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La “crisi della presenza” dell’antropologia nello spazio pubblico

 

Bronislaw Malinowski nelle Isole Tobriand, 1918

Bronislaw Malinowski nelle Isole Tobriand, 1918

di Dario Inglese 

Nell’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei (n. 57, settembre 2022) hanno cominciato a delinearsi i contorni di un interessante dibattito sul futuro della scienza demologica italiana e, in generale, sul peso accademico e sociale dell’antropologia tutta. I saggi di Letizia Bindi e Lia Giancristoforo, in particolare, hanno puntato l’attenzione sulle difficoltà che questi saperi stanno attraversando e, soprattutto, sulla fatica che i loro cultori sopportano quotidianamente per accreditarsi come esperti riconosciuti e per non vedere ignorate (o travisate) le loro categorie analitiche.

Il dibattito in realtà non è nuovo. Le stesse difficoltà di queste discipline nuove non sono. E i due termini della questione (crisi e ricerca delle soluzioni), d’altra parte, sono strettamente intrecciati. Si può sostenere, infatti, che l’antropologia, nelle sue varie declinazioni, sia un sapere perennemente in crisi – un sapere della crisi? Essa, oltre ad essersi prodotta in incessanti modifiche e ricalibrazioni delle proprie griglie interpretative (alla costante ricerca di un oggetto mutevole e sfuggente: l’essere umano), è da sempre animata dall’ansia di affermare la sua esistenza. Non si consideri blasfemo l’accostamento: l’antropologia sembra scontare una demartiniana “crisi della presenza” che ne accompagna i passi fin dalla nascita, che scorre carsica quando le cose procedono per il meglio e che riappare inesorabile in certi momenti.

La mia riflessione propone una visione decentrata, da outsider non accademico. Non intendo entrare nel dettaglio delle questioni sollevate da Bindi e Giancristoforo (non ne avrei le competenze), bensì riflettere più in generale sull’utilità dell’antropologia e sul ruolo pubblico degli antropologi. Se dal punto di vista accademico italiano, la fusione a freddo tra i campi della Demologia, dell’Etnologia e dell’Antropologia (così evidente nella sigla “Beni DEA”) appare responsabile dei guai odierni, le ricadute di questa mai sanata frattura interna influiscono direttamente sul peso complessivo del discorso antropologico nel nostro Paese e sull’immagine distorta che le istituzioni ne hanno. Le due cose, a mio avviso, sono strettamente collegate: non mi pare casuale, infatti, che una disciplina debole e poco coesa all’interno dell’Università fatichi, nonostante gli sforzi e le lodevoli eccezioni, ad affermarsi fuori dalle mura accademiche.

Parlerò allora dal punto di vista di un osservatore che attesta la marginalità (o l’assenza) della disciplina in cui s’è formato quando si affrontano le più stringenti questioni del presente, persino quando nel discorso politico si fa espresso riferimento a concetti antropologici. Senza pretesa di esaustività presenterò qualche appunto attingendo alle mie disordinate notazioni sul tema. Partirò da un aneddoto che inquadri la questione e ne faccia emergere le criticità; continuerò con una personalissima (e parzialissima) riflessione sulla storia disciplinare per mostrare come il problema della visibilità sia stato sempre molto sentito in antropologia; guarderò brevemente agli studi italiani per evocare le possibili cause della debolezza odierna; concluderò con qualche considerazione sul rapporto tra comunicazione e spazi che gli antropologi potrebbero proficuamente occupare.

Prima però una giustificazione: non ci saranno soluzioni. Quelle andranno sperimentate giorno dopo giorno dentro e fuori dall’Accademia. 

il-tempo-donneQualche anno fa, non ricordo esattamente quando, partecipai ad uno degli incontri organizzati nell’ambito della rassegna “Il tempo delle donne”. Nei locali della Triennale di Milano si discuteva di questioni di genere, pari opportunità e accesso femminile al mondo lavorativo e politico e tra gli interventi in programma figurava, con mia grande sorpresa, anche quello di un’antropologa.

La studiosa, che aveva il compito di aprire i lavori del sabato pomeriggio, si produsse in un bel saggio di antropologia pop. In un pezzo dall’alto valore divulgativo, passava in rassegna alcuni stereotipi sulle donne e ne criticava, con tagliente ironia, il maschilismo strisciante attraverso confronti transculturali. Il pubblico, numeroso e attento, partecipava con entusiasmo e si lasciava andare a vivaci apprezzamenti durante i passaggi più divertenti; io ascoltavo con curiosità e non potevo fare a meno di ammirare (e invidiare) la capacità retorica di quella studiosa. Tuttavia, più l’intervento andava avanti più sentivo montare un crescente disagio. Il mio fastidio non era dovuto affatto al taglio del pezzo, bensì allo spazio che, nel contesto di quel dibattito, gli era stato riservato e che andava delineandosi con evidente chiarezza. L’incontro, infatti, era strutturato in due momenti ben distinti: dapprima una gustosa e straniante introduzione cui l’antropologia poteva contribuire grazie al suo sguardo sghembo; poi il confronto vero e proprio su economia e politica cui, va da sé, l’antropologia non aveva diritto di partecipare. L’antropologa, dunque, aveva solo il compito di allentare la tensione prima della discussione seria: non a caso, quando entrarono in scena le altre attanti – giornaliste, manager, l’allora vicepresidente del Senato – aveva già salutato il pubblico. Insomma: finché c’erano da mettere in fila stranezze culturali (o arretrati comportamenti nostrani) l’antropologia aveva un senso; quando invece le cose si facevano delicate e ci si approcciava al volto oppressivo e patriarcale del potere, beh, le competenze cui rivolgersi erano decisamente altre.

Così, mentre ascoltavo quei ragionamenti, mi ritrovai doppiamente in imbarazzo: come uomo ero stato messo a nudo e inchiodato a pregiudizi incorporati e habitus duri a morire; come antropologo avevo toccato con mano il modo in cui l’antropologia era considerata in quel consesso, al di là delle intenzioni dell’incolpevole etnologa. L’intrinseco valore del suo intervento, infatti, era stato disinnescato dal contesto e, nonostante la sua comunicazione fresca ed efficace, aveva finito per reiterare inconsciamente l’immagine di disciplina strana, magari affascinante e perturbante, ma sostanzialmente lontana dai problemi reali di un Paese moderno come l’Italia.

Da giovane studente mi piaceva citare una definizione coniata da Clifford Geertz (2001: 81) per descrivere il lavoro degli antropologi: noi siamo – scriveva lo studioso americano al termine di una densa riflessione sul relativismo culturale – «venditori ambulanti di anomalie, spacciatori di stranezze, mercanti di stupore». Mi ritrovo ancora in queste parole (e continua a divertirmi quel brivido un po’ snob che veicolano), ma ho l’impressione che esse cristallizzino gli antropologi in un’identità in buona parte responsabile della loro marginalità politica. È vero, «non ci occupiamo solo di magia, di guaritori o di UFO», ma, con buona pace di Sandra Puccini (2006), quanta fatica ad accreditarci come esperti della contemporaneità in grado di parlare alla pari con i rappresentanti di discipline più strutturate!

Non sorprende allora che nel presentare il World Anthropology Day tenutosi a Milano nel 2020 una rivista generalista come Vanity Fair abbia titolato francamente [1]: Ma, in pratica, che lavoro fa un antropologo? Così come non sorprende che l’articolo sia stato accompagnato dal primo piano di un nativo. Qualcosa evidentemente è andato storto. E il problema di certo non scompare se lo ignoriamo e, come antropologi, ci rallegriamo per esserci finiti, nel 2020, su Vanity Fair 

In antropologia, disciplina inquieta e sostanzialmente priva di uno statuto epistemologico forte, il problema della spendibilità pubblica del proprio sapere si è sempre accompagnato al faticoso tentativo di legittimarsi scientificamente. Tra incertezze, vicoli ciechi e affiliazioni epistemiche più o meno avventurose, i suoi cultori hanno cercato di ritagliare i contorni di un oggetto di ricerca proprio e di approntare metodologie in grado di giustificare il valore (e, a monte, l’esistenza) del loro contributo.

a40dbcdcover08273Un certo luogo comune vuole che gli antropologi abbiano cominciato a interessarsi alla propria identità sociale (e politica) solo molto tardi e che abbiano passato i primi decenni della loro storia a presentarsi come ricercatori asettici al servizio di una scienza esatta. Dei “camaleonti etnografici”, per dirla sempre con Geertz (1988: 71): analisti in camice bianco che, prendendo le mosse dalle imperiose descrizioni vittoriane prima e dalla fondativa etnografia di Bronislaw Malinowski alle Trobriand poi, hanno cercato di rappresentare fedelmente l’alterità ritraendola nei suoi tratti caratteristici indipendentemente dall’occhio che osserva e, soprattutto, dall’inesorabile peso della storia. Nei manuali di storia della disciplina questa fase viene solitamente indicata con l’espressione “etnografia d’urgenza” per evidenziare la missione paradossale di quegli studiosi: fermare lo scorrere del tempo fotografando realtà pure e incontaminate che, sotto il peso dell’avanzata occidentale, essi vedevano (o credevano di vedere) scomparire davanti ai loro occhi.

In realtà i primi etnografi professionisti, e a dire il vero anche gli antropologi vittoriani, erano perfettamente consci del paradosso sopra indicato: sapevano benissimo, cioè, dove lavoravano e per chi; in quali condizioni politico-sociali versassero i terreni da loro frequentati e come ciò influisse sul loro ruolo e sulla loro funzione di ricercatori. E del resto quel ruolo e quella funzione, quegli studiosi, li rivendicavano con forza; solo articolavano la loro attività in due ambiti distinti. Ciò produsse un duplice effetto sul pensiero antropologico: da una parte favorì lo sviluppo di una disciplina “pura” (non interessata allo spazio coloniale che di fatto ne permetteva l’esistenza), mirante alla conoscenza oggettiva dell’essenza culturale e al progresso scientifico; dall’altra generò un’antropologia “applicata” che intratteneva un dialogo costante con le amministrazioni d’oltremare e si riprometteva di fornire dati spendibili per il controllo dei territori. Mentre la prima operava come se la ricerca etnografica non avesse alcun condizionamento extra-scientifico, la seconda lavorava all’ottimizzazione della macchina coloniale e gettava le basi per un ragionamento sugli impieghi non accademici del sapere antropologico.

Questo secondo movimento portò alla nascita della cosiddetta “antropologia pratica” (definizione coniata da Malinowski), disciplina nella quale finalità euristiche e governative si sovrapponevano in nome dell’interesse per gli stessi temi: diritto fondiario, economia tribale, organizzazione sociale, struttura familiare e parentale, lingua primitiva. Fu proprio Malinowski, del resto, in scritti che meriterebbero oggi ben altra attenzione, a dimostrarsi molto sensibile circa la funzione pubblica degli antropologi e a spingere la ricerca etnografica ad abbandonare le speculazioni diacroniche e antiquarie di matrice evoluzionista per abbracciare interessi più utili politicamente. E fu sempre Malinowski a mostrarsi accorto circa il non trascurabile peso che la storia aveva per le cose etnografiche e a ipotizzare che il selvaggio incontaminato fosse solo frutto di certa immaginazione antropologica. Il grande studioso anglo-polacco, non a caso, sottolineava come l’antropologia non dovesse andare a caccia di dubbie essenze, bensì indagare il «nativo che sta cambiando» (Malinowski 1929: 67) e «il selvaggio bianco fianco a fianco con quello nero» (Malinowski 1930: 84). Che fosse cioè necessario «studiare i processi di cambiamento culturale come se si trattasse di un nuovo tipo di civilizzazione umana, in quanto ogni nuova istituzione si sviluppa attraverso forze che emergono dall’impatto culturale» (Malinowski 1940: 108).

Certo è sorprendente trovare simili riflessioni in uno studioso che nelle sue celebri monografie accademiche aveva ignorato l’importanza della dinamica storica e del contatto culturale. E, d’altra parte, oggi fa specie notare l’indifferenza di Malinowski per il dispositivo coloniale e, anzi, la sua volontà di contribuirvi attivamente senza metterlo in discussione. Tuttavia le sue parole mostrano come in tempi non sospetti fosse già matura una spiccata sensibilità per un tema dirimente: l’importanza dell’expertise antropologica e le strategie da attuare per implementarla (in questa sede non mi interessa giudicare se moralmente giuste o sbagliate). Anticipano, infine, la futura evoluzione del discorso disciplinare giacché qualche decennio dopo la sua morte, in piena decolonizzazione e contro la sua stessa postura teorico-politica, la riflessione sul peso pubblico dell’antropologia e sull’etica della ricerca diverrà un topos ineludibile per chiunque approccerà il campo.

Ogni ragionamento sulla forza attuale dell’antropologia nell’arena pubblica, a mio avviso, affonda le radici in questi dibattiti lontani nel tempo. La tensione tra legittimazione accademica e ricerca di visibilità, del resto, continua ad animare una disciplina che purtroppo fatica ad uscire dalla condizione di incertezza e marginalità che l’accompagna fin dalla nascita. E questo nonostante la crescente presenza degli antropologi nel mondo del lavoro (nella cooperazione internazionale, nel marketing, nella moda, nella mediazione culturale, nell’educazione, financo – purtroppo – nell’industria militare, etc.) e la viva partecipazione di molti di loro al dibattito pubblico (penso ad alcuni nomi che negli ultimi decenni hanno conosciuto grandissima notorietà: Arjun Appadurai, Marc Augé, David Graeber, solo per fare qualche esempio). 

faetaSe persino tradizioni disciplinari forti (quelle anglosassoni in primis o quella francese) ciclicamente si dimostrano preoccupate per la scarsa considerazione loro riservata, non sorprende che la questione assuma toni decisamente più allarmanti in Italia. Che l’antropologia italiana, al di là della qualità innegabile della produzione scientifica e del fiorire di associazioni di categoria, non goda di una salute di ferro è un dato di fatto testimoniato dalla presenza ridotta che la disciplina ha all’interno dell’Accademia (numero dei docenti strutturati, accesso ai fondi, assenza di proprie facoltà) e dal ruolo limitato da essa rivestito fuori. Sotto questo aspetto, una puntuale e analitica ricognizione della storia degli studi antropologici nel nostro Paese deve ancora essere scritta, ma alcuni lavori recentemente hanno accettato la sfida analizzando il presente alla luce del passato.

Per Francesco Faeta (2011) l’antropologia italiana contemporanea sconta la tradizionale allergia alla ricerca di campo e il proverbiale ripiegamento sulla dimensione folklorica e demologica (ivi: 90). Secondo questa prospettiva, l’enorme figura di Ernesto de Martino – con il suo approccio poco etnografico (almeno secondo gli standard britannici) e il radicale impegno politico storicista e marxista – da una parte ha rappresentato l’acme di una disciplina protagonista del discorso pubblico dell’epoca; dall’altra ha progressivamente scavato un gap difficile da colmare sedimentando l’immagine di una scienza interessata solo ai dislivelli interni di cultura e ad oggetti (quelli della cultura popolare) tradizionali e tutti locali (ivi: 107-115). Da qui, dunque, la marginalità dell’antropologia nostrana al cospetto dei grandi indirizzi internazionali e, parallelamente, la crisi annunciata di una demologia (nel cui solco si sono formati i più brillanti studiosi del Dopoguerra e, conseguentemente, i loro allievi) rimasta troppo appiattita sull’impostazione gramsciana veicolata da de Martino e fondamentalmente incapace di affrancarsi fino in fondo da una angusta visione del folklore (ivi: 116-122).

Per Fabio Dei (2012), al contrario, guardare alla tradizione antropologica italiana avendo in mente quella anglosassone è un errore prospettico. Come ammesso dallo stesso Faeta, infatti, il nostro Paese non ha conosciuto (o ha conosciuto solo in parte) condizioni strutturali tali da favorire fieldwork esotici (ivi: 103). Inoltre, quando tali “condizioni” si sono presentate, da un lato gli indirizzi disciplinari nazionali hanno continuato a privilegiare tratti propri, irriducibili rispetto a quelli britannici o americani (i cui esponenti erano nel frattempo impegnati a edificare la scientificità dell’antropologia sull’etnografia) e più vicini agli indirizzi folklorici tedeschi e francesi; dall’altro hanno sbattuto contro l’autarchia fascista compromettendosi col regime (ibidem).

deiDiverso anche il giudizio su de Martino: per Dei, infatti, lo studioso napoletano non può essere incluso tra i folkloristi di casa nostra e il suo uso del dispositivo gramsciano egemonia-subalternità rappresenta un lascito fecondo che la demologia successiva, teorizzando il folklore come “universo culturale autonomo” e dimostrandosi incapace di leggere l’evoluzione sociale delle masse popolari, ha irrigidito fino al fraintendimento (ivi: 104-110). Insomma, de Martino non è stato il responsabile del ritardo della nostra antropologia e andrebbe semmai recuperato proprio per riallacciare il dialogo con le antropologie internazionali e i cultural studies (che nel frattempo hanno riscoperto Antonio Gramsci). In tal modo l’asfittico panorama nazionale odierno potrebbe ricomporre la frattura tra demologia e antropologia e, senza dover necessariamente fare etnografia lontano da casa, aprirsi a uno studio a tutto tondo della cultura di massa e dei suoi prodotti che sia veramente organico rispetto ai suoi fruitori e sensibile ai mutamenti sociali (ivi: 110-113).

I due autori (qui citati fin troppo sommariamente) si confrontano principalmente su questioni epistemologiche e metodologiche che potrebbero sembrare distanti rispetto al mio ragionamento. Tuttavia, pur nella diversità dei loro punti di vista, Francesco Faeta e Fabio Dei riflettono sulle cause della debolezza dell’antropologia italiana e, indirettamente, tracciano piste utili per uscire dall’impasse. 

Torniamo dunque all’oggi. Le domande sono tante e urgenti. Com’è possibile che un sapere ontologicamente fondato sull’alterità resti escluso dai dibattiti su migrazioni, genere, famiglia, razzismo, politiche identitarie, processi di museificazione e patrimonializzazione, educazione, rapporto col territorio e antropocene? Perché, persino quando si parla di “cultura” e “tradizione” in relazione alle dinamiche sociopolitiche contemporanee, vengono interpellati per primi altri scienziati sociali? Perché il discorso antropologico, quando esce dall’Accademia, viene spesso ignorato, minimizzato, frainteso, strumentalizzato? Qualcosa, lo dicevo prima, è andato storto. Ma cosa? Forse gli antropologi, come scriveva Francesco Remotti (2008: 101-102), danno davvero l’impressione di essere i meno esperti tra gli esperti? Oppure, come osservava con crudele ironia Geertz (1987: 40), non sono in grado di fornire risposte certe e sanno solo tormentarsi a vicenda? L’antropologia è davvero un sapere autoreferenziale e incapace di aprirsi al mondo come l’antropologo americano sembrerebbe suggerire?

Se così fosse si tratterebbe di un fallimento su tutta la linea, ma fortunatamente le cose non sembrano stare in questo modo. Ciò di cui allora si avverte un gran bisogno, per restare in Italia (ma non solo), è una non più rinviabile impresa storiografica che ricostruisca l’evoluzione degli studi antropologici dal punto di vista epistemologico e sociale insieme (cfr. Dei 2018: 90-94). Che indaghi, cioè, i modi in cui una certa costruzione dell’alterità culturale (esotica o folklorica), utile a puntellare una disciplina ancora giovane, sia entrata in risonanza con il sentire comune nello spazio pubblico e politico; e come, di contro, il ripensamento dei tratti più essenzialisti di quella costruzione non sia stato recepito all’esterno, oppure relegato a rumore di fondo di un sapere di retroguardia cui lasciare le briciole accademiche. Un’impresa, infine, che si preoccupi di indagare il modo in cui gli antropologi comunicano (o non comunicano) per capire come i loro strumenti interpretativi possano essere portati fuori dall’Accademia coniugando rigore metodologico e chiarezza espositiva.

timIl fatto che gli antropologi non producano grafici e tabelle, che raramente abbiano a che fare con i numeri e la ricerca quantitativa, che non vadano (più) in giro con questionari precompilati o che perdano tanto tempo a parlare con la gente prima di scrivere qualcosa, non li rende meno autorevoli di sociologi, psicologi, economisti, politologi e storici (per restare nell’ambito delle scienze umane e sociali). Certo l’antropologia spesso ci mette del suo per apparire algida e lontana dalla quotidianità dando l’impressione, specie negli ultimi tempi, di essere più impegnata a parlarsi addosso con un linguaggio poco attento a un pubblico generalista; di inseguire posture ipercritiche, decostruzioniste e militanti che, per quanto ammirevoli nel loro impegno etico, faticano ad uscire dalla bolla della Theory per avvicinarsi organicamente a quegli oppressi cui si vorrebbe dar voce; di arroccarsi nell’Aventino Accademico per paura di non padroneggiare tempi e codici dei mezzi di comunicazione di massa e rischiare così di essere fatta parlare altrimenti.

Ma ecco allora altre domande: è solo questione di comunicazione? Acquisite adeguate skills retoriche, visibilità e rilevanza sociale arriveranno da sé? Probabilmente, come sostiene Ulf Hannerz (2010), gli antropologi dovrebbero brandizzarsi e vendersi meglio lasciando da parte il compromesso concetto di “cultura” per ricorrere, a patto di non reificarlo, a quello di “diversità”. Così facendo essi si dimostrerebbero più in sintonia con la società contemporanea e, soprattutto, potrebbero recuperare il loro storico ruolo di sentinelle anti-etnocentriche. La proposta è intrigante e svela anche insospettabili alleanze. Attraverso vie traverse e contorte, infatti, la provocazione di Hannerz potrebbe incontrare paradossalmente le prese di posizione dell’ultimo Tim Ingold (2018; 2022) contro l’immagine neoliberista della conoscenza: studiare con il mondo in cui viviamo (pensare con; fare filosofia con; corrispondere), anche quando non siamo d’accordo con lui, usandone il pervasivo linguaggio tardocapitalista per opporvisi dall’interno. Tutto molto bello. Però attenzione: come dimostra l’episodio posto in apertura di questo scritto, la sola comunicazione smart non basta quando gli spazi non sono occupati, bensì concessi; quando cioè il contesto depotenzia il messaggio e di fatto svaluta a monte il valore aggiunto dell’antropologia nell’arena pubblica.

copertina-fbAffinché la disciplina possa veramente progredire in tal senso serve allora il contributo di tutti: gli accademici, al di là di corporativismi e divergenze ideologiche- metodologiche, non dovrebbero evitare di intervenire nelle questioni più spinose del presente; i giovani ricercatori non dovrebbero farsi scoraggiare da una società che di loro conosce poco e tende a ignorarne la competenza. Lo scrivo, nel mio piccolo, da socio e membro del Comitato scientifico di una piccola associazione per la valorizzazione dell’antropologia che opera a Milano [2]. Tra le varie iniziative organizzate, oltre a cineforum e laboratori formativi, discreto successo di pubblico hanno riscosso tanto le conferenze legate a tematiche folkloriche quanto quelle dedicate a fenomeni quali femminismo e razzismo. E lo scrivo da docente di scuola secondaria di secondo grado. Le praterie che si schiudono quotidianamente per l’antropologia nell’educazione sono sconfinate e non si limitano ai campi più intuitivi: integrazione e valorizzazione delle differenze, contrasto alla discriminazione razziale, parità di genere, democrazia e partecipazione, cambiamento climatico. Esse riguardano anche ambiti specialistici e strettamente curriculari: cultura dell’alimentazione e valore simbolico del cibo, antropologia del turismo, della religione, dell’arte, nuovi modelli educativi. E chissà quanti altri ancora.

È probabilmente banale chiudere l’ennesimo scritto sulla crisi dell’antropologia con un elenco delle mirabolanti cose di cui un antropologo potrebbe occuparsi, ma evadere dall’isolamento accademico (a maggior ragione per una disciplina che sconta una debolezza strutturale) richiede pazienza e costante ritorno su ciò che si crede di aver capito, esattamente come fanno gli etnografi prima di riportare a casa qualcosa di sensato. Aprirsi al mondo esige tempo, serietà e volontà di fare sana e costruttiva autocritica. La via non si scorgerà subito, ma non bisogna smettere di cercarla.

Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022 
Note
[1] https://www.vanityfair.it/mybusiness/network/2020/02/20/lavoro-antropologo-world-anthropology-day
[2] L’associazione Antropolis nasce nel 2012 da un’idea di un collettivo di ex studenti di antropologia dell’Università di Milano Bicocca e dell’Alma Mater di Bologna. Si occupa di promuovere la diffusione del sapere antropologico attraverso l’organizzazione di eventi divulgativi gratuiti e aperti al pubblico. Per saperne di più: http://www.associazioneantropolis.org/ 
Riferimenti bibliografici 
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Dei F. 2012, L’antropologia italiana e il destino della lettera D, in L’Uomo, 1-2: 97-114. 
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Faeta F. 2011, Le ragioni dello sguardo. Poetiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria, Bollati Boringhieri, Torino.
Geertz C. 1987 Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna; ed. or 1973.
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Giancristoforo L. 2022, La valutazione interna dei demo-etno-antropologi tra corporativismi e forze centrifughe, in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022. 
Hannerz U. 2010, Diversity is our business, in American Anthropologist 112(4): 539-551.
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Remotti F. 2008, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Bari.

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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.

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