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La costa tra San Giovanni e Torre Annunziata in età moderna

Salvatore d’Amato, Torre del Greco, porto e marina

Salvatore d’Amato, Torre del Greco, porto e marina

di Maria Sirago 

Torre del Greco, città del corallo, e i suoi casali di Portici, Resina, San Giorgio e San Giovanni 

Il territorio di Torre del Greco, detta anticamente Turris Octava, si estendeva lungo il litorale e comprendeva i casali di San Giovanni a Teduccio, San Giorgio a Cremano, Resina e Portici, sotto la sua giurisdizione, e non poteva essere infeudato, data la vicinanza alla Capitale, Ma nel 1418 la regina Giovanna concesse a Sergianni Caracciolo la città in “castellania”, una particolare concessione feudale come quella di Ischia per i d’Avalos: i feudatari dovevano occuparsi del pagamento della guarnigione posta a sua difesa, nominando un castellano o capitano, pagato 12 ducati al mese, e alcuni soldati.

Al Caracciolo nel 1454 subentrò Francesco Carafa. Poi nel 1576 passò al ramo dei Carafa di Stigliano: ma nel 1689, dopo la morte di Nicola Guzman Carafa, figlio della viceregina Donn’Anna Carafa, fu devoluto alla Regia Corte per mancanza di eredi. Così nel 1699 la “città del corallo” poté ricomprare il demanio per 106 mila ducati, una somma cospicua, raccolta dal ceto mercantile, che si era arricchito con la sua fiorente attività di pesca del corallo. I feudatari avevano il diritto di nominare il doganiere della dogana regia di Torre, che dipendeva dalla Dogana Grande di Napoli e percepiva 24 ducati annui fino al 1625.

L’incremento dei traffici è testimoniato dall’aumento dello stipendio del doganiere, 300 ducati nel 1600, e dalla nomina di un credenziere, che percepiva 60 ducati annui ed alcuni emolumenti o compensi straordinari (circa 25 ducati annui, Sirago, 2004 e 2009). Inoltre, vi era un portulanoto che dipendeva dal Mastro Portolano di Napoli e Terra di Lavoro, e riscuoteva solo emolumenti (Sirago, 2004). I feudatari riscuotevano il “falangaggio” (diritto di approdo con le falanghe o bitte per piccole imbarcazioni) negli approdi di Resina e Cremano e ancoraggio nei porti del Granatello (Portici) e Calastro (Torre). Avevano anche una “privativa della pesca” un diritto da cui riscuotevano “la fida di mare” (diritti sulla pesca) lungo tutta la costa dai pescatori di Torre e dei suoi casali, Portici, Resina, San Giorgio a Cremano e San Giovanni a Teduccio. Essi riscuotevano anche i diritti sulla pesca del corallo [1], anche se spesso sorgevano contenziosi con i torresi, che reclamavano la libertà per la pesca del corallo, loro primaria attività lavorativa e fonte fondamentale di guadagno (Ferrandino, 2003; Sirago, 2006). 

Questo particolare tipo di pesca era praticato con le feluche o tartane coralline, a cui era applicato un “ingegno” a forma di “Croce di Sant’Andrea” armato con ami con cui a forza di braccia si strappavano i rametti dal fondale. La pesca era organizzata in modo del tutto particolare, poiché occorreva una grossa somma per armare una feluca o tartana, dai 300 ai 500 ducati. La somma era anticipata ai padroni e armatori delle barche da capitalisti privati e restituita alla fine della campagna di pesca con un interesse del 14%.

Feluca corallina.

Feluca corallina

Nel Seicento e Settecento, dopo l’esaurimento dei banchi corallini in Campania, i capi-squadra e i pescatori si erano trasferiti in Sardegna, in Corsica e poi anche nelle coste africane, dove da agosto ad ottobre organizzavano le campagne di pesca, coadiuvati anche dai pescatori di Resina, Capri e Procida. Al ritorno i padroni si fermavano a Livorno per vendere il corallo pescato agli ebrei della città tramite piazzisti napoletani poiché essi erano abili nel lavorarlo (Sirago, 2006 e 2018:77-79). 

La pesca era molto faticosa e pericolosa perché spesso le imbarcazioni erano assalite dai corsari turchi e barbareschi. Ma i torresi erano tutelati dal “Pio Monte di felluche et barche, marinai e pescatori della Torre del Greco”, creato nel 1615 nella chiesa di Santa Maria delle Grazie il cui statuto fu firmato da 27 contraenti, gli armatori più importanti, secondo la testimonianza del notaio. Il Monte sopperiva alle continue difficoltà, pagando una quota per i defunti, la dote delle figlie e il riscatto per i marinai catturati dai corsari (50 ducati). Le somme provenivano dalle quote versate dai padroni e marinai: i contraenti si impegnavano a versare un quinto per ogni viaggio e i marinai che pescavano nel Golfo partenopeo un quarto del loro compenso.

Fig. 3 Chiesa della Madonna di Portosalvo, Torre del Greco, ex voto, Venezia, Museo Navale,  (Langella Rivieccio, 2012)

Chiesa della Madonna di Portosalvo, Torre del Greco, ex voto, Venezia, Museo Navale, (Langella Rivieccio, 2012)

Nel 1639 fu redatto un nuovo statuto e la sede fu spostata nella chiesa di Santa Croce; poi nel 1673, dato l’aumento dei suoi componenti, il Monte fu trasferito nella Cappella di Santa Maria di Costantinopoli, grancia della parrocchia di Santa Croce, mantenendo il suo carattere laicale e difendendo gelosamente la propria autonomia rispetto al clero locale. Nel 1724 fu aggiunto un “Monte delli schiavi per sussidio delli riscatti delli cattivi” (prigionieri) e nel 1728 furono aggiunti degli specifici capitoli sulla pesca del corallo, una pesca pericolosa per le continue catture dei marinai da parte dei corsari barbareschi lungo le coste africane (Ferrandino, 2008, Sirago, 2022).  Perciò nelle chiese di Torre del Greco si conservano molti dipinti, gli ex voto, fatti fare dai marinai in onore della Madonna e dei Santi dopo che erano scampati dal pericolo. 

Nel 1727, durante l’epoca austriaca, si contavano 125 padroni con altrettante feluche e 1000 marinai “corallari” (Di Vittorio, 2000).  Il loro “monopolio” non derivava da privilegi ma dalla loro capacità organizzativa con cui avevano intrecciato una fitta rete di relazioni economiche tra le isole maggiori, Procida, Ischia e Capri e i centri pescherecci di Gaeta e Pozzuoli, Sorrento, Positano, Amalfi, utilizzando i loro marinai nella pesca del corallo o in altre attività di pesca.

All’arrivo di Carlo di Borbone (1734) il regno, ritrovata la sua indipendenza, venne riorganizzato capillarmente in ambito commerciale. Nel 1742 fu promulgato un “Regolamento” per la navigazione dei bastimenti mercantili, implementati a partire dal 1751 con vari “Capitoli e leggi per Navigazione e mercatura”. Dalla seconda metà del Settecento si sviluppò un vivace dibattito sulla riorganizzazione del sistema economico regnicolo promosso da Antonio Genovesi. L’economista, tra le varie questioni, trattò anche quella della pesca dei torresi, auspicandone un rilancio, visto che il guadagno di 200 mila ducati annui percepito in passato appariva diminuito. In effetti a metà Settecento a Cagliari si contavano ancora 72 feluche torresi [2], mentre altre erano registrate nelle isole ionie, soprattutto a Corfù e Zante (Cisternino Porcaro, 1954: 84-87). Inoltre, da metà Settecento, quando il re Carlo aveva dato ordine di ripopolare l’isola di Ponza, vi si erano trasferiti molti pescatori torresi e ischitani, addetti anche alla tonnara (Sirago, 2018).

Durante il periodo della sua “Reggenza” (1759-1767) il ministro Tanucci formulò un progetto per creare una compagnia per la pesca del corallo. La questione fu ripresa da Giovan Battista Maria Jannucci, che nel 1763 era stato nominato presidente del Supremo Magistrato di Commercio: Jannucci scrisse un suo “parere sulla pesca de’ coralli”,  inserito nella sua inedita opera che dava segni di crisi, specie dopo la carestia del 1764. Nel 1765 si contavano solo 42 feluche mentre i debiti erano saliti a 10.600 ducati. Il ministro osservava che il sistema di vendita dei coralli agli ebrei a Livorno dava luogo ad un forte indebitamento dei padroni delle feluche. Inoltre, ricordava che in altri luoghi come Marsiglia erano state create delle compagnie che ingaggiavano i torresi, i più esperti pescatori di corallo. Egli proponeva di registrare i capitani torresi e favorire la vendita del corallo in regno, organizzando la lavorazione, ancora poco sviluppata con poche botteghe site nella “strada della Sellaria”, e invogliando lavoranti di Trapani o Livorno a trasferirsi nella capitale partenopea per ripristinare l’antico mestiere. Infine, nel 1767 propose di creare una “compagnia di pesca” sul modello di quella creata in Inghilterra da Carlo I (Jannucci, 1981, V: 1127ss.). Nello stesso anno anche Nicola Fortunato notava che il regno avrebbe tratto un notevole profitto se avesse dato nuovo impulso alla pesca del corallo (Fortunato, 1767: 57).

Tali idee vennero riprese da John Acton, nominato ministro della marina nel 1779, che aveva redatto un piano per lo sviluppo di tutto il comparto marittimo (Nuzzo, 1980): in quel periodo la pesca era praticata in Barberia, ma la Francia aveva fatto rimostranze perché controllava il territorio con la Compagnie Royal d’Afrique creata nel 1741 (Tescione, 1940). Nel 1780 si contavano 300 padroni e 2600 marinai su 18.000 abitanti, quasi tutti addetti alla pesca del corallo [3]: perciò i torresi, che avevano scoperto un nuovo banco corallino nei pressi della costa tunisina (Buonocore, 1985: 2), chiedevano al Supremo Magistrato di Commercio di istituire un “Consolato per la pesca del corallo” [4].

Da Torre del Greco ogni anno partivano 300-400 feluche, ciascuna con 7 marinai a bordo: poiché in Mediterraneo vi era un’endemica guerra di corsa (Bono, 1964), le feluche coralline erano scortate da “feluche da corsa” munite di regolare patente, che dovevano proteggere le imbarcazioni. I padroni delle feluche pagavano 8 ducati per le feluche dirette a Tunisi e 12 per quelle dirette ad Algeri. L’interessante resoconto è tratto da un giornale di bordo redatto nel 1787 dal capitano Giuseppe Accardo che aveva armato un felucone corsaro a difesa dei corallari torresi: vi sono molti documenti in merito al contenzioso tra l’Accardo e i corallari, che volevano partecipare agli utili delle prede fatte dal capitano [5]. Tra il 1784 ed il 1788 si ebbe un lungo contenzioso con la Compagnie Royale d’Afrique sui diritti vantati dalla compagnia francese, che alla fine riconobbe al Regno delle Due Sicilie il diritto di pescare nelle zone che controllava (Buonocore, 1985: 2-3).

La questione dell’organizzazione dei corallari torresi impegnò a lungo il giurista procidano Michele de Jorio, che nel 1781 aveva pubblicato su incarico del re e di Acton un Codice Ferdinandeo o codice marittimo: del volume si stamparono 25 copie, in attesa di revisione (De Majo, 1988; Assante, 2024: 67-70). Ma poi il Codice non fu ripubblicato per i problemi di guerra che attanagliavano il Regno negli anni ’90, per cui rimase quasi del tutto sconosciuto (de Jorio, 1781). Solo nel 1979 è stato ripubblicato a cura di Cesare Maria Moschetti. Dopo questo monumentale lavoro il de Jorio continuò ad occuparsi di questioni marittime, soffermandosi soprattutto delle condizioni in cui versavano i corallari torresi. Nel 1788 scrisse una memoria sulla necessità di costituire una “Compagnia del corallo” per controllarne il commercio: a suo parere il materiale grezzo non doveva essere più venduto a basso prezzo a Livorno, ma si dovevano creare nel Regno napoletano fabbriche per lavorarlo, creare una compagnia di negozianti che lo vendessero e istituire una fiera per commercializzare al meglio il prodotto (de Jorio, 1788: 23).

Due anni dopo pubblicò il Codice corallino (de Jorio, 1790). Lo stesso anno Acton approvava la fondazione della “Real Compagnia del Corallo” che doveva vigilare sulla vendita del pescato, una importante voce del commercio da cui si ricavava circa mezzo milione di ducati, ribadendo la necessità di vendere il prodotto in regno e creare delle manifatture (Real Compagnia, 1790). La Compagnia aveva l’obbligo di creare a Torre del Greco una fabbrica per la lavorazione del corallo chiamando persone esperte. In quel periodo il valore dell’industria del corallo ammontava a 300 mila ducati, dando lavoro a numerosi padroni e marinai (Davis, 1979: 137).  La Compagnia non decollò sia per i movimenti di guerra che si intensificarono fino alla Repubblica Partenopea del 1799, sia per l’eruzione del Vesuvio del 1794 che indusse molti pescatori torresi a trasferirsi a Ponza e Ventotene, per cui il settore della pesca del corallo entrò in crisi (Sirago, 2006: 57).

Ma dopo il ritorno di re Ferdinando da Palermo si ebbe una certa ripresa, tanto che nel 1802 si contavano 2190 “naviganti di seconda classe” e 450 pescatori su14.500 abitanti e vi era una numerosa flotta mercantile, 500 imbarcazioni dedite alla pesca del corallo e 48 “barche pescherecce” (Altiero Formicola, 2008: 30); tre anni dopo erano registrati circa 4000 marinai su 18.000 abitanti e 400 imbarcazioni (Nuova collezione delle prammatiche, 1805, tomo V: 246). In quel periodo venne anche implementata la lavorazione del corallo: nel 1805 il marsigliese Paolo Bartolomeo Martin ottenne da re Ferdinando il permesso di poter aprire una fabbrica a Torre del Greco per la sua lavorazione (Ascione, 1991: 80).

Gioacchino Toma, Le corallaie, 1870, Torre del Greco, Palazzo Vallelonga

Gioacchino Toma, Le corallaie, 1870, Torre del Greco, Palazzo Vallelonga

Durante il Decennio Francese (1806-1815) vi fu una ulteriore ripresa dell’attività, anche perché i monili di corallo erano diventati di moda nella corte imperiale. Il re Giuseppe Napoleone riconfermò la concessione al Martin, che aveva già incrementato il lavoro con 30 operai torresi (Ascione, 1991: 80), una manifattura lodata da Pietro Colletta (1962: 106). Durante il regno di Murat si fecero delle indagini in merito alla situazione dei corallari: si notava che era necessario avere delle garanzie per i pescatori in Barberia, a causa delle guerre napoleoniche; inoltre, il corallo veniva ancora venduto in buona parte a Livorno, il che non permetteva un incremento delle entrate in Regno [6]. Comunque, il mestiere della lavorazione del corallo si era ormai diffuso, tanto che nella statistica murattiana del 1811 a Napoli si contavano 28 corallari. Le manifatture torresi erano diventate di pregio per cui quando furono presentate alle esposizioni nazionali promosse dal governo per incrementare le attività industriali ottennero per tre anni di seguito la medaglia d’argento (Sirago, 2006: 65-66). Gli oggetti vennero presentati in una “Bottega separata” dalla Sala di Esposizione per mostrare tutto il ciclo, dalla pesca alla lavorazione (Catalogo di Saggi, 1813).

La lavorazione del corallo è citata anche nel romanzo Graziella di Alphonse de Lamartine, pubblicato nel 1852, in cui lo scrittore ricordava il suo primo viaggio in Italia, nel 1811, ambientato nel golfo napoletano e nell’isola di Procida, dove aveva conosciuto una fanciulla, ribattezzata Graziella, una corallara, che lavorava nell’officina gestita dallo zio, capofficina del miglior laboratorio di corallo napoletano. 

Fig. 5 Cantiere con la chiesa di Porto Salvo, fine Ottocento, cartolina d’epoca

Cantiere con la chiesa di Porto Salvo, fine Ottocento, cartolina d’epoca

Dopo la Restaurazione (1815) la situazione non migliorò: nel 1816 vi fu una terribile strage di pescatori a Bona, ma i corallari continuarono a pescare nelle acque africane. Dopo lo scoppio della peste a Bona e Tunisi, nel 1817, il Supremo Magistrato di Sanità proibì la pesca in Africa, consentita solo in Sardegna e nelle isole ionie. In quel periodo i torresi approfittarono della drastica riduzione dei pescatori marsigliesi per introdursi in quel mercato, molto fiorente. Dopo la promulgazione delle leggi per l’incremento della marina mercantile (decreti del 1816, 1823 e 1835), il numero delle feluche coralline aumentò (da 105 nel 1824 a 229 nel 1837). Nel 1833 su 2158 imbarcazioni del distretto di Napoli erano registrate 450 imbarcazioni, utilizzate per il corallo, la pesca e il commercio. Vi era anche una fiorente attività cantieristica, testimoniata dalle 509 imbarcazioni costruite in loco. 

Nel 1838 si registrò un ulteriore aumento. Su 4048 imbarcazioni del distretto di Napoli 590 erano torresi, di cui 300 feluche e paranzelli impegnati nella pesca del corallo, di cui 400 costruite in loco. Anche in quel periodo un centinaio di marinai capresi era impegnato sulle “coralline” torresi. La presenza dei torresi era preponderante sulle coste della Barberia: nel 1839 si contavano 78 imbarcazioni napoletane, con 824 marinai, 25 toscane con 254 marinai e 15 sarde con 130 marinai. Si cercava anche di migliorare il sistema della pesca, molto faticoso.  Nel 1826 Gennaro Magliulo, console napoletano ad Algeri, inviò al Ministero degli Affari Esteri un disegno di un bastimento a macchina con le spiegazioni di un nuovo metodo inglese per la pesca del corallo.

La pesca era ormai divenuta una importante voce del bilancio del Regno, anche se era soggetta al regolamento applicato dalla Francia dopo l’occupazione di Algeri, il 31 marzo 1832. Malgrado le restrizioni i torresi avevano continuato a pescare con successo nei mari di Algeria: nel 1853 si contavano 125 imbarcazioni di cui 116 torresi con 1346 marinai e 1 di Portici con 16 marinai (Sirago, 2006:58-62). Ma spesso i marinai si lamentavano del misero guadagno e preferivano trasferirsi altrove. Perciò nel 1856 fu promulgato un “Regolamento per la pesca del corallo” che i padroni delle imbarcazioni dovevano portare con sé e osservare scrupolosamente (Balzamo, 1870: 150ss.).

Anche le manifatture ebbero un notevole incremento, sia a Napoli che a Torre del Greco. Nel 1818 il Martin si trasferì a Napoli, dove incrementò la produzione, ottenendo vari premi per le sue lavorazioni (Sirago, 2006: 65-66). L’industria dei coralli di Torre del Greco, dove nel 1838 si contavano otto laboratori, era controllata da un gruppo di mercanti all’ingrosso e di un nutrito numero di armatori proprietari di barche (Altiero Formicola, 2008: 31-35); che cercavano di implementare questo lucroso settore (Balzamo, 1838).  

Nell’esposizione industriale del 1853 furono conferiti molti premi per la lavorazione del corallo ad alcuni napoletani, che avevano raggiunto una notevole perizia tecnica. Difatti a Napoli nel censimento del 1845 si contavano 55 corallari molto esperti; e molte botteghe venivano aperte a Torre del Greco, definita città del corallo (Sirago, 2006: 65-66). 

Real sito di Portici

Real sito di Portici

Il Miglio d’oro: dalla pesca a “luogo di delizie” 

Nell’antico casale di Portici e nel suo territorio vivevano numerosi marinai e pescatori, 96 a Resina e 65 a San Giovanni nel 1727, in possesso rispettivamente di 10 e 7 imbarcazioni usate per pesca e commercio. La popolazione marinara in età murattiana era aumentata a Resina (270 marinai) ma non a Portici, dove si contavano solo 2 marinai. Nel corso dell’Ottocento si era sviluppata una modesta attività cantieristica (nel 1834 erano state costruite 5 imbarcazioni e 7 nel 1838) ma i cittadini non ne possedevano (Sirago, 2004). Essi  erano impegnati soprattutto nei servizi per la corte borbonica che soggiornava spesso nella reggia, un idilliaco palazzo prospiciente il porticciolo del Granatello fatto costruire da Carlo di Borbone. Si narra che di ritorno da Castellammare, dove era andato ad assistere al calo della tonnara, sulla via del ritorno, a causa di una tempesta, si era dovuto rifugiare con la regina Maria Amalia di Sassonia nel porto del Granatello nella bellissima villa d’Elbeuf, prospiciente il mare, costruita dal principe Emanuele Maurizio di Lorena, generale dell’esercito imperiale austriaco, a partire dal 1709. I due coniugi, deliziati dall’amenità del luogo, avevano deciso di acquistare la villa ed ampliarla costruendo un palazzo che potesse ospitare tutta la corte (Margiotta e Visone, 2008). Nella villa poi furono conservati i reperti archeologici provenienti dagli scavi della antica Ercolano, con cui fu creato un museo, inaugurato nel 1758, meta privilegiata dei viaggiatori del Grand Tour (Santoro, 1959). 

 Villa Campolieto, Ercolano

Villa Campolieto, Ercolano

Attorno alla villa vennero costruiti numerosi palazzi dagli aristocratici napoletani lungo la strada regia delle Calabrie (dal quarto miglio posto ai piedi della Villa de Bisogno a Casaluce, sul corso Resina, presso gli odierni scavi archeologici fino al Palazzo Vallelonga di Torre del Greco). Perciò il territorio, che oggi comprende i quartieri napoletani di San Giovanni a Teduccio e Barra e i comuni di San Giorgio a Cremano, Ercolano e Portici, una lunga strada che collegava il palazzo reale di Portici con quello napoletano, prese il nome di “Miglio d’oro” (Carotenuto, 1995).  Uno degli edifici più famoso è la Villa Campolieto, ad Ercolano, accanto agli scavi, fatta costruire dal principe Luzio di Sangro, duca di Casacalenda, a partire dal 1755: fu progettata dall’architetto Mario Gioffredo, sostituito nel 1760 da Luigi Vanvitelli, e completata nel 1775 dal figlio Carlo. 

Villa Bruno S. Giorgio

Villa Bruno, San Giorgio a Cremano

Interessante è anche villa Bruno, a San Giorgio a Cremano, costruita dalla famiglia Monteleone, oggi centro culturale. Tutte le ville sono ora sotto la giurisdizione della “Fondazione Ente per le Ville Vesuviane” costituita nel 1999 (www.villevesuviane.net).

La reggia di Portici diventò “il luogo di delizie” preferito da Carlo e dalla regina. Il re era amante della caccia ma soprattutto della pesca: perciò aveva fatto costruire delle “peschiere reali”, riserve di pesca, nei giardini, «destinate al privato divertimento di Sua Maestà, disposte in tanti ripartimenti tutti chiusi con cancelli di ferro, e reti anco di sottili ferro formate, che lascia[va]no libera l’entrata alle acque marine senza che [potessero] uscirne i pesci ivi rinchiusi» (Celano, 1792:.30-34). Dopo la costruzione delle peschiere reali e l’uso di calare una tonnara in tutta la costa, dichiarata “sito reale”, la pesca fu proibita e controllata da un direttore e da guardiani, per evitare la pesca di frodo [7].

Fig. 10 Portici, Porto del Granatello con pescatori, fine Settecento

Portici, Porto del Granatello con pescatori, fine Settecento

Anche il figlio Ferdinando aveva la stessa passione per la caccia e la pesca, per cui amava molto la reggia di Portici. Dopo la partenza del padre per la Spagna, nel 1759, il giovane monarca, che aveva solo otto anni, fu affidato al fedele ministro Bernardo Tanucci, posto a capo del “Consiglio di Reggenza” che ogni settimana inviava al re Carlo una missiva sullo stato del Regno (Sirago, 2019). Il giovane re, poco interessato agli affari di governo, aveva manifestato una passione smodata per i divertimenti, il nuoto, le battute di caccia e soprattutto quelle di pesca.  Nel 1773 aveva fatto costruire al Granatello, lo specchio d’acqua prospiciente alla reggia, un porto costato 23 mila ducati per le sue “galeottiglie” imbarcazioni simili alle galere, ma di dimensioni ridotte, usate per le battute di pesca e per i viaggi tra Napoli e Portici. Tanucci per difendere la reggia aveva fatto edificare delle batterie lungo la costa (Sirago, 2019). Ma il re, per nulla preoccupato, aveva intensificato le sue attività ludiche, facendo anche calare la tonnara “alla napoletana”, col “piede” sulla spiaggia e la rete aperta in mare (Sirago, 2018). 

Porto del Granatello, anonimo,  calo della tonnara

Porto del Granatello, anonimo, calo della tonnara

Inoltre, per imparare a pescare meglio, aveva fatto venire dall’isola di Lipari una cinquantina di marinai con le famiglie ai i quali aveva destinato degli alloggi presso la reggia di Portici. Aveva così creato un “Corpo di volontari del Regio Corpo di Marina”, con una specifica uniforme, comandato da Gaetano Filangieri. L’iniziativa non era piaciuta a Tanucci sia per il costo che per la continua attenzione data dal re, sempre più disinteressato agli affari politici (Sirago, 2023).

Fig. 12 Ferdinando vestito da pescatore con una galeottiglia alle spalle, anonimo,

Ferdinando vestito da pescatore con una galeottiglia alle spalle, anonimo,

Intanto fin dagli anni Quaranta si stava diffondendo anche nella capitale partenopea la moda del Grand Tour, il viaggio di istruzione dei nobili europei, incrementato ancor più dopo le scoperte archeologiche delle antiche città di Ercolano e Pompei (Sirago, 2020). Dagli anni Ottanta si cominciò a diffondere anche la pratica della balneazione, sia a scopo curativo che ludico, diffusa dagli inglesi, in primis il ministro plenipotenziario sir Henry Hamilton, che trascorreva l’estate nella sua villa di Posillipo. Lo stesso re Ferdinando amava molto “natare”, come scriveva nei suoi diari (Sirago, 2013 e 2021).

  Fig. 13 Porto del Granatello, Bagno della Regina


Porto del Granatello, Bagno della Regina

In epoca napoleonica, nel 1813, la regina Carolina Murat fece costruire al Granatello un edificio detto il “Bagno della Regina”, raro esempio di architettura balneare, con una esedra a semicerchio aperta sulla spiaggia del Granatello, di grande effetto scenografico, un unicum architettonico in tutta Italia, purtroppo oggi in completa decadenza (Visone, 2008).

Ma la balneoterapia serviva anche per scopi curativi: nel 1832 re Ferdinando II aveva concesso ad una povera “vedova di un antico marinaio” di poter costruire i bagni di legno al lido di Portici necessari per le cure «di molte croniche indisposizioni, secondo la relazione di due medici che consigliavano le cure idroterapiche marine» [8]. Nel corso dell’Ottocento furono allestiti numerosi stabilimenti balneari lungo tutta la costa, da San Giovanni a Teduccio a Torre del Greco, dove si svolgeva la vivace vita balneare vesuviana, descritta da Matilde Serao (Sirago, 2010). 

Fig. 14 San Giovanni a Teduccio, Bagno Rosso di Giovanni Caprile, inizi del Novecento

San Giovanni a Teduccio, Bagno Rosso di Giovanni Caprile, inizi del Novecento

Lungo la costa, nel territorio del comune di San Giovanni a Teduccio, verso “i Granili, l’“industriante” Alfonso Stadio nel 1876 aveva ottenuto una concessione per uno stabilimento balneare, rinnovata al figlio Giovanni nel 1784; nello stesso luogo erano stati costruiti gli stabilimenti Alhambra di Francesco Stingo e il “Regina Margherita” di Nicola Iossa. Più avanti, ai “due palazzi”, vi era il Bagno Ma santé di Alfredo Benincasa, rimodernato nel 1899 insieme al teatrino annesso e dotato di nuova illuminazione a gas: era pubblicizzato diffusamente per i suoi comfort e le sue attività, lezioni di nuoto e esercizi ginnici; inoltre, sulla terrazza a mare, di sera si organizzavano eleganti balli. Ma dai primi del Novecento il territorio è stato pesantemente industrializzato e dal 1925 è stato inserito nel comune di Napoli, perdendo ogni attrattiva dell’antico “loisir” (Sirago, 2010 e 2013). 

Fig. 15 San Giovanni a Teduccio, Bagnanti, 1917

San Giovanni a Teduccio, Bagnanti, 1917

Nel comune di San Giorgio a Cremano nel corso del Settecento erano state costruite delle “case di delizia” (Palomba, 1881). In una di queste, la villa Sanseverino, alla Croce del lagno, che si affacciava sulla spiaggia di Pietrarsa, presso la fermata del tram elettrico, Bernardo Quaranta, barone di Sanseverino (nipote del celebre archeologo) aveva costruito uno stabilimento balneare divenuto in breve uno dei più rinomati, il Nuovo e grande stabilimento … Villa San Severino Quaranta. Nel 1893 era stata inaugurata una elegantissima sala di caffè-concerto.  Lo stabilimento era fornito di un restaurant e di ogni comfort, “vasche per educandato” (cioè per imparare a nuotare), una scuola di nuoto, il trampolino, attrezzi ginnici e la possibilità di effettuate gite in barca dall’“imbarcatoio” del lido. La sera venivano organizzati dei concerti nel Garden Theatre., pubblicizzati dalla Serao. Inoltre, il proprietario locava “Grandi e piccoli appartamenti e quartini con e senza mobili con scuderie” per coloro che volevano trascorrere dei periodi di vacanza. Lo stabilimento era stato progettato su modelli venuti dall’estero e vi si accedeva attraverso il portone del palazzo che immetteva in un “delizioso boschetto” da cui si entrava nella sala d’aspetto o nel restaurant ed era dotato anche di un teatro, in cui si allestivano numerosi spettacoli per dilettare gli aristocratici villeggianti (Sirago, 2010 e 2013). 

San Giorgio a Cremano, Croce del Lagno, Palazzo Sanseverino Quaranta

San Giorgio a Cremano, Croce del Lagno, Palazzo Sanseverino Quaranta

Nella stessa zona Michele di Costanzo aveva aperto un altro elegante stabilimento balneare dotato di tutti i comfort; poi il figlio Gaetano aveva allestito un “teatro estivo”, in cui organizzava deliziosi spettacoli. Ma dai primi del Novecento anche questo territorio, come quello di San Giovanni, con l’incremento degli impianti industriali, ha subìto un notevole degrado (Vitale, 1990). La zona più elegante era però quella tra Resina e Portici, una zona rinomata fin dall’epoca romana per le sue “delizie”, dove nel Settecento erano state innalzate la più belle ville del “Miglio d’Oro”. A Resina vi era l’elegante stabilimento balneare La Favorita, nel parco dell’omonima villa, realizzata nel 1768 da Ferdinando Fuga su incarico Stefano Reggio e Gravina, principe di Aci e Campofiorito.

Fig. 17 Resina Villa Favorita

Resina Villa Favorita

Nel 1790, alla sua morte, fu incamerata nei beni di re Ferdinando che la destinò a residenza reale, ampliando il parco fino al mare; poi fece allestire un approdo in cui furono edificate due cafè-house con torrette simmetriche. (Del Pezzo, 1892; Fidora Attanasio, 2004: 100ss.). Lo stabilimento balneare, creato nel 1887 (ancora esistente) era diretto abilmente da Giovanni Criscuolo e dal suo socio Gennaro Liguori ed era definito dalla Serao “il bagno ideale”. Qui ogni anno si organizzavano delle splendide feste a mare (Sirago, 2003; https://www.mondobalneare.com/stabilimenti/antico-bagno-favorita/).

Un altro elegante stabilimento balneare era il “Bagno della Riccia”, posto nella villa Buono, progettata nel 1748 dall’architetto Domenico Antonio Vaccaro per conto di Bartolomeo di Capua, principe della Riccia, di cui sopravvivono solo la bella esedra, costruita per ospitare la servitù e la cappella gentilizia, del 1769. Lo stabilimento, ribattezzato “Stabilimento Palumbo”, gestito ai primi del Novecento da Filomena Palumbo, era diventato meta obbligata, insieme a quello di Bernardo Quaranta, di tutta l’aristocrazia, come sottolineava la Serao.

Portici, villa Buono

Portici, villa Buono

La scrittrice ricordava la vita movimentata sulla rotonda dove le dame si davano appuntamento vestite con toilette semplici ma elegantissime, concludendo «on parle français, english spoken, man sprecht deutsch», per sottolineare il cosmopolitismo di quella bella società. Dallo stabilimento balneare si poteva facilmente raggiungere col tram l’elegante Hotel Bellavista, immerso nella frescura di un rigoglioso giardino, da cui si poteva godere la vista del golfo (Sirago, 2013). 

Più a nord verso villa Ciaburri vi era lo stabilimento dei fratelli Naldi, che avevano avuto una concessione per 15 anni, senza vasca, preferito dalle ”coraggiose”, dalle nuotatrici, mentre quello “della Riccia”, dotato di ampia vasca, era preferito dalle “timide  inesperte” fanciulle (Il Mattino, 1-2 luglio 1901).

 Portici discesa del Lido dorato, Attilio Pratella, fine Ottocento, collezione privata

Portici discesa del Lido dorato, Attilio Pratella, fine Ottocento, collezione privata

Anche Torre del Greco a fine Ottocento cominciò a dotarsi di infrastrutture turistiche e balneari. Nel 1886 Francesco Palomba aveva aperto uno stabilimento sulla “spiaggia della Scala”, inizialmente dotato di poche “capannette per i bagnanti” [9]. Lo stabilimento, ingranditosi poi notevolmente, ogni anno era «preso d’assalto dal fior fiore della colonia estiva che veniva numerosa a tuffarsi nelle sue limpide acque». Poi era stato aperto un altro stabilimento da Vincenzo Acampora nella spiaggia detta “del Fronte”, all’interno del porto, vicino alla stazione ferroviaria, riorganizzato nel 1900 con «maggiore proprietà, decenza ed inappuntabile servizio» [10]. Vi era anche uno stabilimento balneare nella spiaggia della frazione di Santa Maria La Bruna, di Gelsomina Pontillo. 

Torre del Greco, Grand Hotel Santa Teresa, 1890

Torre del Greco, Grand Hotel Santa Teresa, 1890

Per il soggiorno si consigliavano l’elegante Hotel Pension du Vesuve l’Hotel Santa Teresa, l’Eden Hotel”, la Pension Suisse.

Nel 1904 era stato aperto anche un elegante caffè, Il piccolo Gambrinus, su modello del famoso caffè napoletano (Sirago, 2013). Perciò ogni anno la stagione era sempre al culmine e «Animatissime [erano] le passeggiate lungo il ‘miglio’ incantato … innumerevoli le liete feste» (Giornale d’Italia, 26 luglio 1904).

Fig. 23 Torre del Greco, Gran Caffè Palumbo

Torre del Greco, Gran Caffè Palumbo

Boscotrecase e Torre Annunziata

Nel territorio di Bosco e Trecase (odierna Boscotrecase), che ai primi del Seicento contava circa 7000 abitanti, vi era una fiorente produzione di vino Lacryma Christi. Il casale era stato ceduto da Filippo III a Marco Antonio Jodice di Genova, un banchiere che aveva prestato molto denaro al re. Nel 1616 Poi il viceré conte di Lemos. Pedro Fernández de Castro y Andrade, lo aveva ceduto a Giovanni Piccolomini d’Aragona, figlio di Alfonso, da cui aveva ereditato la baronia di Scafati, e i casali di   Boscoreale e Valle di Casale (odierna Pompei). Nel territorio di Bosco e Trecase vi era un piccolo approdo dove i Piccolomini riscuotevano i diritti di falangaggio, pagati dalle piccole imbarcazioni che trasportavano il pregiato vino nello Stato della Chiesa per la corte papale, e per la pesca.

Fig. 24 Torre Annunziata, Giuseppe Luongo, pescatori

Torre Annunziata, Giuseppe Luongo, pescatori

Il territorio nel corso del Settecento ebbe una certa prosperità (con un aumento demografico, 10 mila abitanti) grazie alla lavorazione della pietra lavica, esportata a Napoli e in tutto il regno. Inoltre era meta dei viaggiatori del Grand Tour che visitavano il territorio dove riaffioravano delle “antichità” romane (Casale Bianco, 1978, Sirago, 1993: 344).

Anche a Torre Annunziata, ultimo casale di Napoli, vi era un piccolo porto, dove potevano approdare velieri e “barconi da traffico”, per cui si svolgeva una certa attività mercantile e peschereccia, testimoniata dal Monte di “Padroni di barche, marinai e pescatori”, esistente dal 1614 (Sirago, 2022).

Torre Annunziata, Giuseppe Luongo, pescatori

Torre Annunziata, Giuseppe Luongo, pescatori

I commerci erano controllati da un portulanoto, alle dipendenze del Mastro Portolano della Dogana Grande di Napoli. nel 1727 si contavano però solo 20 marinai e 10 barche, adibite al commercio e alla pesca. Ma nella statistica murattiana del 1811 nella città, ribattezzata Gioacchinopoli, si contavano 200 marinai (Sirago, 2004). La città appartenne a varie famiglie, i d’Alagna (1419-1512), i Galluccio di Tora (1512-1517), gli spagnoli de Bucchis (1517-1608), i Tuttavilla conti di Sarno (1592-1614), i Colonna, principi di Gallicano e duchi di Zagarolo (1624-1653), Barberini, principi di Palestrina (1662-1705), i toscani Massarenghi (1705-1714), gli amalfitani Dentice del Pesce, principi di Frasso (1714-1806). I feudatari possedevano i diritti di ancoraggio, dogana e pesca (Sirago, 2003). Le attività marinare comunque non si erano molto sviluppate perché gli abitanti erano dediti alla produzione di ottimo vino e alla lavorazione di “maccaroni”.

 Affiche pubblicitaria

Torre Annunziata, Affiche pubblicitaria

Per sfruttare le acque del Sarno Muzio Tuttavilla, conte di Sarno, ai primi del Seicento diede incarico all’architetto Domenico Fontana di costruire un canale che, deviando l’acqua del fiume, doveva portare l’acqua a Torre Annunciata per alimentare i molini costruiti per macinare la farina occorrente per fabbricare la pasta. L’opera idraulica implementò la produzione e il commercio del prodotto, esportato dalle navi sorrentine anche fuori Regno, delineando agli inizi i fasti di una fiorente città imprenditoriale, definita “città dell’arte bianca”, un unico immenso pastificio con i tetti, i cortili dei palazzi gentilizi, le strade e le piazze ingombri di paste che si essiccavano all’azione del clima asciutto e alla brezza marina (Di Liello, 2017).

Torre Annunziata, Fabbrica d'armi

Torre Annunziata, Regia Fabbrica d’armi

Un’altra importante attività lavorativa era quella della lavorazione delle armi nella Real Fabbrica d’Armi con annessa ferriera. L’opificio, creato da Carlo nel 1758 sull’antico sito della polveriera (fondata nel 1652 dal viceré de Guevara) su disegni di Luigi Vanvitelli, portati a compimento dal suo allievo Francesco Sabatini, completata da Ferdinando Fuga, aveva cominciato la sua produzione nel 1761. Produceva “armi bianche” e armi di lusso considerate fra le migliori d’Europa. Oggi il sito, conosciuto anche come “Spolettificio”, è Museo delle Armi (Picone, 2021).

Dai primi dell’Ottocento anche il territorio di Torre Annunziata venne riorganizzato per permettere ai “turisti” di visitare le “antichità” di Ercolano e Pompei. Nel 1826 venne riaperta una locanda col nome di Grande Albergo e trattoria della Villa di Pompei” (Giornale del Regno delle Due Sicilie, 20 febbraio). Poi, dopo la scoperta di sorgenti termali, la zona venne riqualificata dal generale borbonico Vito Nunziante. Il 18 giugno 1831, durante un’operazione di trivellazione di un pozzo artesiano, una squadra di genieri dell’esercito borbonico, diretta dal generale, aveva riscoperto il sistema idraulico delle terme che alimentavano la villa di Poppea ad Oplonti. Perciò lo stesso anno fu effettuato uno studio medico sulla proprietà delle acque termo-minerali che risultarono adatte ai bagni termali (Ricci, 1831). Così il Nunziante decise di costruire lo stabilimento termale Terme vesuviane Nunziante (Liberatore, 1831) [11].

Torre Annunziata terme Montella Nunziante

Torre Annunziata terme Montella Nunziante

Lo stabilimento, ancor’oggi in funzione (www.termevesuviane.com), nel 1842 è stato valorizzato con il prolungamento della linea ferroviaria Napoli-Portici, aperta nel 1839 (Pagnini, 2019), che permetteva a tutti di usufruire della benefica azione del termalismo. Le terme furono riorganizzate e ristrutturate nel 1850. Poi erano state acquistate dalla famiglia Montella, che a fine Ottocento realizzò un elegante stabilimento con annessi bagni marini, complesso premiato alla mostra idrologica allestita a Napoli nel 1890 (Il Mattino, 7-8 luglio 1892). Nell’elegante salone dello stabilimento la sera si svolgevano eleganti serate danzanti e si allestivano numerosi concerti (Il Mattino, 3-4 luglio 1893). Pian piano la cittadina divenne una delle principali stazioni balneari e climatiche della zona, ben attrezzata, con eleganti camerini, provvista anche di una zona idroterapica, in cui il medico napoletano A. Fasano si recava due volte alla settimana per i consueti controlli. Qui si  potevano curare diverse malattie, tanto che lo stabilimento poteva fare concorrenza a quello della vicina Castellammare, pubblicizzato diffusamente sul quotidiano Il Mattino (9-10 luglio 1895 e 15-16 agosto 1907).

 Torre Annunziata Lido Azzurro

Torre Annunziata Lido Azzurro

A fine Ottocento lungo la costa erano stati aperti numerosi stabilimenti balneari: in un primo tempo erano state montate poche cabine su palafitte, divise, secondo l’uso del tempo, in due settori, uno maschile e un altro femminile. Poi i lidi erano aumentati e nel 1927 se ne contavano sette, dotati di ogni comfort, con eleganti terrazze a mare, il Lido di Gioacchino Mollo, il Miramar di Liberato Rapacciuolo, il Vittoria di Maria Malvone, il Rinascente di Francesco Cirillo, l’Isola di Rodi”, il Savoia e il Santa Lucia, tutti e tre di Giuseppe Angrisano [12]. Nel 1928 venne aperto il Lido Azzurro (ancora in funzione (http://www.illidoazzurro.it/storia.html), “degno delle migliori spiagge d’Italia”, dotato di un’ampia “pedana da ballo”, il famoso Lido Notte Club degli anni ’60 ed anche di un campo da tennis [13]. Molto frequentati erano anche il Savoia, il Diana il Giovinezza (poi Nettuno), l’Impero (poi Eldorado), La Rinascente, Il Risorgimento, il Bagno Nuovo (Sirago, 2013). Ma dagli anni Settanta, a causa del degrado dovuto all’inquinamento ambientale, si sono succeduti numerosi divieti di balneazione che hanno distrutto questa “industria”. Solo negli ultimi anni si sta cercando di riqualificare il territorio.

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note                                                                                                                                                                                                        [1] Archivo Historico, Madrid, Estado, Nàpoles, Legajo1008/1, successioni feudali fino agli Stigliano; Archivio di Stato, Napoli, d’ora in poi ASN, Commissione Liquidatrice del debito pubblico, 4526.
[2] ASN, Segreteria d’Azienda, 36/4, 7/17, 1747.
[3] ASN, Sommaria, Consulte, 380, ff.44-46, 4/3/1780.
[4] ASN, Supremo Magistrato di Commercio, 1729, 5/4/1780.
[5] ASN, Pandetta Corrente, 719/3892, 1787.
[6] ASN, Ministero dell’Interno, I serie, 183/1, fasc.9, Memoria del Comune della Provincia di Napoli, 1808.
[7] ASN, Casa Reale Antica, III Inventario, Siti Reali, 1929, 29/11/1799.
[8] ASN, Casa Reale Antica, III Inventario, Siti Reali,1166, 1832.
[9] ASN, Questura Napoli AG, I S., Tit. XXIV, fasc. 16, 1234/14, k.
[10] ASN, Disposizioni di Massima, 27/488, 20/6/1906.
[11] ASN, Archivio Privato Nunziante, busta73 fs. 7, avviso di apertura.
[12] ASN, Disposizioni di massima, 27/488, 4/6/1927.
[13] http://tuttotorre.blogspot.it/2011/05/panorama-balneare-tutto-pronto-per.html, articolo del 1933 pubblicato da torrese64 il 14/5/2011. 
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Jacopo Sannazaro di Napoli. Dal primo settembre 2017 è in pensione. Affiliazione: Nav Lab (Laboratorio di Storia Marittima e Navale), Genova. Membro della Società Italiana degli Storici dell’Economia, della Società Italiana degli Storici, della Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, della Società Italiana di Storia Militare. Ha scritto alcuni saggi e numerosi lavori sulla storia marittima del regno meridionale in età moderna. Tra gli ultimi suoi studi si segnalano: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2013; Gente di mare Storia della pesca sulle coste campane, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2014; Il mare in festa Musica balli e cibi nella Napoli viceregnale (1503-1734), Kinetés edizioni, Benevento, 2022.

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