di Antonino Cangemi
C’erano una volta i cantastorie. C’erano prima della scomparsa delle lucciole di pasoliniana memoria. S’aggiravano, menestrelli vagabondi, per le piazze delle città e dei paesi siciliani. Il loro armamentario semplice e rudimentale: la chitarra da legare al collo, i cartelloni coi “fumetti” giganti che segnavano gli episodi delle vicende narrate. Storie, per tradizione, legate a fatti di sangue, a tradimenti o all’esaltazione di briganti: Salvatore Giuliano su tutti, nella sua veste, avvolta dal mito, di Robin Hood perseguitato dalla giustizia.
Erano tutti bravi, i cantastorie, capaci di rapire l’attenzione della folla con arte affabulatoria e con la tecnica arcaica e studiata delle loro melodie, quasi sempre circoscritte a un giro elementare di accordi. Una tecnica, affinata nel tempo, che aveva nell’alternanza del recitato e del cantato il suo segreto, e in quel passaggio la magia inimitabile.
Ma tra di essi, ve ne era uno che su tutti spiccava per originalità, estro, capacità comunicativa, alimentando anche gelosie e invidie: Ciccio Busacca [1].
Busacca nacque a Paternò il 15 febbraio del 1925. Suo padre faceva il fornaciaio e Francesco – per tutti Ciccio –, sin da piccolo conobbe la fatica dei lavori più duri: d’estate aiutava il padre a modellare mattoni e tegole da cuocere nelle fornaci, d’inverno si recava alla zolfara di Catenanuova; venticinque chilometri a piedi per raggiungerla e calarsi nell’inferno di quelle gallerie sotterranee infuocate, per poi tornare a casa dopo due settimane.
Sebbene non sapesse scrivere, Ciccio inventava storie ispirate dai fatti di cronaca locale. Più che un gioco,era come una malattia, per l’ancora adolescente Ciccio, quel raccontare a se stesso, al ritmo di endecasillabi e settenari, vicende della vita d’ogni giorno che accendevano la fantasia della gente attratta dagli spettacoli dei cantastorie. Quei monologhi però non conducevano a nulla: possedere talento e tenerlo nascosto non valeva niente, soprattutto se si era poveri.
Un giorno, perciò, Ciccio si decise ad andare a trovare Gaetano Grosso, il cantastorie più bravo di Paternò, e a lui raccontò una storia molto particolare. Gaetano Grasso intuì il suo talento e lo esortò a imparare a suonare la chitarra per accompagnare la narrazione con la musica: bastavano pochi accordi, sempre gli stessi, poi era compito suo metterci il cuore dentro per catturare l’attenzione di chi l’ascoltava. Sarà Paolo Garofalo, detto “lu zoppu” per la sua andatura claudicante, altro cantastorie di quei luoghi, a insegnargli i fondamentali ed elementari segreti della chitarra [2].
Il giovane Busacca svelò il suo timbro originale sin dalle prime performance. In quelle, a fargli da gregario, distribuendo e vendendo per poche lire i foglietti con la “storia”, era il fratello più piccolo, Nino (in casa erano sei fratelli); il cartellone se lo fece dipingere da un artista di strada messinese, un madonnaro completamente analfabeta.
Nella piazza di San Cataldo, nel lontano 1951, risuonò per la prima volta la voce di Ciccio Busacca spezzata dall’emozione per una storia diversa dalle solite. Protagonista una ragazza diciassettenne che consuma la sua vendetta uccidendo, travestita da vecchia, chi l’aveva violentata. Il successo fu immediato e insperato. Ciccio cominciò a girare la Sicilia, insieme al fratello Nino, dapprima in bicicletta, poi con la Cinquecento, naturalmente portandosi appresso tutto ciò che occorreva ai cantastorie. La mattina si esploravano i quartieri dei paesi, la sera lo spettacolo in piazza, la notte si dormiva nei fondachi, sulla paglia, come facevano allora i carrettieri.
La storia (“L’assassino di Raddusa”), tratta dalla cronaca, ottenne, qualche anno dopo, il premio “Trovatore d’Italia” conferito dall’Associazione Italiana Cantastorie Ambulanti. Correva l’anno 1957 e Busacca sbaragliava la nutrita concorrenza – cantastorie provenienti da varie parti della penisola: Napoli, Roma, Milano – in quel raduno che si tenne a Gonzaga, in provincia di Mantova, nella giuria vi erano, tra gli altri, Cesare Zavattini e Roberto Leydi.
Soprattutto, però, quella storia segnava una svolta nella tradizione dei cantori di strada: Ciccio Busacca, che nel frattempo aveva imparato a leggere e a scrivere, divenne, sin da allora, paladino dei poveri e dei deboli. Formatosi alla scuola del suo paese di Garofalo e Grasso, ne aveva acquisito i moduli espressivi ma ribaltato lo spirito. La voce del cantastorie, la sua mission come adesso si direbbe, da allora assunse carica ribelle, si elesse a nemica delle ingiustizie sociali.
Il suo singolare talento non sfuggì a Ignazio Buttitta, che consegnò alla sua voce e alla sua chitarra U lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali e Lu trenu di lu suli [3]. La ribellione di Francesca Serio, madre del sindacalista ucciso dalla mafia, è cantata con vibrante passione; la tragedia di Turi Scordo, che emigra in Belgio per morire in una miniera, storce il volto del cantastorie in smorfie di dolore.
Le interpretazioni di Busacca sono memorabili: emozionano, fanno vibrare le corde dei sentimenti più puri, accapponano la pelle. Busacca recita e canta quelle pagine di poesia con intensa e commossa partecipazione. E perfino la mafia, parola che allora andava pronunciata sottovoce e i cui delitti venivano insabbiati nelle inchieste giudiziarie, su impulso di Buttitta ispira la creatività di Ciccio Busacca: “Ora gridamu tutti ca vuci forti / Sicilia non è terra di morti / livamuninni bavagli e li catini / né mafia chi cumanna né assassina”[4].
Vi era una teatralità innata e genuina in Busacca, di cui si accorse persino Dario Fo. Che lo portò con sé a recitare nei suoi Mistero Buffo, Ci ragiono e canto n.3, Giullarata. Si era negli anni Settanta, e quello fu il momento di maggiore popolarità di Ciccio Busacca. La sua straordinaria forza comunicativa varcava lo Stretto. Il cantastorie siciliano sfoggiava il suo talento anche nel teatro, fuori dalla piazza. Non mancheranno per questo le polemiche e le critiche di altri cantastorie: tra loro, Orazio Strano della scuola catanese legata alla tradizione, ma anche Franco Trincale che, seppure seguendo la scia dell’impegno civile, dirà del rivale di essersi trasformato in un fantoccio di Dario Fo.
Non saranno però queste voci, maliziose e mosse da ingenui dualismi, a segnare il declino di Ciccio Busacca. Lento e inesauribile sino ai suoi ultimi giorni (morirà a Busto Arsizio, lontano dalla sua Paternò, l’11 settembre del 1989). Ma le televisioni commerciali, l’omologazione culturale, il crescente diffondersi di gusti facili e melensi. E quelle lucciole che, nei nostri campi, non si vedevano e non si vedono più.
L’ho ascoltato dal vivo, da giovane, assieme a Rosa Balistreri. Emozioni irripetibili.