Jenkins: 160.
[45] Otto: 518.
[46] The U.S. National Archives (USNA); Record Group 59: General Records of the Department of State; 1910-29 Central Decimal File; File: 867.48/306.
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Francesco Medici, membro ufficiale dell’International Association for the Study of the Life and Work of Kahlil Gibran (University of Maryland, College Park, USA) e del Kahlil Gibran Collective (Melbourne, Australia), è tra i maggiori studiosi a livello internazionale dell’opera gibraniana. Del celebre scrittore e artista arabo-americano ha curato e tradotto in Italia numerosi scritti, mentre molti dei suoi saggi sull’autore sono stati pubblicati anche all’estero, principalmente in Libano e negli Stati Uniti, oltre che in Europa. La sua bibliografia critica e le sue traduzioni si estendono ad altri eminenti letterati mediorientali della diaspora americana di inizio XX secolo, quali Ameen Rihani, Mikhail Naimy, Elia Abu Madi. Suoi articoli riguardanti la cultura islamica e la letteratura araba in generale sono comparsi su diversi periodici. Si è occupato anche di letteratura italiana moderna e contemporanea, in particolare di Giacomo Leopardi, Luigi Pirandello, Arturo Giovannitti e Mario Luzi, al quale ha dedicato una monografia.
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