di Antonietta Iolanda Lima [*]
Ancor prima della raffinatezza intellettuale di Luciana era l’intera sua figura a destare immediato interesse. Una esilità singolare, di grande eleganza. Era bella Luciana con quel suo volto di un ovale allungato che sembrava aver preso vita venendo fuori da un dipinto di Modì. E poi quegli occhi, grandi e di un marrone dorato e la singolare determinatezza che da tutto emanava.
Una dama dell’architettura a Palermo è il titolo che Francesco Maggio dà ad uno scritto biografico. E gli dò ragione avendone condiviso per anni un quotidiano forgiato dallo studio, dalla ricerca, e dalla passione.
Quando scrive La Città-paese di Sicilia è il 1964. Prossima ai trent’anni, laureata da cinque (Palermo, febbraio 1936 – gennaio 1978) è assistente ordinario, nella Facoltà di Architettura di Palermo, alla Cattedra di Urbanistica di Edoardo Caracciolo. Luciana, che gli dedica un saggio, lo riconosce suo ‘maestro’. Ne condivide il modo di vedere plasmato dalla geniale prepotenza zeviana e dall’agire coraggioso che impregna la pianificazione partecipata di Danilo Dolci.
La fine della guerra ha lasciato una Sicilia estremamente povera. Orizzonte comune di architetti e urbanisti è la ricerca del nuovo. Pagano appena un decennio prima ha aperto una strada con la mostra sull’architettura contadina.
Perché Luciana sposta il suo interesse su questa tematica? Gli spiriti più avvertiti la percorrono. Tra essi soprattutto due docenti della Facoltà di Architettura di Palermo: Luigi Epifanio che nel 1939 scrive un libro sull’architettura rustica dell’Isola esprimendo la sensibilità estetica di essa e anche di se stesso attraverso delicati disegni acquarellati; Edoardo Caracciolo il cui elaborare e agire è nutrito dall’intreccio dei principi e dei valori dell’Apao – Associazione dell’Architettura Organica – di Bruno Zevi e della pianificazione dal basso partecipata di Danilo Dolci.
Ma è lo spirito di quel tempo, quando si pensi all’intenso movimento portato avanti da Francesco Renda di origine contadina, leader dei medesimi e presto professore universitario di Storia, senatore e più volte parlamentare. Li accomuna la visione olistica. Luciana Natoli si unisce ad essi traendone linfa.
Ma ancor prima del suo riconoscersi nel fare di Caracciolo, sul quale scrive nel ‘64 un saggio definendolo primo urbanista di Sicilia, chi è Luciana, e quale la sua prima formazione?
A Palermo, il suo ingresso nel mondo, il 20 febbraio del 1936. Il primo alimento, come è noto a tutti, viene dall’ambiente in cui si vive: un impiegato di banca il padre, casalinga la madre, insieme medi proprietari e originari di Messina entrambi. Sfollati durante la guerra, la vita agreste della campagna entra nel suo quotidiano introducendo in lei semi, allora inconsapevoli, di quello che poi diverrà istanza di studio del mondo rurale e contadino.
Già da piccola ha una spiccata personalità. Frequenta a malincuore gli anni delle scuole elementari al Sacro Cuore, ma poi si ribella all’idea di continuare in una scuola privata come avrebbe voluto la famiglia cattolica e tradizionale.
Da quanto mi diceva nelle nostre ‘umane confidenze’ fervore culturale e curiosità intellettuale animavano già il suo modo di pensare e immaginare. Sollecitazioni e stimoli è possibile le venissero dalla madre che pur non avendo studiato era una assidua lettrice, e i libri divennero presto compagni della sua infanzia mantenendosi tali nel succedere degli anni.
«Abitavamo – mi dice Sabina, una delle due sue figlie – in via del Celso in una grande casa con la nonna e lo zio avvocato scapolo». Faceva parte questa casa al secondo piano e non al nobile del trecentesco Palazzo Galletti dei Marchesi di Santamarina la cui area era prospiciente i Quattro Canti. Il luogo era quindi nel cuore del centro storico, alle spalle di corso Vittorio Emanuele, vicino ai quattro canti.
La spazialità e la disposizione planimetrica di Piazza Gran Cancelliere e la peculiarità architettonica di San Paolino dei giardinieri oggi moschea, penso abbiano stimolato il ‘saper vedere’ di Luciana arricchendone la sensibilità estetica che in lei già da tempo aveva trovato casa. Contribuirà ad accentuarla Gemma Barcellona, sua insegnante d’arte al Liceo Garibaldi, dove gli studi classici diventano ‘suo pane’ quotidiano. Lì ci sono anch’io, sicché, avendo cinque anni di differenza per età , quando lei frequenta il terzo liceo, io, nel ‘50, sono al primo ginnasio. Non so se oltre Giusto Monaco ebbe come insegnante di italiano Nicolò Caputo, un autentico ‘Maestro’ che donò ai suoi allievi con la passione l’amore per la poesia e di poesia, a quanto mi dice Sabina Natoli, erano intrise le lettere scritte durante le vacanze estive.
L’iscrizione ad Architettura si conclude con la lode della tesi di laurea, uno studio museografico nella zona archeologica di Segesta, che si collega a un tema richiesto dalla Soprintendenza e dall’Assessorato al Turismo della Regione Siciliana, al fine di inserirlo nei programmi di attività per la realizzazione di interventi nelle zone archeologiche dell’isola.
Nella relazione di progetto Luciana Natoli indica come riferimenti l’Auditorium per il Massachussets Institute of Technology, Cambridge USA, progettato da Eero Saarinen & Associati nel 1954-55, il Palais C.N.I.T., a Parigi, progettato da Camelot, de Mailly e Zherfuss nel 1957; l’Aeroporto Internazionale di Lambert-St Louis, progettato nel 1954 da Hellmuth, Yamasaki e Leinweber. Palesi questi rimandi nelle volumetrie; in pianta Mies e Wright assimilati e reinterpretati in una libera e polidirezionata articolazioni di tre forme: un quadrato ruotato, un triangolo, un rettangolo.
Le Facoltà non si sono ancora istituzionalizzate. La giovanissima università di Palermo non è ancora schiava degli Icar, creatori di muri tra i diversi saperi. Per questo e penso anche per una sua genetica propensione è trasversale l’indagare di Luciana.
Urbanistica e architettura viaggiano insieme. Dà quindi Luciana stesso valore alle diverse scale progettuali. All’afflato verso il conoscere, con intensa energia, si unisce l’interesse verso lo studio dell’urbanistica che si materializza nella difesa, salvaguardia e valorizzazione dei centri storici – allora denominatore comune delle punte più avanzate di studiosi. Un impegno che diventa sostanza di vita il suo e che vertebra il fare: nell’insegnamento, nella ricerca, nello scrivere, in mirabile equilibrio con il suo essere madre
Come alcuni colleghi nei quali si riconosce per principi e valori entra dentro le problematiche urbanistiche di Palermo e del suo piano regolatore, sentendo la necessità di far sentire la sua voce nel dibattito generato dalle molte carenze del Piano Regolatore – venticinque stesure e solo nel 1962 l’approvazione . Fonda così nel 1961 con Antonio Bonafede, Benedetto Colajanni, Umberto Di Cristina, Gianni Pirrone, Salvatore Prescia e Nino Vicari, il GAUS (Gruppo per l’Architettura e l’Urbanistica Siciliana).
Pressoché contemporanea la partecipazione di Luciana ai concorsi per il Piano Regolatore Generale di Milazzo e a quello del Comune di Santo Stefano di Camastra.
Durante la fase di ideazione e progettazione di una villa a Mondello, il concepire unitariamente urbanistica e architettura si traduce in un lavoro di coordinamento tra i corsi di Composizione Architettonica e Composizione Urbanistica che, estendendosi poi al corso di architettura degli interni, avrà un lungo tragitto dall’ottobre del 1963 al 1966 anni in cui progetterà i Piani Regolatori Generali di Canicattì̀, Castelbuono, Termini Imerese e vincerà, ex aequo, il concorso nazionale per quello di Taormina.
Siamo così giunti, assecondando uno snodarsi diacronico, a conoscere sia pure per piccoli ma significativi ‘brandelli’, chi è Luciana, – già dal ‘57 sposata a Umberto Di Cristina, nel momento in cui concentra tutta la sua attenzione alla lettura profonda dei tratti e delle caratteristiche del paesaggio costruito, nelle sue componenti antropologiche e simboliche. In convergenza con gli interessi di Edoardo Caracciolo, interpreta lo spirito del tempo il cui seme generativo rimanda alla mostra della Architettura rurale italiana allestita alla Triennale di Milano, la VI, nel 1936, da Giuseppe Pagano con la collaborazione di Guarniero Daniel.
Prende corpo in un libro. Lo chiama Città-paese di Sicilia Forma e linguaggio dell’habitat contadino e lo pubblica nell’ottobre del 1965. In una fase di disorientamento, ma già aperta alla ricerca, il suo guardare in profondità, segnato dal concepire ineludibile il valore della dimensione sociale, la spinge ad indagare l’agire, spesso inconsapevolmente permeato d’arte, del mondo contadino, restituendo di esso, come aveva ben detto Pagano nel 1936, un «immenso dizionario della logica costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie plastiche spiegabili con evidenti legami col suolo, col clima, con l’economia e con la tecnica».
Lo stesso anno sarà premiata dall’INARCH regionale per il progetto e la realizzazione del palazzo in via Umberto della Chiesa che progetta con Umberto Di Cristina, in cui riferimenti palesi sono ‘nel dettaglio che non è dettaglio’ il modo con cui Carlo Scarpa rappresentava gli elementi dell’insieme, anticipati da quelli della vicina villa Bordonaro. Ma altra la spazialità volumetrica complessiva.
Entrando nella specificità del libro su cui riflette questo mio ragionare, inizio dai due contenuti del titolo. Sul perché, città-paese cui segue forma e linguaggio dell’habitat contadino. Di convincente chiarezza, del primo, la risposta di Luciana:
«La cultura di questi centri siciliani è, ancora, e nonostante che la dimensione demografica assuma in certi casi una notevole consistenza, la cultura del villaggio; costituita di realtà primigenie, e di esperienze e di rapporti diretti; di una misura del lavoro e dell’ozio, dello stare insieme e dell’appartarsi, immobile nel tempo e tuttavia scandita da un continuo mutuarsi di valori. Ma è insieme la cultura della polis, fatta di leggi non scritte, di tradizioni inviolate, di un senso corale dei bisogni, della coscienza profonda di appartenere ad una comunità che si regge sull’equilibrio di tutte le sue parti, e che non si risolve nell’ambito di una cinta muraria, ma che ha bisogno, per essere, di una dimensione più ampia, di uno spazio vitale da cui trarre alimento».
Del secondo- ovvero la definizione di contadino del modo di esprimersi della comunità insediata, forgiando aggregazioni di forme, volumi e spazialità.
Con uno sguardo che va oltre la pluridisciplinarietà, incipit del libro sono quattordici pagine appena ma così dense di contenuto e di corrispondenza con le specificità morfologiche e antropologiche dei quattro urbani scelti come esemplificazione di un universo contadino permeato da unicità, differenze e caratteristiche comuni, da porsi come sintesi, interpretativa, notevole per la sapienza della scrittura, del dire dell’intero volume costituito dallo scandaglio della genesi e delle dinamiche, come già sottolineato, di quattro città evidenziandone i caratteri, nel loro fondersi, spesso mirabile anche se non pianificato, del costruito dell’uomo e di quello della natura.
Le città sono Sciacca, Termini Imerese, S. Stefano di Camastra e Randazzo. Perché queste e non altre? Città diverse per storia, per il farsi della loro morfologia di cui Luciana di ciascuna esemplifica, pur con le differenze, i tratti comuni di insediamenti appartenenti a province diverse.
Emerge da una indagine che nulla trascura e che fa delle immagini una sorta di racconto illustrato l’unicum irriproducibile di ciascun urbano che si caratterizza per propri e peculiari elementi; ed è, contemporaneamente,
«il frammento di un contesto entro il quale le singole specificazioni si compongono per lumeggiare quella particolare continuità, attraverso la quale si svolge tutta l’esperienza dell’architettura siciliana e dalla quale è possibile trarre la comprensione delle interrelazioni vitali che legano il nostro presente all’eredità del passato».
Per ciascuna città una frase che nel darne il senso per qualcuna apre anche al futuro. Così per Termini Imerese, L’eredità del passato e un’armonia ancora possibile. S. Stefano di Camastra esemplifica insieme una città dell’utopia e un villaggio. Per Randazzo è l’intelligente capacità di integrarsi da parte di etnie diverse che rende possibile la fioritura di un mirabile sinecismo, all’interno del quale la cosiddetta strada alla moderna nel rifondare struttura e immagine delle città, tuttavia, incide nella libera espressività dell’umano e della stessa immaginazione creativa.
Con segno nitido e chiaro di queste città-paese Luciana ne restituisce la ricchezza poetica, se per essa si intende amore e rispetto per la terra, e l’essenzialità del suo fare esplicitando come la stessa intrida il vivere tutto dell’universo contadino.
E dal racconto, da ciò che scrive nelle didascalie delle immagini, emergono forme da cui un senso d’arte affiora, espresso sovente con povertà di mezzi dalla piccola maestranza o dal contadino stesso, il quale si improvvisa architetto della propria abitazione. Dal palazzo e dalla chiesa e dalle loro piazze, luoghi di condensazione sociale, si genera un nucleo agglomerativo dei rapporti di relazione ancor più di quanto avviene nella strada. È da essi che si diramano le generatrici spaziali dell’abitato.
La penetrante e libera esplorazione che Luciana fa di questi urbani le conferma un principio che è fondamento e senso della sua visione olistica. Lo stretto rapporto che con l’insieme ha ciascuno di essi e quindi di quanto lo ha informato plasmandolo nel lungo tempo del suo formarsi, rendendolo «un fenomeno atipico, un unicum irriproducibile che si caratterizza per propri e peculiari elementi».
Comprenderlo compiutamente significa ricondurre la sua specificità di ‘frammento’ al
«contesto entro il quale le singole specificazioni si compongono per lumeggiare quella particolare continuità, attraverso la quale si svolge tutta l’esperienza dell’architettura siciliana e dalla quale è possibile trarre la comprensione delle interrelazioni vitali che legano il nostro presente all’eredità del passato, e che possono dare forza e sostanza a quanto noi faremo nel tempo che deve ancora venire».
Scrigno di un buon senso talmente elevato da costituirsi in ‘spontanea’ sapienza, pregno di rude ma solidale umanità, è il mondo dell’architettura rurale e contadina. Leggendovi la struttura e le dinamiche riflette Luciana come l’incontro della variegata umanità che proviene da culture altre sia generativo di feconde fertilizzazioni tra esseri umani e habitat, e portatore di ricchezza e complessità.
Ci dicono queste città-paese, singolarmente e nel loro insieme, come nel loro lento divenire, la specificità della loro cultura, forgiata anche dall’incontro di altre culture – quelle provenienti dal di fuori dell’isola cui appartengono – in modo diretto o mediato, abbia lasciato impronte indelebili nella Sicilia tutta, sì che la sua civiltà ha definito le proprie caratteristiche figurative in un dialettico gioco che ha origini remote e dal quale deriva una sorta di sincretismo stilistico che è la componente emergente di tutto il paesaggio culturale siciliano tessuto da una trama di organismi estremamente complessi, diventati tali per il multiforme sovrapporsi di molteplici modi espressivi: aulici, popolari, classici, medievali, barocchi.
Stratificazione di culture e di tendenze figurative che nel lento fluire del tempo hanno caratterizzato la configurazione della città e dell’ambiente edilizio «che sembra avere trovato gli elementi atti a comporre in unità».
Nel loro farsi, sottolinea Luciana, c’è un pragmatismo intelligente fondato sul lavorare in armonica concordia con la natura e con quanto da essa discende, sicché nella costruzione dell’habitat il rispondere ad una ragione che unisce clima, natura dei luoghi e bisogni, pur colmi di disfunzioni, li rende generatori di benefiche percezioni ed esperienze spaziali e di una cultura che in alcuni casi permane sino ad oggi nella complessa struttura planimetrica e tridimensionale degli isolati.
E come in tutte le città mediterranee, il mantenimento dell’universo rurale in esse sotteso avrà resistenze diverse in relazione anche alla localizzazione geografica e dimensionale degli insediamenti, mantenendosi infatti più a lungo in quelli con una maggiore localizzazione altimetrica.
È una narrazione questa di Luciana scevra da quel virus nefasto quale la settorializzazione, che sin dall’insegnamento scolastico nel formare le coscienze, ha rinunciato a un approccio olistico ai fenomeni, in tal modo venendo meno la capacità di leggere compiutamente un fenomeno, e ancor più quando di complessità è pregno. Un organismo urbano, che è tale, richiede l’approccio olistico e infatti la sua lettura indagativa, pur non esplicitandolo, nel dirci della dimensione comunitaria di questi habitat, dà anche quella antropologica ed economica restituendoci quanto l’incontro con culture diverse, mescolando e contaminando, abbia di essi arricchito forma e contenuti.
Evidenziando come di rado l’isola sia stata centro propulsore di cultura, così scrive Luciana:
«La Sicilia più spesso ha derivato le proprie manifestazioni da filoni culturali esterni, provenienti ora d’oriente ora d’occidente, che hanno in misura più o meno profonda influito sui modi del suo fare artistico e perfino sulle sue manifestazioni di vita più semplici».
E quanto di attuale c’è in ciò che sa ‘vedere’ Luciana, in quello che ‘tira fuori’, in quello su cui di più si sofferma, come la misura umana, da decenni scomparsa nelle grandi città, nelle molte, splendide, piccole città-paese fiorisce sul territorio siciliano di una, forse irripetibile, esperienza di vita comunitaria, il paesaggio urbano acquista forza e unità dalla misura umana attraverso la quale si è tessuto quel «farsi storicamente» in cui ogni carattere spaziale episodico e particolare si connette in una organica coerenza che è testimonianza ed insieme ossatura di un modo di vita, che ci appare oggi immerso in una fissità extratemporale, e tuttavia denso di valori esistenziali tramati su uno spontaneo e prestigioso equilibrio.
Pur non aspirando ad una creatività artistica, sono queste città-paese, pur caratterizzate da una condizione pressoché assoluta di staticità, ma forse anche per questo documento e testimonianza di altissimo interesse, ove si guardi alla vigorosa coesione per la quale, ancora al tempo in cui Luciana le indagava, il loro paesaggio esprimeva la corrispondenza tra la risposta agli elementari bisogni del vivere e la loro materializzazione spaziale e figurativa talmente connessa con la terra-natura da tradursi in una autentica, anche se inconsapevole, invenzione ecologica.
Nel concludere, dalla lettura dell’intero libro emerge la figura di un pensatrice acuta e incisiva nel suo dire, e al pari si avverte la densità dell’impegno in un’attività di ricerca finalizzata a migliorare l’ambiente urbano attraverso metodologie di indagine delle manifestazioni morfologiche ed architettoniche del territorio, ancora oggi estremamente attuali, quando si pensi, come hanno evidenziato alcuni studiosi, alle nozioni di ‘Città Abitata’ e di ‘Città Arcipelago’ che vengono fuori da un’analisi del territorio a partire dai suoi aspetti spaziali, culturali, antropologici, economici, studiando insieme all’unicità del modo di vivere di ciascun territorio, anche forme e aspetti comuni.
Passando dal ‘64 alla nostra contemporaneità, quindi distanziandoci di un sessantennio, sin dai tardi anni Settanta lacerazioni profonde hanno iniziato a corrodere l’anima di queste città. Evidente, infatti, è la perdita di una così mirabile realtà articolata e ricca di valori che Luciana mirava a far conoscere, ritenendola una imperdibile pagina di storia, e al fine di riflettere su un eventuale rio-orientamento dell’architettura, a coglierne la ricchezza del suo portato. Bastino due valori tra i molti elementi di ricchezza che esso contiene: la misura umana e la frugalità, ovvero ottenere il più con il meno, intendendo per esso il poco impiegato dal contadino per rendere confortevole la sua casa. Permangono dei lacerti e su essi penso possa essere utile soffermarci ancora oggi.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
[*] Un ringraziamento pieno di affetto a Sabrina Natoli Di Cristina per la pazienza a fronte delle mie richieste-interviste; a lei devo le fotografie e le notizie biografiche di Luciana, sua madre.
Riferimenti bibliografici
Luigi Epifanio, L’architettura rustica in Sicilia, Palumbo editore, Palermo 1939.
Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Milano 1936.
Francesco Renda, Il movimento contadino nella società siciliana, Palermo, 1956.
G. Samonà, Architettura spontanea: documento di edilizia fuori dalla storia, in <Urbanistica>, n.14, anno XXIII, Torino 1954.
Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari, 1961.
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Antonietta Iolanda Lima, architetto, già professore ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Palermo. Sostenitrice della necessità di pensare e agire con visione olistica, sua ininterrotta compagna di vita, è quindi contraria a muri, separazioni, barriere. Per una architettura che sia ecologica, sollecita il rispetto per l’ambiente e il paesaggio, intrecciando nel ventennio ‘60-’70 l’elaborazione progettuale, poi dedicandosi alla formazione dei giovani. Ad oggi continua il suo impegno a favore della diffusione della cultura e di una architettura che si riverberi positivamente su tutti e tutto: esseri umani, animali, piante, terra; perché la vita fiorisca. Promotrice di numerose mostre ed eventi, è autrice di saggi, volumi e curatele. Tra essi, qui si ricordano: L’Orto Botanico di Palermo, 1978; La dimensione sacrale del paesaggio, 1984; Alle soglie del terzo millennio sull’architettura, 1996; Frank O. Gerhy: American Center, Parigi 1997; Le Corbusier, 1998; Soleri. Architettura come ecologia umana, 2000 (ed. Monacelli Press, New York – menzione speciale 2001 premio europeo); Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti XVI-XVIII sec., 2000; Monreale, collana Atlante storico delle città Europee, ital./inglese, 2001 (premio per la ricerca storico ambientale); Critica gaudiniana La falta de dialéctica entre lo tratados de historia general y la monografìas, ital./inglese/spagnolo, 2002; Soleri; La formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti di architettura, 2009; Per una architettura come ecologia umana Studiosi a confronto, 2010; L’architetto nell’era della globalizzazione, 2013; Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. Significato e valore di una presenza di lunga durata, 2016, voll. 2; Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici Architettura dei Pica Ciamarra Associati, 2017 (trad.ne inglese, Londra e Stoccarda, Edit. Mengel; Bruno Zevi e la sua eresia necessaria, 2018; Giancarlo De Carlo, Visione e valori, 2020; Frugalità Riflessioni da pensieri diversi, 2021. Il suo Archivio è stato dichiarato di notevole valore storico dal Ministero dei Beni Culturali.
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