di Fabio Sebastiani
Guido Oldani, è il fondatore del Realismo Terminale, uno dei percorsi della poesia contemporanea capace di ragionare in termini generali sulla fase che stiamo attraversando. Noto per avere ideato nel 2010 la poetica di questo movimento di pensiero critico, è stato candidato al premio Nobel per la letteratura nel 2021. Autore di diverse raccolte, ha pubblicato nel 2021 Dopo l’Occidente. Lettera al realismo terminale, una “lettera aperta” destinata a coloro che hanno accolto il suo appello per fare un bilancio del progetto culturale e prospettare nuove linee di sviluppo.
A lui chiediamo, appunto, di illustrarci a grandi linee il Realismo Terminale, che negli ultimi dieci-quindici anni si è impegnato, se non proprio per un ritorno della poesia civile, sicuramente per un impegno maggiore della poesia sui temi che costringono l’umanità in una posizione di netta difensiva.
Ma sì, direi che l’umanità è dentro una pinza. Siamo presi dentro una posizione che non è certo la posizione più agevole, non è la modalità più agevole per vivere, per condurre la propria esistenza quotidiana. Ecco, più che poesia civile, perché alle volte il termine poesia civile mi fa pensare un po’ alla lamentela dei pensionati, invece, mi interessa molto questo aspetto esistenziale brutale che stiamo attraversando, per cui ad ogni passo che compiamo subiamo un’aggressione, subiamo qualche danno, qualche accidente: si casca in testa una nuvola, come se fosse una tegola, che so; ci fa uno sgambetto un gatto che amavamo accarezzare, e proprio lui ci causa un’incidente alla colonna vertebrale. Esagero un po’, ma non troppo, perché mi sono accorto che ormai siamo diventati quasi uno nemico dell’altro senza esserlo.
Cosa c’è? Cosa sta accadendo? C’è che siamo accatastati sempre di più. La stragrande maggioranza dell’umanità vive accatastata nelle città, nelle metropoli, cioè nelle pandemie abitative. E questo ci restituisce al mondo del realismo terminale, per cui tutto, proprio tutto sta assomigliando all’artificialità, o lo sta diventando. Mi è recentemente capitato – è una cosa rubata, non è una mia invenzione poetica – però di fatto è un atto di realismo terminale: cioè la natura assomiglia agli oggetti, la natura assomiglia all’artificialità, questa è la similitudine rovesciata; mi è stato raccontato di un tale che dice alla sua innamorata guardandola teneramente negli occhi, al ristorante dove si sono trovati, le sussurra: “Hai gli occhi del colore della mia automobile”. Un tempo, i nostri nonni non avrebbero detto alle nostre nonne una frase così, e non solo perché non possedevano un’automobile, ma forse avrebbero detto “occhi belli come il mare, come il cielo, neri come la notte”. Oggi si tira in ballo l’automobile. Questo mondo, questa similitudine rovesciata che è il cardine del realismo terminale è una specie di persecuzione estetica e quindi etica della nostra esistenza.
Ecco, la similitudine rovesciata e l’accatastamento sono due concetti chiave del realismo terminale, che appunto, dalle parole che hai detto, si propone di affrontare la sfida con la realtà di oggi: cercando cosa, quindi, l’umanità? Cercando una via d’uscita? Nuovi valori? Cercando, molto più banalmente, semplice consapevolezza rispetto al dramma che tutti più o meno stiamo vivendo?
Io credo che in questo momento non si cerca niente, se non un po’ di retorica per la sopravvivenza. Credo che noi poeti abbiamo una funzione quasi inimitabile rispetto a ciò. Ho visto poco fa che ai ragazzi per l’esame della maturità gli danno ancora da commentare Ungaretti, che va benissimo, ma è esattamente la traccia che hanno dato alla mia maturità.
Per l’esattezza io ho 77 anni. Alla mia maturità c’era Ungaretti da commentare, e c’era anche Pirandello. Noi siamo esattamente lì. Vuol dire che la nostra cultura istituzionale è confusa e crede che questo millennio, che è il terzo, sia ancora il secondo. E questo errore è tragico, è assolutamente tragico. Credo che a una parte dei poeti sia affidata la funzione di scoprire davvero quello che ci sta accadendo e quello che ci sta accadendo è appunto l’artificializzazione di ogni cosa. Non c’è niente in questo momento che non sia in corso di artificializzazione. E questo ci spinge verso una dannazione, verso una disperazione del quotidiano mentre possiamo capovolgere, come dire, vedere che il sole è un mazzo di fiori, vedere che la terra non è un luogo per cavare i diamanti da portare in Olanda e rivenderli, ma che la terra è anche bella dove si può fare un girotondo con un trallallero e questo lo dobbiamo inventare, lo possiamo inventare. In che modo? Con l’ironia e con l’intelligenza che ci caratterizza.
Ecco, l’ironia, appunto. È un altro dei cuori più intimi del realismo terminale – non perché sia stato inventato dal realismo terminale l’uso dell’ironia nella poesia – però nel realismo terminale quell’effetto di distacco che sorprende il lettore e quindi lo induce alla riflessione avviene ancora di più. Gran parte dei poeti terminali chiudono appunto le loro poesie con uno scuotimento forte. Pensi che questo sia importante, in che misura? E appunto, se poi teniamo conto del feedback che hai ricevuto dai lettori, è esattamente quello che volevi ottenere?
Ma tutto sommato direi proprio di sì. Allora, l’affermazione di definire l’ironia, quella che uso e quella che si usa all’interno del realismo terminale, viene dai critici cinesi. A Pechino ci sono quattro cattedre di italianistica. E viene da lì la segnalazione che mi è stata data di poeta dell’ironia filosofica. Ecco, appunto. In Italia nessuno si era accorto di poter utilizzare questa definizione, che invece è molto utile, molto molto utile perché l’ironia che io ricordo, c’era nel 68, ad esempio. In quegli anni che ho attraversato da ragazzo, si usava molto l’espressione “l’ironia è l’arma della borghesia”. Ecco scoprire che invece l’ironia possa essere uno strumento filosofico cambia completamente il quadro. Lo schermo dove proiettare il film dell’esistenza e mi pare che i risultati comprensivi ci siano anche in noi stessi perché mentre utilizziamo l’ironia come dire a fine storico, a fine sociale, a fine esistenziale, è come un boomerang che ci restituisce un contributo positivo. L’ironia è come boomerang e quindi colpisce noi stessi ma esattamente come il boomerang ci torna in mano, non ci arriva sulla zucca: ritorna in mano per poter essere utilizzato nel lancio successivo.
Ecco torniamo al rapporto tra Poesia e Realtà anche perché da un po’ di anni stiamo attraversando a livello mondiale, quindi tutto il mondo nello stesso momento, passaggi quasi catastrofici. Da una parte la pandemia, dall’altra la guerra. È una realtà che si fa densa, che evidentemente bussa alle porte degli intellettuali, ma soprattutto dei poeti, quindi la poesia potrebbe uscire da quel cono d’ombra del filone, chiamiamolo così, intimista che al di là dei risultati prodotti, sembra sia destinato se non al mutismo a un ruolo di ripiego. La condividi questa analisi e che cosa pensi di aggiungere dal tuo punto di vista?
Io credo che niente del passato va perduto. Noi continueremo a scrivere poesie d’amore, magari non chiamandole d’amore, magari non usando la parola amore perché quando una parola è stata abusata, come nelle canzoni, diventa impronunciabile. Ma questo non vuol dire che dobbiamo utilizzare un giro di parole. Ma se io dico che tra me e lei c’è un’attrazione che neanche, che so, Alessandro Volta era in grado di produrre attraverso una calamita così vigorosa, ecco, dico una cosa che non fa pensare sicuramente alla retorica o al romanticismo.
Si tratta davvero di cambiare il linguaggio per poter affrontare temi che sono eterni. A noi davvero oggi ci stanno rubando il pianeta. E lo stanno rubando per trasformarlo in soldi. E un pianeta di soldi non si può né mangiare né bere. E per giunta questi soldi in cui il pianeta si è trasformato, sono soldi che si accumulano nei forzieri di alcuni pochissimi personaggi che si odiano tra di loro ma si aiutano anche. E questo è, negli ultimi anni, in particolare nella vicenda del Covid, dei vaccini, delle guerre, delle armi: sono quasi la stessa cosa in differenti versioni. Io direi che la guerra è quasi il Covid, il Covid è quasi la guerra. Chi produce i vaccini è forse lo stesso che produce le armi, e chi produce le armi sono coloro che forse producono i vaccini. Come dire, il male e il bene è un po’ come se fossero la stessa cosa. C’è una “designificazione” in corso per cui io ti vendo dei farmaci, o ti vendo rivoltelle per suicidarti, un po’ come se fossero la stessa cosa. E quindi il lunedì sono un beneficatore e il martedì un criminale. Da questa trappola, da questo chiaroscuro, credo che si possa uscire, che non sia impossibile venirne fuori. Certo, i mezzi a disposizione sembrano pochi, ma sono anche folgoranti. Passare la vita davanti agli schermi ci ha esauriti, disarmati, impoveriti. Credo che sia arrivato il tempo di rimbalzare. E la parola scelta giusta e la parola ridotta al minimo – perché per dirne troppe, è come dire nulla – è sempre meglio, e può indicarci una strada. Non dico il silenzio, perché il silenzio non comunica nulla se non poche e rare volte, ma il poco. Ecco, il poco è folgorante e quindi possiamo sostare, sostare nel poco.
Tra i temi che spingono l’orizzonte dell’umanità c’è sicuramente la guerra, ma secondo te potrebbe starci anche questo digitalismo esasperato, questo macchinismo portato all’ennesima potenza? Potrebbe essere questa una materia di riflessione considerando che parliamo di digitalismo attraverso l’intelligenza artificiale, che è uno dei maggiori ostacoli per come è congegnata allo sviluppo della lingua, e del linguaggio e di tutte le arti legate all’uso della parola. Va ricordato che il digitalismo si sta appropriando dell’intero universo simbolico dell’umanità.
Sì, in effetti soprattutto i ragazzi, ma anche noi, anche noi insomma. L’altro giorno ero a un incontro, a Milano, con molta gente e il mio interlocutore, un sociologo comparso per diversi anni in televisione ha quasi sfidato la sala scommettendo sul fatto che tutti avessero un cellulare. Al tavolo due su quattro non avevamo il cellulare. Certo, adesso con l’intelligenza artificiale le tesi di laurea corrono il rischio di essere falsificate, per esempio. Penso anche a quei molti ragazzi che si laureano, perché una laurea oggi non si nega più a nessuno, un po’ come la scuola media dell’obbligo, e magari presentano una tesi di laurea compilata con l’intelligenza artificiale, una tesi che non gli appartiene, per la quale non hanno nulla a che vedere, perché non conoscono nulla delle tradizioni, quasi nulla della storia del Paese in cui si trovano. La laurea diventa così un disvalore, perché non solo non hanno imparato niente, ma quello che imparano è una cosa che gli hanno imposto, ficcato nella testa. E questo è assolutamente negativo. Non dimentichiamo che la produzione dell’intelligenza artificiale varia di giorno in giorno, perché ogni giorno è come se inserissero una flebo, un po’ come al malato in terapia. Quindi l’orizzonte della nostra intelligenza artificiale cambia sempre. Ma queste flebo non sono fatte per migliorare l’umanità, ma per renderla più dipendente. E noi dobbiamo uscire da questo gioco fasullo, diciamo pure grottesco, e anche tragico. E questo è possibile, è assolutamente possibile. Un mio amico che è stato eletto al Parlamento europeo, come indipendente, una lista di un partito, sapendo che rischia persino la sua sicurezza personale, ha dichiarato che, come prima cosa, lui proporrà lo scioglimento della NATO per sostituirla con un’alleanza fra pari, non tra dispari, dove c’è uno che conta e l’altro niente come oggi, ma fra pari, e che sia davvero una organizzazione di difesa e non di aggressione. Ora per dire queste cose, insomma, si rischia di fare la fine di Aldo Moro, o di Mattei. Questo per dire che se uno vuole delle possibilità ancora ci sono. Non tutti tacciono. Ci sono delle possibilità. Guai a pensare che non ci sono. Certo, tra il 2000 e il 2001, non è solo passata la notte di Capodanno, è passato un millennio. E la nostra poesia continua a vivere, a girare, in un mondo che non c’è più. E continua a sviluppare gli anticorpi. Perché gli anticorpi di oggi sono completamente diversi da quelli del millennio precedente.
Hai parlato della Cina, dell’attenzione di quel mondo verso la poesia italiana. Vorrei ricordare, per esempio, la grande cultura che c’è lì di Dante, nel segno di una poesia che sa davvero superare i confini. Oggi questa dimensione di mondialità viene coltivata in poche zone del mondo. E comunque non in Italia, in cui di tanto in tanto si è affacciata. Una prospettiva, quella mondialista, che per la poesia è sempre più necessaria.
Sì, oggi ci sono un paio di organizzazioni mondiali che cercano di mettere insieme la poesia del mondo, il WPM e l’altro, il POP, che hanno tra di loro una certa ostilità in questo momento. L’altro giorno, vivendo in una cittadina qui alle porte di Milano che ha una storia plurisecolare del concetto di perdono, mi sembra che sia una parola espulsa abbastanza dalle religioni in guerra tra di loro; e avendo io recuperato questo termine, perché mi piace proprio qui far venire qui gente dall’Est e dall’Ovest dall’Oriente e dall’Occidente mi sono sentito dire che se sostengo questo non posso rappresentare questo movimento o quell’altro. Ho chiesto subito di spiegarmi perché non potrei e non ho avuto risposta. Li incalzerò ancora, perché magari adesso hanno da fare, ma sono in attesa di questa risposta. Questo per dire che i rapporti internazionali non sono affatto semplici e non vorrei che fossero rapporti di censura, questo sarebbe molto male. E torno un attimo invece a parlare di poesia mondiale, parlando delle due grandi scuole di poesia italiana: noi abbiamo le due linee, che sono state la poesia dantesca e la poesia petrarchesca. La poesia petrarchesca, che è quella vincente, ha convogliato, come dire, un’estetica del linguaggio. La poesia di Dante, che è quella perdente, ha convogliato i saperi in maniera che la poesia possa diventare il luogo del confronto e dell’elaborazione dei contenuti e non solo il tema della bellezza del linguaggio. Oggi nella situazione, come dire, cruenta nella quale ci troviamo in cui non riusciamo più a distinguere un’arma che spara da un vaccino, come se avessero la stessa valenza, abbiamo bisogno di tornare sempre di più su una linea dantesca. È fondamentale per uscire da questo acquitrino in cui ci troviamo dove la bellezza è un belletto. Bisogna prima lavare la faccia per trovare la bellezza.
Quindi una poesia dei contenuti, dei saperi come tu hai definito, che effettivamente in questo momento potrebbero unificare le varie culture e quindi creare quei presupposti per un approdo dell’umanità a nuovi orizzonti, superando quei confini che del resto sembrano un po’ asincroni rispetto ai problemi reali e alle relative opportunità. Ricordo sempre la grande occasione che il mondo sta attraversando di milioni di persone in movimento. Ognuna di loro porta valori e culture in un’ottica e in una dinamica di scambio reale con altre parole e altre culture. Cosa pensi?
Ma credo sì, queste centinaia di milioni che sono in continuo movimento non sono altro che la certificazione del fatto che il mondo si sta totalmente artificializzando e quindi bisogna andare a cercare una parte dove lo sia ancora un po’ meno per sopravvivere. Ora, bisogna avere la consapevolezza di tutto questo, cioè dall’artificialità, e il realismo terminale va in questa direzione. È il primo mattoncino per comunicare tra di noi. Alle volte abbiamo dei meccanismi quasi pietosi di sopravvivenza della poesia. È positivo che si faccia poesia ovunque, con chiunque, ma occorre che ci sia una comunicazione significativa e non solo un piccolo sfogo personale legittimo per altro, assolutamente legittimo, che potrebbe essere anche bello, anche carino, tra virgolette, ma che non è necessario e sufficiente per cambiare l’epocalità nella quale siamo. Che cosa occorre fare? Occorre semplificare molto il linguaggio e anche semplificare molto la quantità di parole. Io vado sempre dicendo che quando il lettore arriva al 12° verso chiude il libro e va a bersi un caffè. E questo perché la capacità di concentrazione è minima, è molto ridotta, ma non è detto che non sia proprio per questo anche più esplosiva. Io sono, come dire, fiducioso che in questo travaglio in corso, in questa congerie, in questa frana, come se il mondo stesse, appunto, franando, possiamo però intonare un canto, un canto molto semplice. Sono stato al Salone del libro di Torino, dove tutto era quantità: libri, ospiti, occasioni. Ho avuto l’impressione che tutti leggono niente. Piccole lobby che si dipingono di mondo ma che mondo non sono. Dobbiamo quindi ridare credibilità, attraverso la lapidarietà, l’ironia e il pensiero dantesco, cioè la confluenza dei saperi e non l’estetica monotematica.
Il percorso del realismo terminale ha incrociato quello di una disciplina lontana dalla poesia, l’economia, grazie all’incontro con Pierangelo Dacrema, autore del saggio dal titolo “Squallore”, che parla del vicolo cieco in cui si sta ficcando questa economia non più in grado di produrre “valori”. Che esiti sei riuscito a fissare?
Questo confronto tra poesia ed economia è significativo e lusinghiero, con una partecipazione folta riscontrata proprio ultimamente nel corso di una presentazione del testo a Milano, condotta da Sara Calderoni, a cui ha partecipato Renato Mannheimer. Dirigo la collana di poesia “Argani” per l’editore Mursia e quel libro è entrato nella collana di poesia. Ho creato apposta una soluzione bastarda, necessaria e indispensabile per poter affrontare il mondo nuovo in cui ci stiamo trovando. Già Heidegger cercava una soluzione nel suo percorso filosofico attingendo alla poesia, riprendendo Holderlin. Questo nesso viene utilizzato da Dacrema, economista, attingendo anche al Realismo terminale. Sono esperimenti in corso, molto fattivi, significativi. Ci saranno altri incontri, altri crossing over tra queste due discipline.
Un’ultima domanda. Cosa ne pensi dell’idea di rimettere in circolo una poesia che venga portata nelle piazze, davanti a un pubblico ampio, magari convocata per un evento di dimensioni importanti? Mi riferisco a grandi organizzazioni che creano occasioni di incontri e raduni o, addirittura commemorazioni.
La grossa irrilevanza della poesia in contesti come quelli che descrivi è che si è cacciata in una dinamica in cui devono sopravvivere solo alcune nicchie, alcune squadre editoriali. Sembra una vitalità ma è la vitalità delle case di riposo. Credo che la poesia per tenere in piedi i propri vizi si sia rinchiusa in un angolo sempre più marginale. E anche un linguaggio sempre meno centrale per chi ha bisogno di non annegare. La presenza della poesia in momenti come questi potrebbe riprendere proprio quel profilo dantesco di cui ho parlato prima perché sarebbe costretta a stare sui contenuti e i saperi. Anziché avere un paracadute che cade all’ingiù potrebbe essere un elicottero che cade all’insù.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.
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