Per una premessa a proposito di patriarcato
Nell’ambito dei più recenti gender studies, antropologia storica e archeologia trovano spazi di confronto che contribuiscono a dare nuove interpretazioni, in particolare, a quella che possiamo definire archeologia di genere; a voler considerare solo alcuni studi, emergono nuove letture su ruoli, sull’agire e sul fare in momenti preistorici fondamentali della presenza umana. Si consideri, ad esempio, la ricerca dell’archeologa inglese Margaret Ehrenberg, La donna nella preistoria (1992), che, già da qualche decennio, individua nuovi percorsi di indagine in un arco temporale che va dal Neolitico all’età del Ferro, circa lo status femminile agli albori della civiltà.
D’altra parte, gli studi antropologici e demologici hanno a lungo ispezionato le culture arcaiche e non solo, in alcuni ambiti specifici e su quello che Giulio Angioni ha definito Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture (2011), a partire dai rapporti e dalle relazioni di genere. In questo spazio di riflessione antropologica di lungo termine, non è possibile, dunque, non guardare alle culture contadine del Mediterraneo, in particolare alla divinizzazione del femminile che, però, avviene in momenti successivi, legati già alla trasformazione del patriarcato. È necessario superare molti pregiudizi interpretativi e gratuite semplificazioni, provando a ribaltare anche alcune presunte certezze sulle periodizzazioni della storia e sui materiali utilizzati nelle diverse epoche.
A proposito del passaggio dal Paleolitico al Neolitico, prende sempre più spazio la grande rilevanza del legno [1] che, alleato con i metalli, diventa elemento rivoluzionario e “tecnologico” decisivo: «Anche in Occidente il legno costituiva la materia tecnologica più utilizzabile, in contesti operativi e di vita che forse con un qualche anticipo consentivano ai gruppi umani di mobilitarsi, con imbarcazioni e tecniche in sviluppo, lungo le rotte marine» (Ruta, 2023: 57-58). Malgrado ciò, esso, seppur elemento determinante e imprescindibile dei primi tentativi di ingegneria e architettura, viene, poi, quasi dimenticato, se non sottostimato, parimenti alla presenza e al contributo della donna nel processo di sviluppo ed evoluzione dell’umanità. Potremmo, così, ravvisare un legame o una similitudine legno/donna, come esempi positivi di nuove peculiarità, laddove è evidente che sono stati costituenti necessari e indispensabili. C’è, dunque, uno snodo fondamentale su cui riflettere, e che questo breve saggio cerca di mettere in luce, ovvero come sia necessario acquisire che il patriarcato, come tratto caratterizzante delle culture umane, ha avuto un momento di affermazione a partire da comunità preistoriche, in cui il ruolo della donna e le culture del fare non erano così connotate dal genere nella definizione di compiti e saperi.
Partiamo, in questa disamina, da un dato apparentemente in contraddizione con quanto appena detto; il mistero della nascita, patrimonio del femminile, rendeva quasi necessaria una caratterizzazione peculiare dell’identificazione del divino con il femminile: in principio, Dio era femmina, o meglio, “Dio è nato donna” [2]. È noto che la figura femminile è presente tra i primi oggetti creati dall’essere umano, soprattutto in area mediterranea, e incarna una forma di divinità primigenia, capace di generare la vita e riprodurre la specie. È una Grande Madre, l’archetipo femminino, maturato nell’inconscio collettivo ai primordi dell’umanità, il principio assoluto della vita e della creazione, corrispondente, seppure con le dovute differenze, al Dio della Bibbia, una divinità onnipotente, onnisciente e partenogenica, capace di creare da sé stessa, simbolo della fertilità e della perenne palingenesi delle stagioni.
Il percorso proposto si sofferma su alcuni momenti lungo un asse temporale che attraversa millenni ed epoche, con punte all’indietro al Paleolitico e riferimenti ai gruppi nomadi di raccoglitori fino, poi, all’età del bronzo mediterraneo, alla civiltà minoico/micenea e all’invasione dorica, con lo spostamento verso il mare. In altri termini, si pone l’accento su alcuni aspetti del mondo mitico/storico, prima delle grandi migrazioni dei greci nel Mediterraneo fino alla persistenza di alcuni modelli culturali nel mondo contadino e nel matricentrismo mediterraneo.
Verso una etnoarchelogia consapevole
Per gran parte del secolo XIX, preistoria e protostoria sono state frutto di una ricostruzione fatta di clichés e di processi inculturativi radicati, legati all’immagine delle donne che vivevano all’interno della caverna ad allevare bambini e ad aspettare che il cacciatore provvedesse al cibo, alla protezione e alla difesa. Come già aveva rilevato Virginia Woolf nel 1929, quando si parla delle donne e del loro contributo nell’universo del fare, del creare, del realizzare, la storia «così com’è appare spesso un po’ strana, irreale, sbilenca» (Woolf, 1995: 65). Un significativo passo avanti, che risponde anche alla necessità, individuata da Woolf stessa, di legittimare il posto della donna nella storia, – «perché non dovrebbero aggiungere un supplemento alla storia […] di modo che le donne possano figurarvi senza sconvenienza?» (Woolf, 1995: 65) – viene compiuto, durante gli anni Settanta del secolo scorso, dal riconoscimento, da parte delle antropologhe femministe, della presenza di donne che praticavano l’orticoltura. Grazie a queste scoperte, oggi è possibile parlare di una etnoarcheologia, che occupa, un posto di rilievo e consiste nel comparare gli usi e i costumi preistorici con l’etnologia attuale di popolazioni ancora legate alla formula della caccia e della raccolta di piante e frutti, per esempio, come accade presso alcune popolazioni indigene dell’Amazzonia (De Beaune, 2022).
Si tratta di una sorta di comparazione etnografica che, seppur necessita di una certa prudenza, fornisce indizi e consente interpretazioni riguardo al contesto di “raccoglitori”, in cui, in maniera egualitaria, sia gli uomini che le donne erano coinvolti nell’uso degli utensili (per esempio, asce per tagliare e fare recipienti) o nell’uso delle mani libere. L’ipotesi, più volte discussa dagli antropologi, di una storicità del matriarcato è stata sostenuta sia da Bachofen (1861) che da Morgan (1877). Il primo basava la sua ipotesi su resti archeologici di statuette femminili e sui miti omerici, dove sembra prevalere la matrilinearità, come nel caso di Edipo e Menelao. Per Morgan, la conferma arriverebbe da uno studio, incentrato sui gruppi Irochesi del Nord America, sulle loro strutture familiari e sociali che presuppongono la presenza di una società matriarcale. La questione è complessa ed ancora aperta, e in queste pagine non può che essere solo segnalata.
Nel voler ripercorrere i mutamenti epocali più significativi in rapporto ai ruoli di genere, la nascita dell’agricoltura vide una sorta di domesticazione del ruolo delle donne; l’elaborazione delle tecniche agricole è stata sempre attribuita all’uomo, anche se furono, molto probabilmente, le donne (già impegnate, nel corso del Paleolitico, parimenti agli uomini nella raccolta dei vegetali e nella caccia di piccole prede) che capirono, con l’avvento del Neolitico, che alcune piante potevano essere non solo raccolte, ma anche coltivate. La capacità di osservare i fenomeni naturali nel tempo e intuirne la riproducibilità attraverso la domesticazione delle specie vegetali è un merito che va riconosciuto alla componente femminile, più che a quella maschile.
Inizialmente, quando, tra il 10000 e il 6000 a.C., l’agricoltura era diffusa in tutta Europa, nell’Asia sud occidentale, nella “mezzaluna fertile”, le donne si occupano di raccolta di vegetali, che costituivano la parte più consistente della dieta di tutti i popoli nomadi, giacché le prede cacciate dagli uomini non occupano una posizione centrale nell’alimentazione, anche a causa delle difficoltà legate alla conservazione delle carni. Facendo riferimento a comunità che vivono oggi come quelle paleolitiche, ossia ai popoli della Nuova Guinea e delle regioni dell’Africa, parliamo di società orticole quando non vengono utilizzate tecnologie più complesse; nonostante le enormi differenze, si possono riscontrare delle convergenze con le comunità contadine presenti delle nostre società tradizionali agricole, soprattutto rispetto agli spazi, alle tecnologie usate e ai ruoli femminili.
Nelle società orticole che usano zappe o bastoni per fare buchi in cui piantare le radici o i semi, sono le donne quasi interamente responsabili della produzione agricola. La pratica della coltivazione errante prevede, per alcuni anni, lo sfruttamento di un appezzamento di terreno che viene disboscato dagli alberi e ripulito dagli arbusti; qui, sono di solito le donne che scavano, seminano, curano e mietono. La complessità dei compiti e il lavoro delle donne rende il tempo particolarmente diluito: se per l’uomo esiste il “riposo del guerriero”, il dovuto tempo libero, la donna non ha questa prerogativa; al contrario, se ha tempo libero è sfaccendata, non merita di essere considerata virtuosa (Di Nuzzo, 2008). I primi attrezzi sono riconducibili anche alla possibilità di schiacciare e macinare i semi, tant’è, dunque, che lo studio antropologico degli scheletri e delle sepolture ha portato a dedurre che le donne trascorressero molto tempo inginocchiate a lavorare sulle prime macine rudimentali, frutto di spirito di iniziativa e di osservazione; non a caso, i popoli “raccoglitori”, nelle mobilità nomadiche, non portano con loro il cibo, ma comprendono, probabilmente, che i semi possano essere seminati e germogliare in qualsiasi terreno.
I ritrovamenti di oggetti legati alla vita delle prime comunità, portano a tracciare il profilo di una vita quotidiana che si muoveva attraverso e intorno alle donne: dalle borse in pelle per trasportare ciò che si raccoglieva, alle ciotole per conservare o raccogliere. Sembra probabile che siano state loro ad inventare il procedimento della lavorazione dell’argilla e della sua cottura. Le donne furono le prime produttrici dei cereali nei nuovi insediamenti semi stabili, giacché furono esse a riconoscere e individuare i terreni adatti, scegliendo le aree da disboscare, tendenzialmente nelle zone medio orientali più che nel nord, e dunque più a sud. Furono le donne a mantenere un controllo del territorio e delle responsabilità di scelte strategiche per la sopravvivenza. In alcune sepolture femminili sono state ritrovate macine usate per la farina assenti nelle sepolture maschili, dunque a testimonianza che le donne detenevano un patrimonio di saperi e tecnologie diversi (e forse anche più avanzati, per via dell’uso continuo) da quelli degli uomini. Quando le società divennero più stanziali, emerse la necessità di difendere lo spazio, che si fece territorio; in questo contesto si instaurò una divisione dei compiti che vedeva le donne dedite alla procreazione e all’allattamento: «l’elemento di potere divenne, nel corso del tempo, la risorsa primaria, ovvero la terra, e questo limitò il potere femminile nella negoziazione dei ruoli» (Patou-Mathis, 2021:152).
Il sito di Renancourt costituisce una chiave di interpretazione fondamentale per osservare la vita dei nostri antenati: a poco a poco, sono venuti alla luce reperti che erano stati abbandonati dagli uomini preistorici al momento della loro partenza; gli oggetti lasciati a terra erano stati rapidamente ricoperti dal limo trasportato dal vento, fenomeno che aveva permesso una fossilizzazione, pressoché perfetta, del suolo. Il luogo era abitato da un gruppo nomade di cacciatori/raccoglitori preistorici, che si muovevano, al ritmo delle stagioni, per poter seguire le grandi mandrie di cavalli, cervi e renne; tra le loro attività, erano fondamentali la caccia, la pesca, la raccolta di conchiglie, da usare come monili o utensili, e di vegetali per nutrirsi e curarsi. Gli studi antropologici contemporanei hanno dimostrato e confermato che, in tutte le società contemporanee di cacciatori/raccoglitori, le donne si occupano di numerose attività, e non sono relegate esclusivamente alla domesticità.
Facendo riferimento all’etnoarcheologia, è possibile liberarsi dai clichés sullo studio della preistoria, nata come disciplina autonoma intorno al 1860, di fatto, sovrapponeva il modello sociale ottocentesco allo stile di vita delle civiltà che venivano studiate. Si fece strada l’ipotesi delle raccoglitrici come collettrici. La comparazione risulta ardita, ma si può parlare di etnoarcheologia, ovvero etnologia dei popoli cacciatori/raccoglitori contemporanei, che possiamo comparare con l’archeologia dei popoli del Neolitico; questo sguardo, e la forza dell’etnoarcheologia, è nella possibilità di modificare il nostro focus attuale e rintracciare altri punti di vista. La comparazione etnografica diventa fondamentale, anche se ha i suoi rischi di semplificazione. Per esempio, il colore della pelle si è modificato intorno al 6000 a. C., ossia, nel corso del Neolitico, la pelle si schiarisce nelle popolazioni europee. Secondo gli studi condotti, 10.000 anni fa, in Europa occidentale, gli individui avevano la pelle nera e gli occhi azzurri; la donna era alta, muscolosa, meticcia, dalla pelle scura e gli occhi chiari.
Attraverso una serie di elementi che riguardano, oggi, l’universo strettamente femminile, come i gioielli, il vestiario/la moda o in maquillage, se riletti nel passato, di fatto raccontano usi e costumi delle primecomunità: i monili, ad esempio, erano costituiti da canini di cervo, dalla forma particolare tondeggiante e asimmetrica, ma anche da ricci di mare o vertebre di pesce. Si praticava, in maniera rudimentale, anche il tatuaggio; infatti, si faceva ricorso al nero fumo per creare motivi permanenti sull’epidermide. I capi di vestiario erano costituiti da pelli di animali, che non avevano solo la funzione di proteggere dagli agenti atmosferici, ma riguardavano anche una dimensione sacrale; non a caso, ritenendo che essi convogliassero lo spirito e la forza vitale degli animali, venivano indossati dagli sciamani per entrare in comunicazione con il mondo degli spiriti.
La donna come soggetto funzionale alla socialità
L’elemento femminile crea la socialità con l’altro, anche se può determinare conflittualità con altri gruppi per lo scambio matrimoniale. In particolare, la mercificazione della proprietà della donna diventa una strategia per il mantenimento degli equilibri tra i gruppi sociali: «tra le tribù primitive l’unico mezzo conosciuto per conservare alleanze permanenti è il matrimonio al di fuori del proprio gruppo. [...] Sempre, nella storia del mondo, i gruppi umani devono aver avuto ben presente questa semplice alternativa pratica: sposarsi al di fuori del proprio gruppo, o essere uccisi» (tradotto da Tylor, 1889: 267). Si venne, così, a legittimare l’‘esogamia’ (Mc Lennan, 1865) che veniva praticata al di fuori della famiglia, del gruppo o del clan, in quanto vantaggiosa sul piano politico. Come afferma Lévi Strauss, la famiglia si configura come «[…] un atto pubblico di scambio tra gruppi che crea alleanze e fa società» (Lévi-Strauss,1984: 54), e il tabù dell’incesto sarebbe stato proprio dettato da questo bisogno di socializzazione che, poi, nel patriarcato sarebbe stato oggetto di mercificazione e di scambio del patrimonio e della discendenza patrileneare.
La forma privilegiata di relazione è la monogamia e, sposandosi e dando vita a scambi matrimoniali, le donne hanno favorito sia l’evoluzione che il progresso. Per la demografia è essenziale che le donne siano in salute; perdere un uomo è grave, ma se a morire sono le donne e i bambini, la situazione può essere molto problematica. Il parto costituisce una delle principali cause della morte delle donne; nelle società primitive, le donne partorivano da sole, in piedi o prone, e conoscevano espedienti per evitare le gravidanze indesiderate. Sembra che le maternità avvenissero con una cadenza di quattro e cinque anni. Tra gli homo sapiens, allevare un bambino era una pratica che riguardava non solo le madri, ma l’intera comunità. Sono soprattutto le donne più mature, anziane, le nonne, che, lungi dal costituire un peso per la società, con la loro esperienza, accudivano la prole, garantendo, così, il perpetuarsi del patrimonio genetico. In alcuni graffiti si sono osservate delle figure femminili con un marsupio sul dorso che, probabilmente, veniva utilizzato per occuparsi dei bambini mentre si svolgevano le varie attività giornaliere di raccolta dei vegetali.
Nella stereotipizzazione dei ruoli, che lentamente si sedimenta in età preistorica, alle donne era, in genere, interdetta la caccia, ma sono state rinvenute tombe di individui femminili in cui erano presenti armi, strumenti a punta e raschietti. A voler rintracciare le motivazioni di un tale divieto, andando oltre l’ovvietà di una forza fisica inferiore a quella maschile, sembra esservi una interdizione di natura ancestrale, legata alla volontà di non mischiare il sangue dell’animale cacciato con quello del mestruo femminile. Tuttavia, pare che la caccia di piccoli animali fosse un evento collettivo, a cui partecipavano donne e bambini, ricavando la carne utile alla dieta quotidiana; tra le altre pratiche, vi erano anche la pesca di crostacei o di piccoli pesci, nonché la raccolta di mitili, che era compatibile con l’accudimento dei bambini. In quota percentuale, le derrate alimentari procurate dalle donne coprivano il 75 % del fabbisogno della comunità. Come riporta De Beaune, (2022), il ritrovamento di alcuni scheletri femminili con lesioni alle caviglie, confermerebbe che una delle principali attività delle donne era la lavorazione dei semi, che esse conducevano prone, accucciate, inginocchiate, sulle rudimentali macine, che consentirono di ricavare farine e preparare impasti: il pane divenne la base per l’alimentazione umana a partire dal Neolitico, e un alimento imprescindibile per la vita del gruppo.
Procurare e preparare il cibo era estremamente importante per la sopravvivenza della comunità, sia per soddisfare il fabbisogno energetico degli individui che per favorire la socializzazione e la comunicazione. Come precedentemente menzionato, il pregiudizio del sangue mestruale (Heritier,1991), ovvero di una sua capacità di contaminare il cibo, viene esteso anche alle lavorazioni artigianali; presso le comunità preistoriche si praticava la lavorazione delle pietre durante l’inverno, davanti al fuoco. Questa pratica, però, si svolgeva in due spazi diversi: uno occupato dagli uomini, ritenuti tagliatori esperti e l’altro dalle donne, reputate meno esperte. Cionondimeno, le donne si sono dimostrate le apripista delle attività artigianali: esse impararono, con i primi telai, a tessere, così come testimoniato, nel corso dei millenni, dalle culture contadine, inventarono l’arte della ceramica e della lavorazione dei monili. La loro conoscenza del mondo naturale, con la sua stagionalità e i suoi cicli, le trasformarono in curatrici esperte e poi in sciamane e streghe.
Quando si passò dai gruppi nomadi alle comunità stanziali, fu la gestione degli spazi a determinare un cambiamento del ruolo della donna nella società. Se, inizialmente, come collettrice, essa si muoveva attraverso lo spazio per procurare gli alimenti, adesso con l’allevamento e la pratica dell’agricoltura si verifica uno spostamento nell’ambito della conservazione dei saperi, che ha ratificato, nel corso dei millenni, in Occidente e in area mediterranea la preclusione alle donne degli spazi aperti (Di Nuzzo, 2010). Assai noto è il pericolo di essere morse dalla taranta in Lucania, ragno infido che si nascondeva tra la vegetazione e i campi e che faceva vittime principalmente le donne. L’uso dell’aratro e il passaggio al controllo maschile dell’agricoltura deve essere avvenuto tra le prime fasi del Neolitico e l’avvento della scrittura, e si collega al cambiamento nello sfruttamento degli animali. Nell’economia agricola dell’Europa preistorica, intorno al 3000 a.C., l’uso dell’aratro, l’accudimento e la mungitura delle bestie, laddove si trattava di un gregge esiguo, spettava alle donne, in aggiunta agli altri compiti, mentre gli uomini si dedicavano ancora alla caccia. Se, invece, gli armenti erano numerosi, l’allevatore era l’uomo e la donna si dedicava alla trasformazione dei prodotti caseari. Ma la presenza del femminile persiste, continuativamente, come divinità, a partire dalle cosiddette Veneri del Paleolitico, ritrovate presso focolari e capanne, come creatrici del fuoco o protettrici della dimora, presenti dal Paleolitico fino all’età del bronzo.
Dal mondo misto al mondo virialcare
Nel periodo neolitico, una variazione del clima, modificando l’ambiente e rendendo più difficile per gli uomini trovare gli animali di cui si nutrivano, mise in crisi il modello di sussistenza umano ancora basato sulla caccia e sulla raccolta. Alcuni gruppi di umani seppero superare queste difficoltà, grazie ad agricoltura e allevamento. La necessità di stanziarsi in un luogo per lavorare la terra e attendere la maturazione dei vegetali comportò che questi proto-agricoltori cominciassero a costruire degli insediamenti stabili. Da questo processo scaturirono dei cambiamenti, sia sul piano dell’organizzazione sociale che dell’evoluzione culturale.
Dal V al I millennio a.C., lungo aree di popolamento, comunicazione e scambio particolarmente movimentate, come quelle mesopotamiche, le egizie e le euroasiatiche che si affacciavano sull’Egeo, il Mar del Levante e sui territori che, da sud e ovest, convergevano sul Mar Nero, la lavorazione del rame, poi del bronzo e, infine, del ferro ha impresso mutamenti importanti. Poco prima del 3000 a.C., l’ampia regione che si estende dall’Egitto all’India fu interessata dalla scoperta del rame, che ebbe conseguenze decisamente rivoluzionarie; infatti, se in precedenza gli strumenti erano realizzati in pietra, legno e osso, ora, essendo in metallo, divennero ancora più funzionali. Anche gli attrezzi agricoli cominciarono a essere fabbricati con questo nuovo materiale; così, vanghe, falci, zappe e aratri divennero più affilati e resistenti. Ma la scoperta dei metalli (il bronzo, verso il 2500 a. C., e il ferro, intorno al 1200 a. C.) fu un evento importante non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche dal punto di vista sociale, giacché si venne a creare una divisione del lavoro all’interno delle comunità, che si concentravano attorno alle figure dei capi-famiglia, prima, e dei leader, capi, sovrani, con l’avvento delle prime civiltà urbane.
Quindi, è molto probabile che i cambiamenti economici e sociali osservati nel Neolitico abbiano profondamente modificato le relazioni tra uomo e donna e abbiano segnato l’inizio dell’età patriarcale. Infatti, la prima forma di gerarchia sociale fu quella tra uomini e donne; queste ultime furono private, quasi del tutto, del rapporto con l’attività agricola, e si trovarono a svolgere mansioni relegate, pressoché totalmente, all’ambito domestico, restando, quindi, escluse dalle scelte e dal governo della comunità, di cui, invece, erano state il motore trainante della coesione sociale nelle fasi precedenti. Si genera di conseguenza una razionalizzazione ancora più precisa dello spazio, collegando ad esso funzioni antropologiche che rimarranno radicate per molti millenni: l’ “interno”, il domestico, diventa il classico luogo riservato alle donne, l’“esterno” è, invece, lo spazio in cui agisce prevalentemente l’uomo:
«Chi per primo ha ribaltato l’ordine sessuale non è la donna, ma l’uomo, quando tra il terzo e il primo millennio a.C. pose fine ad un mondo misto – nel quale i diritti e le libertà delle donne erano molto più estesi e in cui il femminile era rispettato e divinizzato – per costruire un nuovo mondo, il mondo virialcale, nel quale la donna sarebbe stata ritenuta inferiore, rinchiusa, e avrebbe perso i propri poteri. All’alba di questa nuova civiltà comincia il grande racconto della superiorità virile, che, un secolo dopo l’altro sarà consolidato dalla mitologia (poemi omerici), per esempio, con l’immagine e il simbolo, la metafisica (con il concetto), la religione (legge divina) e la scienza (con la fisiologia) e con la ratifica e la presunta naturale divisione sessuale lavoro» (Patou-Mathis, 2021:153).
L’uso di armi, la caccia e la guerra avrebbero portato alla valorizzazione di queste attività a detrimento delle donne, e ai rapporti di potere del patriarcato. L’uomo si innalza al di sopra dell’animale, non suscitando ma rischiando la vita; perciò, nell’umanità, la preminenza è accordata non al sesso che genera ma a quello che uccide. La donna sarebbe rimasta in una sorta di relazione organica con il mondo e, dunque, relegata ad una presunta naturalità, mentre l’uomo avrebbe elaborato una forma di trascendenza con il mondo, ponendolo nell’ambito della cultura. Héritier sostiene che il patriarcato è un sistema che non opprime soltanto le donne, ma aliena anche gli uomini, accollando loro l’obbligo della forza, della lotta, della potenza; secondo altri, le donne ne risultano oppresse, per una mancata compensazione che si concretizza nell’invidia della procreazione e dell’allattamento.
Indubbiamente, nelle società paleolitiche, procreando e allevando, le donne avevano una funzione primordiale per garantire la sopravvivenza del clan e, siccome era impossibile conoscere con certezza il vero padre del neonato, la filiazione matrilineare pare essere quella più probabile. Così avevano un ruolo economico e possedevano rango sociale equivalente a quello degli uomini, rimarcando la superiorità di filiazioni matrilineari. L’antico mito delle Amazzoni testimonierebbe questa scelta sociale. La diffusione di nuovi modelli sociali si realizza attraverso un percorso di cui sono protagonisti piccoli gruppi che migrano dal Medio Oriente, in particolare dalla “mezzaluna fertile”, Iran, Iraq, Palestina, verso l’Europa a partire dal VII millennio a.C. Dal 1250 a. C. portano piante, semi, modelli di allevamento; il Neolitico dura quasi 5500 anni nel Medioriente e 3500 in Europa.
Creta minoica costituisce un singolare esempio di deciso riconoscimento pubblico e privato del femminile. Durante il II millennio a. C., parallelamente alle civiltà della mezzaluna fertile, si sviluppa la prima civiltà mediterranea, quella cretese. Per la sua collocazione geografica, in posizione intermedia tra l’Egeo e il Mediterraneo, l’isola di Creta costituiva il fulcro di ingenti traffici commerciali. Nell’isola si erano venute sviluppando importanti città, quali Cnosso, Mallia, Festo, in cui erano stati costruiti importanti palazzi. Essi erano dotati di scale di marmo, saloni, terrazze, con ornamenti murali di pietre dure, metallo, smalti multicolori. I minoici rappresentano le donne come figure dalla pelle particolarmente bianca, mentre gli uomini sono caratterizzati dal colorito decisamente marrone. Il bianco, come pallore diafano, diventa tratto persistente della bellezza femminile e della sua specificità. Si perpetuerà nel modello omerico (si pensi a Nausica che è definita “dalle bianche braccia”), fino a tutte le epoche storiche successive, in cui le donne dovevano proteggersi dalla luce del sole e da quello che era il “fuori”, oltre il domestico. Un pallore che le rende quasi oltreumane, e che le avvicina ad una divinizzazione che le esclude di fatto dal mondo reale. Bisognerà aspettare Coco Chanel che “libera” le donne dall’essere diafane ed evanescenti, e dà loro la possibilità della tintarella.
Le scene dipinte sulle pareti dei palazzi forniscono il quadro della vita e dei costumi cretesi: scene di danza, di musica con le rappresentazioni degli esercizi ginnici, dalla corsa al pugilato, fino ad una specie di corrida, consistente non nell’uccisione del toro, ma in pericolosi salti e volteggi fatti sul dorso dell’animale, aggrappandosi alle sue corna, cui prendevano parte anche e donne. Sul palazzo gravitava tutta la vita della comunità, giacché esso ospitava, oltre alle dimore della famiglia reale, anche gli uffici amministrativi e i luoghi di culto, i depositi per i tributi, i forni, i frantoi, le officine.
Una notazione a parte merita il culto della Dea dei serpenti che sanciva un rapporto speciale con forme di divinizzazione ctonie; veniva raffigurata in statuette: la più famosa, conservata oggi nel museo archeologico di Iraklio, in Grecia, è in oro e avorio, e raffigura una donna a seno nudo con due serpenti attorcigliati sulle braccia le cui teste sporgono dalle mani. Essa rappresenta quella che è, forse, la più importante figura femminile tra le divinità cretesi. Mentre le religioni egiziana, sumera, babilonese e assira, sono caratterizzate da divinità maschili potenti, temibili e spesso crudeli, espressione di civiltà segnate dalla necessità di difendersi e dalla spinta a conquistare; in quella cretese, al contrario, le figure maschili sono del tutto secondarie e prevale l’elemento femminile e di forte legame con le energie della terra. Ciò aveva fatto pensare al ruolo rilevante delle donne nella società e che vi fosse una forte impronta matriarcale.
Nel secondo millennio 1400 -1200 a.C., si sviluppò nel Peloponneso, tra Argo, Pilo e Micene, la civiltà micenea, preceduta da quella minoica cretese, con la quale condivideva alcuni tratti, come ad esempio una forma di oligarchia o la proprietà in parte pubblica della terra e ridefiniva ruoli di genere. La civiltà micenea, la cui lingua è una forma primitiva di greco, entrò in crisi intorno al 1200 a. C.; sulle cause è aperta ancora la discussione, ma sicuramente un ruolo importante ebbe l’invasione dei dori, provenienti da settentrione, che la tradizione colloca dopo circa 100 anni la distruzione di Troia, nel 1104 a. C.. Un ulteriore fattore potrebbero essere stati anche alcuni eventi, quali, terremoti e guerre intestine, che avrebbero favorito l’arrivo di queste nuove popolazioni, contraddistinte da un tipo di società più orizzontale del potere, una sorta di primus inter pares. Il periodo che intercorre tra invasione dorica e il primo affermarsi della Grecia storica viene chiamato età oscura o medio evo ellenico tra XI e il IX sec. a.C., che vede un generale decadimento, una frammentazione politica e innumerevoli conflitti. Il crollo della civiltà palaziale micenea comporta la comparsa della scrittura, anche se si conserva l’uso orale. Le tecniche agricole non vengono accantonate, ma subentra la lavorazione del ferro e la colonizzazione tra la metà dell’VIII e la fine del VII secolo a. C. di tutto il Mediterraneo.
Il cosiddetto “medioevo ellenico” non reca molte testimonianze scritte; le uniche sono rappresentate prevalentemente dai poemi omerici che, pur essendo stati scritti verso l’VIII secolo, furono in realtà composti assai prima, verso il X secolo a. C., da cantori (aedi o rapsodi) e tramandati oralmente fino alla reintroduzione della scrittura. I poemi presentano l’oikos (“casa”) come struttura fondamentale degli insediamenti, che indica, più che altro, una organizzazione basata sul clan. Esso comprendeva un nucleo familiare esteso e tutte le persone che vi ruotavano intorno servitori, contadini, schiavi. La ricchezza del clan consisteva nella proprietà terriera, e il principale metodo di acquisizione di nuove ricchezze era la guerra (anche sotto forma di razzia, pirateria, brigantaggio) o i matrimoni dove le donne erano merce di scambio, ma anche chiave di interpretazione, dal punto di vista storico, di scenari di violenza e spargimenti di sangue che interessavano le lotte tra comunità.
La coppia archetipica che influenzerà tutta l’area mediterranea e in particolare il sud del Mediterraneo è quella di Ulisse e Penelope: in questa relazione c’è la stereotipizzazione dei ruoli che saranno poi nei millenni successivi ratificati in un orizzonte metastorico. Penelope custode dell’oikos del potere di controllo, organizzazione della reggia e della prole nonché maestra della tessitura e garante dell’allevamento della prole; capace di difendere un potere politico istituzionale ricevuto in delega da colui che è destinato ad andare in guerra ma soprattutto ad esporsi per la ricerca di ciò che è altro da sé di sperimentare e di seguire l’orizzonte attraversando il mare, a lui sono destinate esperienze eccezionali nonché amori e infedeltà. Lo storico della lega Miglio (2006) ribadirà, non senza un tono polemico, che questo modello mitico è ancora la caratteristica del modello familiare e sociale del sud: una moglie, madre fedele, relegata negli spazi domestici, ed un uomo, vagabondo e infedele.
L’interdizione degli spazi aperti e del potere pubblico resteranno la costante di un patriarcato pervasivo, che faceva sì che, alla nascita di una bambina nella Lucania contadina, come ci racconta Vittoria de Palma, nella nota spedizione etnografica, guidata da Ernesto de Martino, si gettava l’acqua del parto fuori dall’uscio per evitare che la bambina da donna adulta diventasse “vagabonda” (Di Nuzzo, 2002), e, ancora, alle donne contadine era negato di andare da sole a lavare i panni al fiume perché troppo esposte a spazi incontrollabili, così come arare e mietere continuavano ad essere funzioni e attività negate al femminile (Di Nuzzo, 2010). Resta, invece, fondante, seppure attraversato da continui sincretismi, il culto della dea madre. Questi culti si consolidano attraverso il Cristianesimo, specie quando, con il concilio di Nicea, si sottolinea che Maria deve essere considerata come madre di Dio, avendo dato alla luce il figlio di Dio. Ciò ne struttura il culto non in quanto dea, ma in quanto elemento dell’ordine patriarcale. I monaci amanuensi hanno, poi, con le trascrizioni e le traduzioni, ulteriormente definito tale visione, assimilando tutto alla care e non sottolineando, invece, il ruolo sociale e di funzione economica (altruismo sociale) e, quindi, di socializzazione e scambio tra gruppi e/o clan. Epoche di lunga durata che hanno segnato le trasformazioni socioconomiche tra Oriente e Occidente, che hanno definito e, continuamente, ridefinito poteri, compiti, conoscenze tra maschile e femminile, fino ad arrivare alle epoche storiche più recenti, che hanno, poi, definitivamente connotato le strutture più profonde delle società occidentali e non, in un patriarcato determinato e diffuso. Tuttavia, sono emerse, da questi frammenti, forme difformi di società e valori condivisi non sempre esplicitati dalle interpretazioni dominanti.
Affrontare questioni di così grande rilevanza, in un percorso così breve, può sembrare velleitario, ma in un momento storico in cui c’è un uso ipertrofico del termine patriarcato e una, forse, semplicistica e fuorviante spiegazione della violenza sulle donne, l’intento di questa breve analisi è quello di voler individuare, nella narrazione storica, un fil rouge che identifica le differenze di genere come plasmazioni culturali che definiscono la differenza come valore, e rende meno effimera la presenza delle donne nella vita delle società umane. Ricostruire e ridefinire interpretazioni delle culture attraverso il tempo e lo spazio sembra essere un proficuo esercizio di riflessività su ciò che siamo per comprendere, su come sia sempre più necessario aprirsi ad una dimensione dialogica dello stare al mondo, in cui si lascia spazio al confronto e alle possibili, continue trasformazioni di ruoli e di forme di socialità. In tal senso, il mondo preistorico e antico ci mette di fronte a soluzioni che sembrano innovative, piuttosto che superate dal presunto “progresso delle civiltà”. Tracciare una descrizione dei fatti e delle possibili interpretazioni, che tenga conto del contributo comune che uomini e donne hanno fornito al progressivo dispiegarsi delle dinamiche economiche, sociali, culturali, religiose che hanno caratterizzato il succedersi delle epoche, è sicuramente un esercizio proficuo per costruire società e comunità.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] A proposito dei riferimenti al legno, si considerino per Carlo Ruta anche i seguenti testi: La lunga età del legno. I paradossi della materia «debole» e le rotte delle civiltà, Storia e Studi Sociali, 2020; Il legno nella storia. La forza influente della materia «debole» nei percorsi di civilizzazione e nei processi formativi delle razionalità, Storia e Studi Sociali, 2022.
[2] Il testo di P. Rodríguez, Dio è nato donna. I ruoli sessuali alle origini della rappresentazione divina (2000), offre una interessante disamina della presenza del divino a partire dagli albori della civiltà, puntando sulla concezione di una femminilità di Dio che, in quanto donna, assume in sé la forza creativa e creatrice che è alla base del creato.
Riferimenti bibliografici
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale, insegna Geografia delle lingue e delle migrazioni al Suor Orsola Benincasa; già professore a contratto di Antropologia culturale presso DISUFF Università di Salerno, e membro del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale della stessa università fino al 2020- Ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È membro dell’Osservatorio Memoria storica, Intercultura, Diritti Umani e Sviluppo Sostenibile “MInDS” Univ. di Cassino, socia del Centro di Ricerca Interuniversitario I_LAND (Identity, Language and Diversity) nonché del Centro Interuniversitario di Studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia (CISPAI). I suoi campi d’indagine sono l’antropologia delle migrazioni e del turismo, antropologia e letteratura, antropologia e genere, antropologia urbana. È autrice di numerose monografie, tra le ultime pubblicazioni si segnalano: Il mare, la torre, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile, Roma Studium 2014; Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Carocci, Roma, 2013; Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio, CISU, Roma, 2020; Minori Migranti. Nuove identità transculturali, Carocci, Roma, 2020; La città e le sue culture. Adolescenza, violenza, gruppi di strada, La valle del tempo, Napoli, 2023.
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