di Nicola Martellozzo
Dopo cinque mesi di proteste, l’11 aprile 2019 il presidente del Sudan Omar al-Bashir viene deposto da un colpo di stato militare. Fu sempre un colpo di stato a portarlo al potere nel 1989, nel pieno della Seconda guerra civile sudanese (1983-2005), conclusa con gli accordi di Naivasha. Ostile alle istanze indipendentiste delle regioni meridionali, anche dopo la separazione del Sud Sudan al-Bashir è rimasto un interlocutore difficile, quando non un vero e proprio avversario (Idris 2013). Già impopolare per la conduzione del conflitto in Darfur, i recenti rincari su carburanti e generi alimentari hanno causato una sollevazione popolare nel dicembre 2018, estesa in breve tempo all’intero Sudan, portando infine alla sua deposizione da parte dell’esercito, schierato con i manifestanti.
Il Sudan non è nuovo ai coup d’état: nella sua storia può annoverarne ben quattro, tra cui il primo colpo di stato africano del periodo post-coloniale, nel 1958 (Onwumechili 1998: 37). In questo articolo non considereremo le modalità generali delle transizioni di potere in Sudan, ma un particolare aspetto degli eventi del 2019: Alaa Salah, una donna divenuta in breve tempo icona internazionale delle proteste sudanesi, ribattezzata kandaka in riferimento alle antiche regine del regno di Kush. Tra le diverse figure carismatiche della “rivoluzione” (thawra) sudanese, Alaa Salah è l’’unica ad essersi affermata nell’immaginario globale, attraverso una rete di riferimenti iconografici, storici e mitici. Proponiamo qui una breve descrizione di questo intreccio, costruito intorno alla nuova “regina nubiana”.
Una parentesi trentennale tra due colpi di stato
Il lungo governo di al-Bashir può essere considerato come un periodo di relativa stabilità politica per il Sudan. Nonostante la guerra civile, la separazione del Sud Sudan e i numerosi conflitti interni, il potere è rimasto saldamente nelle mani del suo movimento politico, il Partito del Congresso nazionale, molto vicino a posizioni islamiste. Il colpo di stato del 1989 riuscì anche grazie all’appoggio di Hasan al-Turabi, leader del Fronte Islamico Nazionale e sostenitore del fondamentalismo islamico. Le scelte politiche di quel periodo, come l’applicazione della Shari’a all’intero territorio sudanese, acuirono le tensioni con le regioni meridionali, polarizzando progressivamente i due schieramenti. Tuttavia, in seguito alle derive estreme del suo alleato, al-Bashir depose il leader islamista con un golpe interno, nel 1999. Da allora, il presidente del Sudan e il suo partito hanno mantenuto saldamente le redini del governo sudanese, superando la crisi post-referendaria del 2011 e vincendo tutte le elezioni politiche.
Durante il conflitto in Darfur (2003-2009), al-Bashir reclutò milizie arabe – dette Janjawid – per contrastare i movimenti indipendentisti locali, cercando di ribaltare gli esiti della guerra con l’integrazione dell’esercito regolare con gruppi miliziani (ICID 2005). La crisi umanitaria provocata dal conflitto, con migliaia di sfollati e numerosi massacri etnici, procurò ad al-Bashir un’accusa per crimini di guerra, ma non incise sulla sua tenuta al governo. Inaspettatamente, le proteste del 2018-2019 sono riuscite laddove conflitti interni e pressioni internazionali avevano fallito.
Le prime manifestazioni sono cominciate ad Atbara, quinta città del Paese e centro industriale nella regione settentrionale del Sudan. In seguito ad un rincaro nel prezzo del pane e dei carburanti, gruppi di studenti e operai sono scesi nelle strade, iniziando una protesta non violenta che si è rapidamente estesa in tutta la regione (ST 2018), sommandosi all’altro grande focolare nel Darfur. Un mese dopo, la Sudanese Professional Association (SPA) si affermò sulla scena, diventando il gruppo di riferimento dei manifestanti e chiedendo esplicitamente la cacciata di al-Bashir (Awolich 2019), considerato il principale responsabile del malgoverno e della drammatica situazione economica del Paese. La SPA non raccoglie solo sigle sindacali e unioni di professionisti, ma anche numerose organizzazioni civili e partiti d’opposizione (Soliman 2019), un movimento compatto nelle proprie richieste.
In risposta a queste proteste al-Bashir reagì inizialmente con azioni militari, sostituendo i governatori civili delle regioni con ufficiali dell’esercito, attuando una politica di repressione e censura, accusando inoltre i manifestanti di essere pedine dei gruppi ribelli del Darfur. Tuttavia, né l’intervento militare, né la tattica di divisione ebbero effetto, e le proteste continuarono anche dopo che al-Bashir rinunciò pubblicamente a partecipare alle prossime elezioni presidenziali (Gatluak 2019). Il 6 aprile i manifestanti iniziarono l’occupazione del quartier generale dell’esercito a Khartoum, un gesto di forte valore simbolico che richiama la medesima occupazione compiuta nel 1985, in occasione della cacciata del presidente Ja’far al-Nimeyri (Soliman 2019). Anche in quel caso le proteste cominciarono ad Atbara in risposta all’innalzamento dei prezzi dei beni alimentari; in meno di un mese, i sindacati dei lavoratori riuscirono a far deporre al-Nimeyri, grazie all’intervento dell’esercito. I paralleli tra i due presidenti del Sudan sono molti, a partire dal colpo di stato che portò entrambi al potere. Questa somiglianza a distanza di decenni non è sfuggita ai leader della SPA, che nell’occupazione del 2019 si richiamano esplicitamente al 1985 come evento fondativo.
Oltre al movimento di lavoratori e studenti, occorre tenere conto dei gruppi politici filo-islamici, specie quelli più integralisti che persero la propria influenza dopo la deposizione di al-Turabi. L’altro grande protagonista è l’esercito sudanese: l’11 aprile, il generale e ministro della Difesa Ahmed Awad depone il presidente al-Bashir, annunciando una fase di transizione vigilata dai militari. Passano solo poche ore ed è lo stesso generale Awad a lasciare, costretto dalle pressioni dei manifestanti che lo considerano troppo vicino alle posizioni islamiste e compromesso dalla sua collaborazione con l’ex presidente; la cacciata di Awad testimonia il peso e l’organizzazione della società civile in questo frangente di crisi, il che rende la protesta popolare la vera artefice della caduta di al-Bashir (Beny 2019).
Il posto vacante viene occupato da un altro militare, il generale al-Burhan, coadiuvato dal comandante Mohamed Daglo, conosciuto come “Hemeti”. I due militari hanno già collaborato durante il conflitto nel Darfur, e godono dell’appoggio internazionale dell’Arabia Saudita (e dei suoi alleati) per il ruolo svolto nella guerra in Yemen. Oltre a tutto ciò, Hemeti comanda l’RSF, una milizia affiliata all’esercito sudanese che raccoglie molte delle truppe irregolari del conflitto in Darfur. L’abilità politica e militare di Hemeti gli hanno permesso di gestire l’RSF come un piccolo “Stato dentro lo Stato” (Berridge 2019: 10), garantendo paghe più alte dell’esercito regolare e una maggior indipendenza d’azione.
La prospettiva di una transizione veloce verso un nuovo governo, fortemente voluta dai manifestanti, si contrappone al progetto di una transizione lenta sotto l’egida militare (Soliman 2019), e ci riporta alla questione complessa del ruolo dell’esercito durante passaggi di potere negli Stati democratici (Frazer 1995). Specie negli Stati africani post-coloniali, i colpi di stato rappresentano uno strumento politico piuttosto diffuso (Onwumechili 1998: 37-42), in cui l’esercito gioca spesso il ruolo ambiguo di garante della democrazia, sostenendo o reprimendo le iniziative popolari. Il contesto africano è un laboratorio geopolitico d’avanguardia, in cui le forme statali ereditate dal periodo coloniale sono state rielaborate e trasformate in modo inedito, realizzando sistemi politici in cui alle classiche istituzioni democratiche vengono affiancate entità parastatali capaci di esercitare un’influenza diretta e capillare sul territorio (Guseh & Oritsejafor 2019; Anderson & Rolandsen 2017). Nella sua storia di Stato indipendente il Sudan ha vissuto più volte ciascuna di queste forme di governance e di trasferimento violento del potere (Gatluak 2019; Berridge 2015; Onwumechili 1998: 51-52), di cui la deposizione di al-Bashir è solo l’ultimo episodio.
Le manifestazioni del 2018-19 recuperano molti elementi delle proteste del 1985, ma se ne distinguono anche sotto molti aspetti. Fra i tanti, abbiamo scelto di concentrarci su una persona: una giovane donna, che l’8 aprile 2019 viene immortalata in una foto mentre, circondata da una folla di manifestanti, recita una poesia sopra un’auto. La foto viene postata su Twitter e su altri social network, ottenendo una visibilità globale. Lei è Alaa Salah, studentessa ventiduenne presso la Sudan International University of Khartoum, ma presto viene ribattezzata Kandaka, la regina nubiana, icona delle proteste contro al-Bashir.
Le regine di Kush
Perché una giovane manifestante viene chiamata come le regine di un regno africano scomparso millenni prima? Per comprendere il senso di questa scelta, e la sua efficacia nel contesto contemporaneo, occorre una breve digressione sulla figura della kandaka. Questa deviazione ci porterà lontano solo nel tempo, dato che l’antico regno di Kush si estendeva nei territori settentrionali del Sudan, principalmente tra la terza e la sesta cateratta del Nilo, fino all’attuale Khartoum.
La civiltà kushita si sviluppò nella regione della Nubia, a sud dell’Egitto, a partire dal VIII a.C. e fino al IV d.C., quando venne conquistata dal regno rivale di Axum (Török 1997: 483). I suoi rapporti con l’impero egiziano non furono migliori, e per secoli il regno nubiano resistette alla conquista, con incursioni e saccheggi da ambo le parti (Haycock 1965: 462-63). Quando lo Stato egiziano entrò in crisi, Kush riuscì finalmente a imporsi, ribaltando gli equilibri politici e insediando una propria dinastia di faraoni (Török 1997: 131). Questo periodo di dominio fu relativamente breve, ma lasciò una traccia indelebile nelle istituzioni regali dello Stato nubiano. Da allora, il regno di Kush riuscì ad affermarsi politicamente nella regione, spostando la propria capitale a Meroë nel III a.C. (Török 1997: 409) per un’ultima fase di splendore, prima della conquista.
Per tutta la sua storia, il potere assoluto a Kush fu detenuto ed esercitato da una figura regale, un monarca sul modello egiziano che legittimava la propria autorità attraverso un principio dinastico. La particolarità del regno di Kush sta nella rilevanza data a certe cariche femminili, madri del re o vere e proprie regine, che governarono il Paese per diversi secoli. Il termine usato per indicare questa pratica culturale è “queenship”, una modalità di esercizio del potere conosciuto anche in altri contesti (Fluehr-Lobban 1998: 4-5); lo stesso Egitto vide governare delle regine, come Nefrusobek e Hatshepsut, ma rimasero sempre casi isolati, delle eccezioni che anche a livello iconografico furono ricondotte ad un modello maschile della regalità. Al contrario, nel regno di Kush è riscontrabile storicamente un processo di rafforzamento del ruolo e delle competenze della regina-madre, la quale è coinvolta fin dall’inizio nelle trame politiche per la scelta del sovrano e nella sua incoronazione (Haycock 1965: 477).
Ciò è particolarmente evidente nella “stele dell’elezione” risalente al VI a.C., realizzata per l’ascesa al trono del re Aspelta. Il sovrano legittima la sua regalità testimoniando la propria discendenza matrilineare, che nella stele è mostrata elencando le sette generazioni precedenti di regine-madri (Lohwasser 2001: 65). La più recente, Nasalsa, è anche la prima regina-madre a reclamare per sé il titolo regale di sa Ra (figlio di Ra), prerogativa dei soli sovrani (Haycock 1965: 470). La stele è un eccezionale documento storico che testimonia un processo in divenire, che in pochi secoli porterà sul trono di Kush la prima regina de jure, Shanakdakhete, in pieno periodo meroitico. Anche nell’ambito artistico si sviluppano modelli iconografici per la queenship, senza nascondere o neutralizzare la femminilità del monarca, come nel caso egizio (Lohwasser 2001: 62-67).
Per Török, la figura della regina-madre nubiana ha ricevuto dall’Egitto un’influenza determinante, ben prima della XXV dinastia nubiana, con l’esempio dell’istituzione sacra della “moglie di Amon” (Török 1997: 226-27). Sposa o madre del dio, la legittimazione dinastica per via matrilineare è un pattern che torna di frequente nella regalità femminile (Fluehr-Lobban 1998: 3-5), unendo i modelli di trasmissione della regalità a quelli della parentela. Scorrendo gli elenchi delle regine kushite (Török 1997: 237-41; Morkot 1992: 210-14), si nota come madri e mogli dei re abbiano giocato un ruolo rilevante in tutta la storia del regno. Lohwasser si occupa di questa relazione a tre vertici, mostrando come siano le figure femminili a garantire la continuità del potere regale nel regno di Kush (2001: 72). Il sovrano, intermediario diretto tra piano divino e umano, attualizza il potere regale nel presente. La regina-madre insedia il sovrano sul trono, garantendone la legittimità con il proprio lignaggio matrilineare, come intermediaria degli antenati passati; la moglie del re, invece, garantisce la successione e il trasferimento futuro della sovranità. Insieme, le due donne costituiscono il vero potenziale della regalità a Kush, un’istituzione che nel tempo porterà a vere e proprie regine.
Il caso storico più famoso rimane quello della kandaka Amanirena, che guidò un’incursione contro la città romana di Syene e venne successivamente sconfitta dal prefetto d’Egitto nella campagna di Nubia (Fluehr-Lobban 1998: 6). Amanirena compare anche nel corpus mitico di Alessandro Magno, il quale fermò la sua avanzata in Africa dopo la strenua resistenza della regina guerriera (de Weever 1989). Nel mito viene descritta come una regina etiope, confusione dovuta all’assimilazione dell’istituzione delle regine-madri dopo la conquista del regno da parte di Axum (Fluehr-Lobban 1998: 2), che si volle presentare come legittimo successore della civiltà kushita.
Amanirena è la kandaka per antonomasia, un modello femminile di leadership, resistenza e indipendenza che rimanda ad un periodo di splendore del regno di Kush. Il moderno Stato del Sudan ha cooptato molti aspetti storici e mitici del regno nubiano per costruire la propria identità, realizzando un immaginario pubblico complesso, permeato da quest’eredità storica. Tenendo conto di ciò, l’identificazione di Alaa Salah con Amanirena ha avuto un’immediata risonanza e un forte impatto nel contesto sudanese, e in misura minore in quello internazionale. Non abbiamo più a che fare con il potere regale delle regine-madri, ma con una modalità carismatica del potere; non un’istituzione politica suprema, ma una leader del popolo schierata contro la massima istituzione statale. Sono gli elementi di ribellione e resistenza del mito della kandaka, legittimati dall’eredità storica del regno di Kush, che hanno reso Alaa Salah un’icona inedita della rivoluzione sudanese.
“Thawra!”
Non ci sono dubbi sul potere delle immagini nel nostro secolo: la prima foto di Alaa Salah, scattata dalla manifestante Lana H. Haroun e successivamente pubblicata su Twitter, ha reso globalmente famosa la giovane sudanese. È attraverso questo scatto che proprio Alaa Salah, e non altri, è stata riconosciuta come icona delle proteste contro al-Bashir. Analizzando l’immagine possiamo cogliere molteplici simboli e riferimenti culturali, che la rendono efficace non solo nel contesto sudanese, ma anche verso un pubblico internazionale, ottenendo una visibilità che altre icone “locali” non hanno raggiunto.
Emblematico è il caso di Muzan Abdul Samiaa, arrestata insieme ad altre otto donne durante le proteste di marzo (Awolich 2019). Una foto, scattata nella periferia di Khartoum, la ritrae in piedi con un braccio levato in segno di vittoria, mentre indossa un niqab. Condannata a venire frustata per aver partecipato alla protesta, venne successivamente rilasciata grazie all’eco della sua storia, iniziata con la diffusione dell’immagine su Twitter. Nonostante tutti questi elementi, Muzan è rimasta un simbolo di protesta solo per il suo quartiere, scomparendo del tutto dalle cronache degli ultimi mesi.
Discorso completamente diverso per Alaa Salah, che dimostra una forte consapevolezza del suo ruolo all’interno delle manifestazioni ed esercita un certo controllo sulla costruzione della propria immagine pubblica, come emerge in varie interviste [1]. Torniamo perciò allo scatto dell’8 aprile, e cerchiamo di evidenziare gli elementi principali, partendo dalla sua figura. Alaa Salah indossa un thobe bianco, abito in cotone utilizzato dalle donne lavoratrici di città, piuttosto diffuso nel ceto borghese. Gli unici accessori visibili sono gli orecchini dorati che indossa, un modello tradizionale chiamato fedaia. Sulla guancia è dipinta una bandiera con i colori della Repubblica del Sudan (1956-59), il primo Stato sorto dopo l’indipendenza. Insieme, questi tre elementi costituiscono un appello trasversale alla società sudanese, ma rivolto innanzitutto alle donne. La scelta del thobe è diretta alla nuova generazione di donne lavoratrici, ma intercetta più in generale il ceto dei professionisti borghesi che compone larga parte della Sudan Professional Association. Gli orecchini sono un richiamo al passato, alle radici della tradizione, oltre che alla vecchia generazione di donne che hanno vissuto le proteste del 1985. Infine, la bandiera del Sudan repubblicano rappresenta non solo un appello ai valori democratici, ma esprime la volontà in un ritorno alle origini, un nuovo inizio che metta fine all’epoca disastrosa di al-Bashir.
Non tutto il messaggio di protesta è lasciato all’impatto visivo di questi riferimenti; la foto è stata scattata mentre Alaa Salah recitava una poesia del poeta sudanese Azhari Mohammed Ali, in esilio all’estero. Non va dimenticato che le manifestazioni del 2018-19 hanno avuto un forte seguito anche al di fuori del Sudan, proprio grazie alla rete di oppositori al regime di al-Bashir, attivisti come Azhari Ali che con il proprio impegno pubblico mantengono viva l’attenzione della comunità internazionale. In questo senso i social network hanno giocato un ruolo fondamentale negli eventi degli ultimi mesi, a cominciare dalla rapidità con cui le proteste di Atbara si sono diffuse in tutto il Sudan.
Consideriamo la folla che circonda Alaa Salah nella foto: sono moltissimi i manifestanti che, come la stessa Lana Haroun, stanno fotografando o filmando l’avvenimento con il proprio cellulare. Più di Instagram o Facebook, Twitter è stato l’interfaccia digitale usata per moltiplicare e diffondere l’immagine della giovane studentessa, attirando l’attenzione della popolazione sudanese e facendola diventare un simbolo della protesta. Il passaggio dall’anonimato alla fama globale ha causato diversi problemi all’attivista sudanese, tra cui la comparsa di diversi falsi account Twitter che fanno uso di immagini di repertorio o degli stessi post di Alaa Salah per presentarsi come profili autentici. La presenza di questi alter ego digitali ha causato molta confusione nel social network, al punto che questi falsi account hanno quasi lo stesso numero di followers del vero profilo Twitter di Alaa, @lwolia_salah, e rappresentano un problema serio per la dimensione pubblica della kandaka.
Uno degli aspetti della foto che più hanno colpito il pubblico internazionale, specie quello statunitense, è la somiglianza iconografica con la celebre Lady Liberty. Si tratta di un simbolo richiamato esplicitamente nelle tante narrazioni intorno a Salah, un accostamento tra figure femminili di libertà e vittoria, che come sostiene Fluehr-Lobban (1998: 6) si ritrova frequentemente come pattern della regalità femminile. Un’immagine dal forte impatto visivo, capace di evocare riferimenti trasversali a diversi immaginari pubblici. Lo stesso nome di kandaka non è stato dato dai manifestanti o comunque in Sudan, ma da un vignettista sudanese che vive in Qatar, Khalid Albaih, sostenitore della Primavera araba in Egitto.
Nel 2011, durante le medesime proteste in Sudan, venne arrestata Mariam al-Mahdi, leader del principale partito d’opposizione (NUP) e figlia dell’ex presidente Sadiq al-Mahdi, deposto proprio da al-Bashir nel 1989. Nel gennaio 2019, Mariam al-Mahdi viene nuovamente arrestata per aver appoggiato i manifestanti. Il suo caso, come quello di Muzan Samiaa, mostra il ruolo decisivo giocato dalle donne sudanesi in queste proteste, donne a cui Alaa Salah si rivolge direttamente e di cui è diventata il simbolo. Dopo la cacciata di al-Bashir, il governo militare ha cominciato a reprimere violentemente le rivolte, causando numerose morti (ST 2019) che tuttavia non hanno fermato le proteste. Al contrario, negli ultimi mesi stiamo assistendo ad un nuovo fenomeno: l’epiteto kandaka va progressivamente sganciandosi dalla persona di Alaa Salah, e cominciano a comparire altre donne che indossano il thobe bianco, cantano canzoni di resistenza, guidano le proteste contro l’esercito. Fuori dagli echi dei social network e dell’attenzione globale molte restano anonime, immortalate in qualche foto sfocata o in brevi video diffusi tra i manifestanti. Tuttavia, queste attiviste sudanesi trovano un modello inedito nell’icona nata intorno ad Alaa Salah, nel bene e nel male. La giovane studentessa ha dato nuova vita a questo vecchio mito, prestandogli un volto e una voce: adesso è diventato un elemento potente nell’immaginario pubblico sudanese, incarnato in figure femminili di resistenza e rinnovamento, guide della thawra.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] Intervista per France24: https://www.youtube.com/watch?v=k7ljhGMIfGs, una più estesa per il canale arabo al-Ain:
https://www.youtube.com/watch?v=aQ-t_7fHiik [controllato 26/07/2019]
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).
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