Nel 1991, appena finita la Prima guerra del Golfo, Giovanni Paolo II afferma che la fede in Dio genera la pace tra gli uomini, e perciò «non ci sono guerre di religione in corso e non ci possono essere guerre sante». E, in occasione della Seconda guerra del Golfo del 2003, ha più volte ripetuto che le religioni non possono e non debbono essere usate per giustificare le guerre.
Ma già dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, il tema della pace era diventato centrale nell’insegnamento del Magistero. Particolare solennità ha la dichiarazione approvata nel 1965 dai vescovi riuniti nel concilio Vaticano II: «Facendo proprie le condanne della guerra totale enunciate dagli ultimi pontefici, il Concilio dichiara che ogni azione di guerra che tende indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni, con i loro abitanti, è un crimine contro Dio e contro la stessa umanità, e deve essere condannata con fermezza e senza esitazione» (Gaudium et spes).
Ma né la dichiarazione conciliare, né l’enciclica sulla pace di Giovanni XXIII, né l’invocazione ‘Mai più guerra!’ di Paolo VI nel corso della visita all’ONU, né i ripetuti interventi di Giovanni Paolo II riescono ad impedire le guerre. E anche oggi non bastano certo i costanti appelli di papa Francesco – Ucraina e Gaza sono i casi al centro dell’attenzione mondiale – per porre fine ai conflitti e avviare negoziati di pace.
Secondo le statistiche più accreditate, dal 1945 in poi, a causa dei vari conflitti esistenti nel mondo, muoiono dai tre ai quattro milioni di persone all’anno: pare, dunque, che le parole dei papi abbiano effetti solo sul piano mediatico ma siano irrilevanti persino per le cancellerie dei Paesi di tradizione cattolica. Non è esagerato dire che esse richiamano alla memoria le grida di cui parla Manzoni ne I promessi sposi: disposizioni emesse dall’autorità con linguaggio altisonante, che annunciavano pene severissime per coloro che non le avessero rispettate, ma che poi, nella realtà, non venivano applicate.
A questo punto, è inevitabile chiedersi: perché queste parole di condanna della guerra risultano così inefficaci? E poi: cosa dovrebbe fare oggi la Chiesa cattolica – perché solo di questa ci occupiamo – per contrastare effettivamente il continuo ricorso alla guerra?
La Bibbia e la guerra
La risposta alla prima domanda potrebbe essere la seguente: è poco credibile la condanna della guerra da parte di un’autorità che considera la Bibbia un libro sacro il quale presenta un Dio degli eserciti che incita il suo popolo alla guerra contro i nemici, e che, sulla base di quel testo, per secoli ha giustificato la guerra.
In effetti, quello che i cristiani chiamano Primo o Antico Testamento presenta Jahvé impegnato in una guerra senza quartiere per liberare il suo popolo dalla schiavitù. Le famose 10 piaghe colpiscono l’intera popolazione egiziana, devastano i raccolti, provocano epidemie, ulcere e pustole, culminando nell’uccisione dei primogeniti del nemico. È proprio quest’ultimo evento che il popolo eletto celebra nella festa di Pasqua, termine che deriva dall’ebraico pesaḥ, che significa passaggio. Di che passaggio si tratti lo chiarisce il libro dell’Esodo. Qui si legge che Jahvé ordina agli israeliti di segnare col sangue di un agnello gli stipiti delle loro porte, in modo che i loro primogeniti siano salvi quando egli passerà per sterminare – un’immagine un po’ crudele del divino! – i primogeniti degli egiziani:
«In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Esodo 12,12-14).
La conquista della Terra Promessa, poi, viene presentata nella Bibbia proprio come una guerra santa, che richiede, su ordine di Jahvé, il totale sterminio dei nemici. Tra le tante citazioni possibili, mi limito alla seguente:
«Nelle città [che si trovano nel territorio di Canaan] di questi popoli che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun vivente, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Ittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato di fare, perché essi non v’insegnino a commettere tutti gli abomini che fanno per i loro dèi e voi non pecchiate contro il Signore, vostro Dio» (Deuteronomio 20,16-18).
Anche nei libri dei profeti non mancano incitamenti alla guerra, e quando annunciano la pace, come Isaia, questa è prevista solo in un lontano futuro, e sarà la pace del vincitore. Essa farà appunto seguito alla vittoria finale del popolo di Jahvé:
«Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. […] Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno. Gli idoli spariranno del tutto» (Isaia 2,2-4.17-18).
Sin qui nulla di strano: gli ebrei, come i popoli vicini, attribuivano le loro guerre vittoriose all’intervento del proprio dio. Il problema è piuttosto: ma davvero occorre prendere alla lettera, come rivelazione divina, le parole attribuite al Dio degli eserciti? Probabilmente è proprio l’idea che questi testi siano ispirati, che ogni loro pagina sia Parola del Signore, che ha causato una lettura errata di un libro, che forse è umano, e talvolta troppo umano.
Se passiamo, poi, al Secondo Testamento, sappiamo che non è facile risalire dai vangeli al Gesù storico. Quel che è certo è che i ricordi conservati di lui mostrano una certa ambiguità – anche se tende a prevalere la solidarietà con l’altro – tanto che un biblista come Giuseppe Barbaglio può intitolare Amore e violenza. Il Dio bifronte un suo libro del 2006. Troviamo, infatti, da una parte l’invito ad amare il prossimo, e perfino i nemici (“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”, Matteo 5,44), mentre dall’altra Gesù dice ai discepoli: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una” (Luca 22,36). Si capisce perciò che, col variare delle epoche, sarà usata del vangelo, a seconda delle circostanze, ora una pagina ora l’altra.
L’Europa cristiana e la guerra
Nei primi secoli della storia cristiana, infatti, non mancano gli scrittori che, privilegiando i testi biblici che esaltano la pace, arrivano a una condanna assoluta della guerra, che ha un ruolo di primo piano nell’impero romano. Anche qui non c’è pietà per i nemici: i vincitori, sostenuti dai loro dèi, hanno il diritto di ridurre una popolazione in schiavitù o di massacrarla se non si è subito arresa. Si capisce, quindi, che molti cristiani rifiutassero di partecipare a tali guerre, ritenute totalmente incompatibili col messaggio evangelico. Agli inizi del quarto secolo, per esempio, Lattanzio (250-325) scrive: «non è permesso al giusto portare armi… Non esiste eccezione al comandamento divino: uccidere è sempre un crimine» (De divina institutione, VI, 20).
Ma la diffidenza nei confronti della guerra sembra venir meno già pochi anni dopo quando, con Costantino, l’impero comincia a stabilire buoni rapporti con la Chiesa: la croce fa la sua comparsa sulle insegne dell’esercito, le guerre di Costantino sono viste come guerre di Dio e le vittorie sui nemici vengono attribuite al Dio dei cristiani come in passato erano attribuite agli dèi pagani. L’esercito imperiale cristiano lotta ormai per la salvezza dell’Impero e per il Vangelo.
Così, agli inizi del quinto secolo, Agostino (354-430) troverà nelle guerre narrate nella Bibbia la giustificazione del ricorso alla violenza nei confronti dei nemici: «non ci si stupirà né si avrà orrore delle guerre condotte da Mosè, quando si consideri che egli non ha fatto che seguire gli ordini di Dio. [...] Cosa c’è di biasimevole nella guerra? L’uccidere uomini che un giorno comunque moriranno, per sottomettere quelli che in seguito vivranno in pace? Un biasimo del genere sarebbe da pusillanimi, non da uomini religiosi» (Contra Faustum, 74). Infatti, se la Chiesa ammette il ricorso alle armi, lo fa per amore: «Vi è una persecuzione ingiusta, che gli empi conducono contro la Chiesa di Cristo, e vi è una persecuzione giusta, che la Chiesa conduce contro gli empi […]. La Chiesa perseguita per amore, gli empi per crudeltà» (Lettera 185). Perciò, se il soldato obbedisce agli ordini, non commette peccato «il soldato che ne uccide un altro obbedendo al potere legittimo non è, secondo le leggi civili, colpevole d’omicidio: non facendolo, sarebbe colpevole di disobbedienza e di spregio dell’autorità; […]. Dunque è punito colui che agisce senza averne avuto l’ordine e chi, avendolo ricevuto, non obbedisce» (De civitate Dei, I, 26).
“Deus vult” sarà, poi, il grido che accompagnerà i cavalieri che, allo scopo di liberare i Luoghi santi strappando quelle terre agli infedeli, partono per la prima crociata, bandita alla fine del 1000 da Urbano II (1088-1099). E nel secolo successivo – quando addirittura vengono fondati ordini monastici che hanno lo scopo di combattere – l’esaltazione dello spargimento di sangue e della guerra, anche preventiva, contro gli infedeli raggiungerà punte di agghiacciante fanatismo negli scritti di un uomo come Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), che la Chiesa ha proclamato santo:
«la morte inflitta o ricevuta in nome di Cristo non ha nulla di criminale, e anzi merita una grande gloria. Infatti, da un lato uccidere un nemico per Cristo è guadagnarlo a Cristo, che riceve con misericordia la morte di un suo nemico come una riparazione, e dall’altro Egli dona se stesso al suo soldato con ancora maggiore benignità, come consolazione. [...] Uccidere un malfattore non è omicidio, ma oserei dire ‘malicidio’. Si deve guardare al soldato propriamente come difensore dei cristiani e vendicatore delegato da Cristo nei riguardi di coloro che commettono il male. […] La morte del pagano è una gloria per il cristiano, perché in essa Cristo è glorificato; la morte del cristiano mostra la generosità del Sovrano, perché il soldato è elevato di rango e decorato. […] Egli non teme la morte, dal momento che desidera morire: cosa potrebbe temere infatti, vivo o morto, dal momento che ‘vivere è Cristo e il morire un guadano’ (Filippesi 1,21)?» (In lode della nuova milizia).
E la possibilità di trasformare in martiri dei peccatori che, dopo avere confessato le loro colpe, muoiono combattendo appare a Bernardo un’idea semplicemente divina: «Egli si degna di chiamare a servirlo, come fossero colmi di giustizia, omicidi e ladri, spergiuri e adulteri, uomini rotti a ogni sorta di crimine. Non è forse un’invenzione mirabile, che Egli solo poteva concepire?» (Lettera 363).
Ancora alla metà del Quattrocento il magistero pontificio giustificherà le guerre di conquista di quelle terre che, essendo abitate da selvaggi, potevano essere considerate, dal punto di vista giuridico, res nullius. Nel 1452, per esempio, con la Bolla Dum Diversas il papa Niccolò V, benedice, al fine di diffondere la vera fede, l’esplorazione e la conquista portoghese nelle coste africane dell’Atlantico: «Con la nostra autorità apostolica e con il consenso dei presenti concediamo» a te e ai re del Portogallo tuoi successori, la facoltà di «invadere, conquistare, espugnare e soggiogare i Saraceni, i pagani e gli altri infedeli, e ogni nemico di Cristo”, e di “ridurre in perpetua schiavitù le loro persone».
Mentre assolutamente inascoltate restano le voci come quella di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), che considera la guerra «il male più atroce e pernicioso, che da solo tutti li comprende e li supera» (Dulce bellum inexpertis, 1515), l’Europa, dopo la Riforma di Lutero, è insanguinata per secoli dalle guerre di religione. E quando, alla metà del Seicento, diventa evidente che l’unità religiosa non si potrà ottenere con la guerra, i sovrani cercano altre giustificazioni per la loro politica espansionistica, servendosi tuttavia della religione per giustificare agli occhi dei sudditi il loro buon diritto ad aggredire i nemici: in effetti le lettere pastorali dei vescovi, le prediche dei parroci, i Te Deum che regolarmente accompagnano le vittorie militari sono gli strumenti di comunicazione di massa dell’epoca, e quindi efficacissimi per rafforzare l’obbedienza dei sudditi con l’assicurazione che il loro sovrano combatte per la causa di Dio.
Così anche nelle guerre tra Stati cattolici le Chiese nazionali si schierano sempre a fianco del re, che viene acclamato come un nuovo David dal proprio clero e bollato come un Anticristo dal clero della nazione vicina. Ma se è apparsa disorientata e incapace di assumere una posizione unitaria di fronte alle guerre tra gli Stati cattolici, la gerarchia ritrova la sua compattezza alla fine del Settecento nella condanna della violenza rivoluzionaria. Contro la Francia e i suoi detestabili princìpi di libertà e uguaglianza, la sua lotta alla religione e la sua rivolta contro il sovrano legittimo, il papa Pio VI chiede infatti all’imperatore d’Austria Francesco II di essere «il promotore e il capo di una coalizione necessaria per difendere la causa di Dio, vostra propria causa, e per farla trionfare con l’unione delle forze» (Lettera Post peractam, 1792).
Nell’età della Restaurazione, l’alleanza con i sovrani, riportati sul trono dopo la sconfitta di Napoleone, fa ovviamente della Chiesa il baluardo dell’immobilismo e della controrivoluzione. Ma la progressiva affermazione del sentimento nazionale e delle idee liberali, democratiche e socialiste è inarrestabile. Particolarmente difficile è per il papa Pio IX prendere posizione, per esempio, di fronte alle guerre di indipendenza. Nel 1848 autorizza la partenza di volontari dello Stato pontificio per combattere, assieme ai Piemontesi, contro l’Austria, e il generale Durando, che li comanda, si rivolge loro così: questa non è «solo una guerra nazionale, ma anche una guerra altamente cristiana. Soldati, ho dunque deciso che vi parteciperete portando la croce di Cristo sulle vostre uniformi […]. Con essa e per essa noi saremo vincitori. Che il nostro grido sia: Dio lo vuole!». Ma nell’aprile del 1849 il papa ritira la sua partecipazione e, in un’allocuzione al Concistoro, giustifica il suo voltafaccia ricordando che il pontefice ha «la missione di abbracciare con uguale tenerezza del nostro paterno amore tutti i popoli».
Nel Novecento, ormai perduto il potere temporale, il Vaticano si sforza di assumere con scarsi risultati un ruolo super partes, impegnandosi nella difesa dei princìpi morali e del valore della pace. Ma, come risulta evidente nel corso della Prima guerra mondiale, il clero delle diverse nazioni belligeranti non segue le direttive di Benedetto XV (1914-1922), che invoca la fine del conflitto, ma si identifica con gli interessi del proprio governo e prega per la vittoria militare del proprio Paese.
Se passiamo ora alla seconda domanda – cosa potrebbe fare oggi la Chiesa cattolica per contrastare effettivamente il continuo ricorso alla guerra – devo dire che, a mio parere, il cammino è piuttosto arduo. Ritengo, infatti, che bisognerebbe andare ben oltre gli appelli alla pace e le iniziative diplomatiche: occorrerebbe dichiarare apertamente che i conflitti si devono risolvere non con la guerra ma col ricorso a metodi di lotta non violenti. Per conseguenza, l’autorità ecclesiastica dovrebbe esortare i fedeli ad opporsi a quei partiti e a quei governi che promuovono il ricorso alle armi, sostenendo con solide argomentazioni che la guerra è qualcosa di disumano, oltre che contraria alla parte oggettivamente più valida del messaggio evangelico.
E sia per la gerarchia che per il popolo dei credenti ce ne sarebbero iniziative da prendere! Per esempio: ritirare i propri risparmi dalle banche che investono nel commercio delle armi; rifiutarsi di lavorare nelle fabbriche che le producono; abolire la figura del cappellano militare; promuovere le diverse forme di disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza e la difesa popolare nonviolenta…
Fare ciò significherebbe, evidentemente, porre fine alle buone relazioni con chi gestisce il potere politico ed economico, con la conseguente perdita dei benefici che da esse derivano. Ma è l’autorità ecclesiastica disposta a rompere quell’alleanza fra il trono e l’altare, che dura dai tempi di Costantino?
E, ancor prima, sarebbe necessario abbandonare l’idea di un magistero che custodisce una rivelazione divina, riconoscere che la Bibbia non è un testo da accettare per intero, e ammettere che per secoli la Chiesa romana si è assunta un’enorme responsabilità incoraggiando il ricorso alla guerra. Ma sappiamo che non è facile riconoscere i propri errori, specialmente quando si è dichiarato di essere infallibili!
E infatti le belle parole convivono nell’insegnamento pontificio con le vecchie posizioni. Basti pensare al fatto che il Catechismo della Chiesa Cattolica, del 1997, riafferma la teoria tradizionale della guerra giusta e conclude che «la valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune». Ma non sappiamo ormai da secoli che sulla base di questi princìpi nessun capo di Stato ha difficoltà a scatenare un nuovo conflitto?
E allora, in conclusione, si capisce benissimo perché le dichiarazioni dei pontefici abbiano l’effetto delle grida di manzoniana memoria! Come può essere credibile la condanna della guerra da parte di un’istituzione che per secoli l’ha giustificata e che non è disposta a rompere col suo passato? Ed è chiaro pure quali costose rinunce alla connivenza con il potere, e quali radicali cambiamenti rispetto alla propria storia, il Vaticano dovrebbe mettere in atto per diventare una vera forza di pace.
Cambiamenti e rinunce che attualmente non sono in agenda, e infatti permangono i buoni rapporti col potere: basti pensare alle parole pronunciate da papa Francesco poco dopo l’insediamento dell’attuale governo, tra l’altro guidato da un partito legato a quello fascista che, con la firma dei Patti Lateranensi nel 1929, portò alla Conciliazione del Vaticano con lo Stato italiano. Sul volo di ritorno (6/11/2022) dal viaggio in Bahrein, interrogato sull’impressione che aveva del nuovo governo italiano, Francesco disse:
«Il nuovo governo incomincia adesso, io sono qui: gli auguro il meglio. Io sempre auguro il meglio ad un governo perché il governo è per tutti e gli auguro il meglio perché possa portare l’Italia avanti, e a tutti gli altri che sono contrari al partito vincitore [auguro] che collaborino con la criticità, con l’aiuto, ma un governo di collaborazione, non un governo dove ti muovono il viso, ti fanno cadere se non ti piace una cosa o l’altra. […] Finiamola con questi scherzi».
E ottimi sono i rapporti con gli Stati che oggi armano Ucraina e Israele, e non sono certo compromessi dalle parole di pace del papa. Consapevoli che esse sono innocue, lo hanno infatti invitato a partecipare al G7, che a giugno 2024 ha riunito in Puglia i Capi di Stato e di Governo delle 7 nazioni più industrializzate del mondo: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti. E qui Francesco ha trattato il tema della riunione, l’Intelligenza Artificiale, accolto con tutti gli onori e seduto al tavolo tra Meloni e Macron!
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
______________________________________________________________
Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venticinque anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su “Aquinas”, “Rivista internazionale di filosofia”, “Critica liberale”, “Il Tetto”, “Libero pensiero”.
______________________________________________________________