di Stefano Montes e Licia Taverna [ 1]
I. ‘Cultura’ e ‘abitare’ sono due nozioni che, insieme, possono di primo acchito destare perplessità teorica. Sarebbe infatti più ovvio, secondo un uso comune, pensare a una cultura del cibo, della moda o della festa. Associare invece la ‘cultura’ a un fare, rappresentato da un verbo all’infinito come abitare, potrebbe suscitare qualche obiezione d’ordine teorico. “La cultura ha un abitare?”, “Si abita la cultura?” sono solo alcune delle domande che ci si potrebbe ingenuamente porre. In realtà, antropologicamente parlando, l’abitare è segno intimo delle culture, variamente realizzato in ognuna di esse, di volta in volta sottoposto alla lente dello studioso che intende comprenderne le organizzazioni interne ed esterne. Per richiamare una nozione cara a Mauss e Bourdieu, si potrebbe affermare che l’abitazione, in quanto essenza del luogo intimo per un individuo, è l’habitus attraverso cui si manifestano i suoi membri nello spazio assegnato.
L’abitare è in definitiva uno degli elementi più importanti della cultura e condensa alcune delle sue componenti più profonde e radicali. Nella variegata tendenza antropologica a rappresentare i sommovimenti più sostanziali di una cultura, l’abitare è rivelatore dei modi attraverso cui le identità, proprie e altrui, si dispongono più intimamente: capire come si abita è allora un modo per manifestare, a se stesso e agli altri, le discretizzazioni semantiche soggiacenti le nozioni di identità e, per opposizione, quelle di alterità. Parlare dell’abitare significa – per quanto strano possa sembrare a chi pensa lo spazio come sostrato neutrale su cui l’umanità prende posto – palesare quindi il segno della presenza dell’alterità nel processo stesso della manifattura e varia composizione dell’identità. Chi rivela la propria identità attraverso un modo di abitare lo fa, infatti, accogliendo – e talvolta deliberatamente rifiutando – l’alterità che esiste in se stesso e negli altri, sulla base di categorie che affondano le radici nella comprensione delle dimensioni spazio-temporali. In sintesi: l’abitare è un elemento centrale della cultura che rivela identità; l’abitare manifesta habitus individuali così come posizioni differenziali.
II. Per riepilogare debitamente, abitare vuol dire definire se stessi e coloro i quali, in quanto altri, sono pensati al di fuori di questo ‘insieme complesso’ (di cui parlava Tylor), al di là di una frontiera immaginata tale (come ribadirebbe Anderson): l’abitare viene di fatto realizzato dall’individuo, secondo le convenzioni spazio-temporali di una cultura, in termini differenziali rispetto ad altre modalità considerate altre, non specifiche della cultura di appartenenza. E questo vale sia per le categorie astratte che per le pratiche d’uso: identità, alterità e abitare sono dunque strettamente collegati in quanto categorie schematiche prodotte dalle culture, nonché nell’uso che ne fanno i singoli individui. Va da sé che non impieghiamo i termini di schema e uso a casaccio. Facciamo più particolarmente riferimento all’elaborazione teorica del linguista danese Hjelmslev. Alla nozione generalizzata di abitare sarebbe infatti utile applicare a fondo l’ipotesi di Hjelmslev secondo cui la coppia langue/parole di Saussure è da sviluppare in quattro posizionamenti graduali che vanno dalla massima astrazione alla singola e più volatile attualizzazione individuale: dallo schema, alla norma, all’uso e all’atto. Lo sottolineiamo, nonostante non intendiamo procedere in questo senso e preferiamo, per brevità, mettere in evidenza alcuni punti di contatto più generali tra letteratura, spazio e semiotica della cultura a partire da un testo specifico. Ci preme in questo breve saggio mettere maggiormente in rilievo il principio – prima ancora di passare al frammento di Proust da analizzare – che appartenenza culturale e discretizzazione semantica sono interrelate: il ‘modo’ in cui si discretizza l’abitare non può essere, per isomorfismo, che il ‘mondo interiore ed esteriore’ in cui si vive in seno alla propria cultura; parallelamente, il ‘mondo’ ritagliato dalla cultura consente a sua volta i ‘modi’ attraverso cui esso viene vissuto.
III. Sulla base di questo presupposto, intendiamo prendere in conto qualche frammento della Ricerca di Proust per mostrare i modi in cui un nativo – Proust, in quanto francese, è un nativo della propria cultura – ‘accomoda’ i segni del proprio vivere nella sua abitazione, persino nella sua stanza da letto, facendo vedere al contempo i rapporti che si instaurano in maniera sottile tra l’organizzazione stessa dello spazio e i modi attraverso cui la soggettività si modella, si disfa e si riorganizza. Dire questo comporta alcuni impliciti epistemologici che non possiamo affrontare ampiamente in questa sede. È bene comunque chiarirne, almeno in parte, alcuni presupposti. Il primo implicito riguarda la soggettività. Talvolta, la soggettività viene considerata come una concrezione di tratti che definiscono l’individuo in modo stabile e indipendente. Diversamente, nella concezione più semiotica alla quale ci rifacciamo, la soggettività è un aggregato di elementi che intrattengono – nell’insieme e, sovente, pure separatamente – relazioni di interdipendenza non soltanto con gli altri individui in carne e ossa, ma, anche, all’interno del singolo individuo (sia nella ‘testa’ sia nel corpo) e con i luoghi e i tempi materiali e immaginari del vivere (sia quotidiano sia straordinario). L’individuo è soggetto perché interagisce con altri individui e, al contempo, con se stesso, i propri flussi di pensiero, azioni, emozioni e somatizzazioni in uno spazio che contribuisce a orientarlo e definirlo, persino a determinarlo e manipolarlo. L’adesione a questa ipotesi, può voler dire, come proponiamo, che l’analisi di una cultura non può fare a meno dell’analisi dello spazio e che, questa analisi, può procedere proprio dando una maggior importanza allo spazio inteso come elemento di modellizzazione della soggettività individuale e collettiva.
IV. Andiamo ora al secondo implicito. Esso riguarda la letteratura e le sue funzioni culturali. A volte, la letteratura viene considerata un deposito, chiuso in se stesso, di creazione artistica messa in opera da alcuni individui più dotati d’altri. Nella nostra prospettiva, la letteratura è invece, come sostengono i formalisti russi, una delle tante serie parallele e permeabili della cultura che manifesta, per questa stessa ragione, tratti non soltanto del (i) ‘singolo individuo che crea’, ma, anche, della (ii) ‘società a cui l’individuo appartiene’ e, in misura variabile, delle (iii) ‘altre serie parallele’, recepite e prodotte in stretta commistione le une con le altre. La letteratura non è quindi un discorso a tenuta stagna, un discorso sulla sola creazione artistica immune dalle contaminazioni funzionali derivanti da altri discorsi, e da loro indipendente, quali il discorso politico, pubblicitario, profano, sacrale, emotivo, cerimoniale. La letteratura è contaminazione discorsiva che bagna nella permeabilità delle serie parallele e nell’incrociarsi di politiche, cerimonie, comunicazioni massmediatiche, pubblicitarie, private, pubbliche, e quant’altro. Con il suo gesto creatore, dunque, l’individuo gioca la sua parte; non tutto, tuttavia, si risolve nel suo gesto e nella sua pratica, ma richiede inoltre il coinvolgimento pieno o parziale dei processi sopra evocati. Tanto più che, questi processi, in cui la creazione da parte del singolo individuo si realizza, possono avere luogo non soltanto attraverso adesioni, ma, anche, manifestando rifiuti, accettazioni incomplete o manipolazioni subdole, programmazioni di lunga gittata o interazioni di ridotta portata nel tempo.
Ciò che è importante sottolineare è tuttavia il principio fondamentale che, comunque vadano le cose, attraverso adesioni o ribellioni, declinazioni o trasgressioni, gli atti dei singoli individui sono debitori di alcuni elementi formali della cultura. Per semplificare, ai nostri occhi la letteratura è il risultato di atti che, per quanto individuali, fanno capo al sistema culturale di appartenenza degli individui. Questo assunto significa, più concretamente, sempre secondo la nostra prospettiva più semiotica, che uno specialista di letteratura francese, per esempio, non si dovrebbe occupare unicamente di alcuni individui considerati ‘autori letterari’, della loro vita e delle loro tecniche di scrittura pensandoli come elementi scontati, intrinsecamente accettati una volta per tutte; al contrario, uno specialista di letteratura francese dovrebbe occuparsi di questi vari elementi, senza darli per ovvi, inserendoli nei modi in cui un ‘nativo’ manifesta tratti definitori della propria società e cultura in termini di similitudini e differenze all’interno e all’esterno delle sue opere: tenendo quindi conto dei modi di attribuzione, come direbbe Foucault, dell’autorialità e culturalità, della testualità e discorsività, nonché dei gradi diversificati di attribuzione di soggettività e oggettività. In altri termini, la vita e le tecniche di scrittura (e persino l’evoluzione delle opere) di un autore dovrebbero essere viste in collegamento con il suo essere membro di una società e cultura semanticamente organizzata e persino disorganizzata, presa, come sostiene Balandier, nel vortice continuo di ordine e disordine.
V. Questa ipotesi può sembrare bizzarra perché, naturalmente, si leggono i testi letterari (e non solo quelli) in quanto tali: ‘a cose fatte’ e non come processi dinamici e comparativi in via di ridefinizione e riaggiustamento culturale degli stessi principi estetici su cui si basano le assegnazioni di creatività a tale o talaltro autore. Per fare soltanto un paio di esempi – significativi a questo riguardo al fine di ricordare la diversità dei principi di valorizzazione vigenti all’interno di una cultura – si dovrebbe tenere a mente che Proust, inizialmente, dovette pubblicare a proprie spese la sua opera; Joyce, ugualmente, altro autore importante della cultura occidentale, ebbe non poche difficoltà nella pubblicazione delle proprie opere e persino Virginia Woolf si mostrò ostile nei suoi confronti, benché fosse una propugnatrice di rilievo dello stream of consciousness. In definitiva, per tornare alla questione di partenza, un francesista, o qualsiasi altro specialista di letterature, dovrebbe tenere conto degli stretti legami che esistono tra principi letterari, principi di organizzazione semiotica dei contenuti e principi generali di definizione antropologica di una cultura. Tenerne conto non vuol dire improvvisarsi specialisti di campi enciclopedici del sapere: significa avere bene in mente che i saperi sono forme di discretizzazione di significati e significanti all’origine amorfi e attribuiti a discipline secondo ordini discorsivi vari, sottomessi a epoche e culture diverse; significa, inoltre, promuovere collaborazioni interdisciplinari – se non addirittura antidisciplinari – e accettare il valore costruito dei metalinguaggi del sapere al fine esplicito di trasgredirne le stereotipizzazioni date e prodotte.
Le discipline non sono preconfezionate – valga per tutte il caso di una disciplina tutto sommato recente come la psicanalisi – e i discorsi che sembrano appartenere all’una o all’altra circolano, prendendo forma in testi diversi, in epoche diverse, con valori vari. Come afferma Jakobson, la letterarietà può realizzarsi in un discorso in prosa o in rima così come in un discorso pubblicitario o politico d’ordine visivo. Anzi, il carattere letterario – Jakobson direbbe poetico – di un discorso politico potrebbe contribuire a renderlo più efficace nei confronti dei destinatari a cui si rivolge il destinante durante una campagna politica. In questo senso, ancor più radicalmente, un testo di un antropologo potrebbe, a seconda della situazione e epoca, avere una funzione letteraria o politica; viceversa, un testo di uno scrittore letterario potrebbe avere una funzione antropologica primaria. Per rimanere nell’ambito della letteratura francese e delle sue intersezioni con l’antropologia, si pensi a Zola: alla sua idea di coinvolgimento diretto, in prima persona e sul campo, nelle sue opere letterarie, nonché al valore che la descrizione assume nei suoi scritti in quanto funzione culturale.
VI. In breve, i saperi e i metalinguaggi, costruiti a questo effetto, non dovrebbero essere considerati compartimentazioni stagne. Stranamente, questo principio trova ostacoli talvolta proprio in antropologia che dovrebbe essere invece vista come il luogo di rivelazione teorica di queste interconnessioni pratiche e teoriche, linguistiche e metalinguistiche. Ovviamente esistono le eccezioni. Quelle più vistose e rimarchevoli, in questa direzione, sono sicuramente quelle relative al gruppo di antropologi facenti capo alla corrente comunemente definita Writing Culture, così come, a nostro parere, quelle relative ad alcuni antropologi considerati esistenzialisti a cui pare inutile fare una rigida distinzione tra scrittura artistica e scientifica. Ciò richiede tuttavia una precisazione. Questo – nostro – privilegio dell’interconnessione, in qualche modo anarchica, non è soltanto fruttuoso al fine di una migliore riflessione sul sapere e sui mezzi più adeguati per veicolarlo – quali, tra gli altri, la comunicazione scritta, orale, filmica, etc. – ma, anche, un modo per opporsi al potere politico di pochi che impongono norme convenzionali subordinando la libera creatività dei molti. È pur vero che forme di potere e di sapere s’intrecciano sempre, storicamente, in una direzione o l’altra: nella nostra prospettiva, è però necessario esserne consapevoli al fine di accogliere la più grande ricchezza di punti di vista, promuovere tipi diversi di molteplicità e rifiutare egemonie disciplinari. Chiariti i presupposti di base, passiamo adesso al testo di Proust ricordando che intendiamo parlare più specificamente di cultura dell’abitare attraverso il modo in cui un autore come Proust abita la propria cultura, accogliendone al contempo nel suo seno, traducendoli in un proprio linguaggio, i segni dell’identità e dell’alterità, acquisendone in cambio il ruolo di soggetto modalizzato al fare e all’essere.
VII. È notorio che Proust nella Ricerca presenta al lettore i salotti dell’epoca e le diverse forme di interazione mondana che prendono posto in questi spazi. La Ricerca può però, di più, essere considerata un immenso laboratorio di sperimentazione del rapporto identità-alterità e di posizionamento di spazi omologanti questo rapporto a partire da un ‘luogo dell’intimità’: la stanza da letto. Il recupero stesso della memoria, per esempio, luogo privilegiato di deposito dei tratti specifici della propria identità, passa attraverso un dispositivo spaziale e temporale innovatore nella raffinata articolazione che prende avvio nell’immaginario dell’autore durante le notti insonni, nella propria stanza da letto. Spazio e tempo, in questa stanza, vengono costantemente esplorati dal soggetto della percezione che li dilata, moltiplica e coniuga nelle loro svariate possibilità tracciando, con ciò, il tessuto riepilogativo di una esperienza vissuta e della propria vita in genere. Nonostante sia uno spazio fisicamente limitato, la stanza da letto – luogo in cui l’autore della Ricerca, sofferente di asma e di insonnia, trascorre gran parte della propria vita – diviene elemento catalizzatore dell’esplorazione del proprio ‘io’ e ambiente privilegiato in cui si intersecano quelle importanti fasi di sonno e risveglio che consentono una percezione estremamente sensibile e dinamica delle coordinate spazio-temporali. È utile ricordare che, nella Ricerca, le stanze delle case del narratore assumono un rilievo centrale per il recupero della propria memoria e, di conseguenza, della propria identità.
Ora, è necessario precisare che se è vero che le stanze in cui viveva il narratore della Ricerca sono indubbiamente importanti – poiché fungono da anelli di passaggio da un evento all’altro, da uno spazio all’altro o, più semplicemente, da una narrazione all’altra, manifestandosi così in termini di ‘transizione simbolica’, quasi liminare – è anche più importante sottolineare che sono proprio le stanze da letto a rappresentare uno dei luoghi privilegiati di costruzione, messa in forma e manifestazione della soggettività stessa del narratore, in definitiva del proprio modo di fruire lo spazio e del modo di concepire la propria personale maniera di abitare del Sé che si spazializza. Nella Ricerca, quindi, i mondi sociali descritti e gli spazi di interazione a essi associati hanno un valore centrale sia per i collegamenti che si instaurano nel passaggio dall’uno all’altro sia, ovviamente, per la significazione individuale che acquisiscono. A nostro parere, però, è la stanza in cui l’autore dorme a acquisire una vera e propria valenza sintattica e semantica – produttrice di ‘effettuazioni di soggettivazioni’ – perché in questo spazio specifico si presentano, in forma concentrata, diverse forme di soglie simboliche: quelle che si situano tra la veglia e il sonno, il leggere e il pensare, il radicamento e il fluttuare, l’identità e l’alterità, la spazialità e la temporalità, la soggettività e l’oggettività.
VIII. Invece di descrivere in termini unicamente oggettivi questo luogo e di associarlo in modo fisso allo stato d’animo di un personaggio e ai tratti della sua personalità (alla maniera di alcuni scrittori dell’Ottocento), Proust lo assume come agente catalizzatore di situazioni che riproducono il montaggio – come direbbe Ejzenštein – della propria identità in termini di sgretolamento della netta dicotomia tra l’esterno e l’interno, tra il proprio ‘io’ e lo spazio circostante. Si osservi questo passaggio della Ricerca:
«A Combray ogni giorno, a cominciare dalla fine del pomeriggio, molto prima del momento in cui avrei dovuto essere messo a letto e restarmene lì senza dormire, lontano dalla mamma e dalla nonna, la mia camera da letto ridiventava il punto fisso e dolente delle mie preoccupazioni. Avevano così escogitato, per distrarmi le sere in cui trovavano che avessi un’aria troppo infelice, di darmi una lanterna magica con la quale, aspettando l’ora di pranzo, veniva attrezzata la mia lampada; e che, nello stile dei primi architetti e maestri vetrai dell’età gotica, sostituiva all’opacità delle pareti iridescenze impalpabili, soprannaturali apparizioni multicolori dove alcune leggende erano dipinte come su una vetrata vacillante e momentanea. Ma la mia tristezza non ne era che accresciuta, giacché bastava la diversa illuminazione a distruggere l’abitudine che avevo della mia camera e grazie alla quale, escluso il supplizio dell’andare a dormire, essa mi era diventata sopportabile. Adesso non la riconoscevo più e ci stavo con inquietudine, come in una camera d’albergo o di chalet nella quale fossi arrivato per la prima volta scendendo dal treno» [2].
In questo frammento, si vede bene che la stanza è associata a uno stato patemico e cognitivo disforico: essa rappresenta «il punto fisso e dolente delle […] preoccupazioni» del narratore. Eppure, nel tempo, essa acquista i tratti dell’‘assuefazione’ conseguita grazie all’‘abitudine’, alla consuetudine e all’atto cognitivo equivalente al ‘riconoscimento graduale’. A questo paradigma rassicurante di oggetti sempre uguali, disposizioni spaziali immobili, configurazioni architettoniche fisse, illuminazioni statiche e immutate, si oppone il cambiamento legato al travestimento del solito lume («veniva attrezzata la mia lampada») in «lanterna magica», capace di mascherare la staticità, la solidità, la monocromaticità e lo spessore dei muri («sostituiva all’opacità delle pareti») per trasformarli in elementi instabili («vacillante e momentanea»), trasparenti (“vetrate”), policromatici (“multicolori”) e senza consistenza fisica tangibile (“impalpabili”). Il richiamo ai «maestri vetrai dell’età gotica» e la fugace e apparente sostituzione dei muri opachi con delle “vetrate” consentono di trasformare la chiusura della stanza in apertura verso l’esterno (la trasparenza, l’inconsistenza). Questa apertura verso il mondo esterno viene poi rafforzata nel racconto – che seguirà nel testo – della storia di Golo e Genoveffa proiettata sui muri dalla lanterna magica. Non riportiamo, per ovvie ragioni, il lungo resoconto della cavalcata di Golo verso il castello di Genoveffa e ci limitiamo a cogliere i tratti del brano che riteniamo più interessanti ai fini della nostra analisi della configurazione spaziale del Sé. Di fatto, le proiezioni della lampada permettono di allargare i confini fisici della stanza poiché fanno riferimento a spazi esterni e lontani: una foresta triangolare, il pendio di una collina, un lembo del castello di Genoveffa e una landa che gli si stende davanti. Tuttavia, questa rappresentazione spaziale in estensione ritrova, allo stesso tempo, una dimensione più ristretta poiché queste immagini dell’‘altrove fantastico’ assumono la forma degli oggetti della stanza (il bordo di uno degli ovali della lanterna, le tende, la maniglia della porta) sulle quali si proiettano: «gonfiandosi […] sprofondando nelle […] fessure […] s’adattava a qualsiasi ostacolo materiale, a qualsiasi oggetto ingombrante […] assumendolo come ossatura e rendendoselo interno» (ibid.: 13). In questo modo, come il solito lume viene temporaneamente trasformato in lanterna magica, così anche i muri vengono ‘coperti’ (come in un dipinto) dalle proiezioni della lampada.
IX. In effetti, rileggendo il brano ci si rende conto che – nonostante la comparazione con le costruzioni architettoniche e le vetrate dell’epoca gotica attribuisca un’estrema profondità allo spazio (che si mostra come in proiezione centrifuga verso l’esterno) – il fatto che le leggende proiettate dalla lampada siano “dipinte” sui muri, riporta immediatamente l’apertura e la profondità alla superficie piana di una tela (o, eventualmente, di un quadro). In questo modo, nel corso di poche righe, si trova rappresentato uno spazio in continua evoluzione e trasformazione che allarga e restringe i suoi confini alla stregua, metaforicamente, di un elastico che viene tirato e rilasciato più volte di seguito: così si passa dalla chiusura della ‘solita stanza’ alla dissoluzione dei muri che si trasformano in ‘vetrate’, dalla rappresentazione pittorica delle ‘leggende multicolori’ dipinte sui muri all’evasione prospettica verso il ‘mondo fantastico’ di Golo e Genoveffa e, infine, all’‘adesione del corpo’ dei personaggi sugli ‘oggetti interni alla stanza’. Allo stesso modo dei confini elastici e dinamici della stanza, anche l’abitudine e la novità, il conosciuto e lo sconosciuto, l’ordinario e lo straordinario sono interattivi e in continuo rimando dall’uno all’altro. L’abitudine è rotta dal cambiamento di aspetto di ogni elemento interno alla stanza: il lume diventa una lanterna magica, i muri assumono la forma di vetrate, poi di dipinti, di paesaggi lontani e fantastici e infine di corpi deformati e tridimensionali (il cavallo di Golo prende la forma degli incavi e dei rigonfiamenti della tenda o il corpo di Golo proiettato sulla maniglia, si gonfia e vi galleggia sopra). Inoltre: uno dei bordi della lanterna ‘rappresenta’ la linea curva che definisce uno dei lati del castello, la tenda si trasforma nel cavallo di Golo, la maniglia della porta diventa il corpo stesso di Golo. Similmente, l’universo ‘straordinario’ si insinua nel mondo ‘ordinario’ grazie all’intrusione di tutta una dimensione che si definisce seguendo l’isotopia del ‘fantastico’: la lanterna è infatti “magica” e le sue proiezioni sono delle «soprannaturali apparizioni»; inoltre, anche il cavallo e il corpo di Golo sono costituiti «di un’essenza […] soprannaturale» e fanno l’oggetto di una straordinaria e insolita “trasvertebrazione” (parola inventata da Proust). Eppure, questa apertura verso l’esterno – al contempo cambiamento momentaneo e sovrapposizione dello straordinario sul mondo ordinario – non conforta il narratore dalle sue preoccupazioni ma ne accentua lo stato disforico («la mia tristezza non ne era che accresciuta») poiché rompe, per l’appunto, l’abitudine e non consente l’adesione del soggetto al suo universo già conosciuto e confortante, anzi lo trasforma in un mondo assolutamente nuovo e, perciò, inquietante: «come in una camera d’albergo o di chalet nella quale fossi arrivato per la prima volta scendendo dal treno».
X. Lo spazio esterno, dunque, rappresentato tanto dalla stanza quanto dalle proiezioni fantastiche, destabilizza il soggetto cognitivo e percettivo che, non riconoscendo più il suo universo di appartenenza, non identifica se stesso. Ciò avviene in virtù del fatto che l’abitudine, il riconoscimento, l’uso ‘inconscio’ degli oggetti della stanza (che non hanno più bisogno di un soggetto consapevole che sappia manovrarli ma sembrano agire da soli) – in pratica, l’arresto implicito dell’attività cognitiva del /saper fare/ («senza che io dovessi toccarla, tanto la manovra me n’era divenuta inconsapevole») e, contemporaneamente, dell’attività percettiva del /sentire/ («l’effetto anestetizzante dell’abitudine») – consentono al soggetto cognitivo e percettivo di ‘espandere’ spazialmente il proprio ‘io’, proiettandolo al di fuori di se stesso per farlo aderire ai confini della stanza: «una camera che avevo, alla fine, così riempito del mio io da rendere l’una e l’altro oggetto di un’uguale attenzione» (ibid.: 13,14). Tuttavia, se è vero che lo spazio che circonda il soggetto si trasforma in un lago interiore, non è altrettanto vero che l’anima è capace di ampliarsi all’infinito: come si è già osservato, essa si arresta laddove si delineano i confini fisici e tangibili dello spazio (rappresentati in questo caso dai muri opachi). Tant’è vero che, nel momento in cui questo spazio si allarga e si estende verso l’esterno lasciando fuoriuscire l’animo che lo riempie, il soggetto non si ritrova più, non si riconosce più, in altre parole, non accetta più questo spazio dilatato e ‘incontinente’. In definitiva, per riassumere, spazio e soggetto sono intimamente legati e si configurano come dimensioni congiunte di articolazione di categorie (la dilatazione e il restringimento, l’interno e l’esterno, la stasi e il dinamismo, l’abitudine e l’effetto straniante) grazie ad una comune forma cognitiva e percettiva: gli oggetti agiscono attivamente (come animati da una forza propria) e il soggetto ‘risente’ fisicamente dei cambiamenti imposti alla stanza. Allo stesso tempo, il soggetto è talmente immerso in questo ‘gioco intersemiotico’ di traduzioni di componenti diverse, di configurazioni d’insiemi e di sovrapposizioni di categorie che non può fare a meno di ‘comporsi’ e ‘ricomporsi’ come identità che percepisce, pensa e agisce proprio in questa interazione incessante.
XI. Già a partire da questi brevi esempi – ovviamente da rimodulare, di volta in volta, in accordo a autori e contesti d’uso diversi – ora è più chiaro il motivo per cui pensiamo che la (meglio dire: una) cultura dell’abitare non può essere concepita se non attraverso una riflessione sul modo in cui alcuni «soggetti abitano la cultura» e ne rappresentano le istanze attraverso le interazioni con lo spazio concepito in quanto attore. Proprio a partire da Proust, interprete di risvolti artistici e sociali del secolo scorso, noi richiamiamo all’attenzione degli studiosi l’importanza della complessa articolazione uomo-spazio-tempo e della sua interrelata composizione semantica. Ciò che ci preme sottolineare più particolarmente è l’idea che l’interazione dell’uomo con il proprio Sé e con gli altri esseri è vista – deve essere vista – tenendo conto della dimensione spazio-temporale e delle sue molteplici possibilità configurative e attanziali; l’intreccio delle tre dimensioni (soggetto, spazio e tempo) risulta essere, a nostro parere, un’articolazione semantica complessa che si organizza, nel suo insieme, sulla base di un vissuto esperienziale di cui bisogna tenere conto nelle diverse analisi. Per concludere, infine, ci si può chiedere succintamente quali altre tracce di ricerca, oltre quelle già palesate, si possono trarre da questo orientamento in cui più impostazioni disciplinari convergono liberamente.
XII. Antropologicamente, sulla base di questo esempio, si è tentati – noi saremmo tentati – di ampliare la nozione di passaggio (utilizzata da Van Gennep nella definizione di alcuni riti) alle più sottili e volatili fluttuazioni liminari che si possono esperire nel vissuto quotidiano, persino in momenti in apparenza meno significativi, quale quello raccontato dal narratore proustiano, in cui un individuo stenta a prendere sonno. Il limen tra la veglia e il sonno diventa infatti l’occasione per mettere a fuoco su alcune soglie, molto potenti e determinanti, quali soggettività e oggettività, spazialità e temporalità, affioramento della coscienza e allentamento dell’‘io’, pensiero concentrato e flussi di coscienza. Ma non si tratta unicamente di soglie e dei loro vari gradi di assegnazione di un’eventuale funzione rituale nel vissuto quotidiano. Le categorie sulle quali si basano le instaurazioni e trasgressioni delle soglie in questione sono a loro volta in stretta relazione – il riferimento va a Greimas – con i ‘programmi d’azione’ del soggetto. Ritorniamo brevemente a Proust per capirlo meglio. Come abbiamo visto, la stanza del narratore della Ricerca costituisce il mondo in cui il suo ‘io’ fluisce attraverso l’instaurazione e dissoluzione di alcune soglie. Nel resto dell’intera Ricerca si metterà invece maggiormente in scena l’intenzione di abbattere queste frontiere spazio-temporali percepite come un limite alla espansione del proprio ‘io’. Il frammento commentato si trova, in effetti, all’inizio della Ricerca, momento iniziatico in cui il soggetto della quête non ha ancora acquisito le competenze modali necessarie alla realizzazione di questo suo complesso programma d’azione. Non a caso, in questo brano, le frontiere si allargano e si restringono come a voler anticipare e sottolineare la necessità intrinseca alla fuga, al movimento, alla ricerca e alla conquista di ‘mondi’ dell’anima insospettati. In seguito, la vita del narratore sarà più evidentemente risultante dall’intreccio di ‘programmazioni’ a breve e lungo termine e di ‘istituzioni’ di soglie da superare.
XIII. Questo snodo, affrontato qui sulla base di un esempio, è importante per mettere in relazione non soltanto il legame sovente trascurato nelle scienze sociali tra soggettività e immaginazione, ma anche quello instaurato tra le – plurime, quotidiane, non necessariamente esotizzanti – iniziazioni di un individuo e le soglie formali utili alla realizzazione del suo progetto di vita. Abbiamo affermato che spazio e tempo sono determinanti nella configurazione della soggettività (in qualità di aiutanti e opponenti implicati nelle pianificazioni esistenziali del soggetto); a sua volta, non bisogna dimenticare che il soggetto interviene nella costruzione dello spazio e del tempo attraverso la sua specifica maniera di discretizzarli: questa discretizzazione, per quanto fluida o osmotica tra gli individui e l’insieme della cultura, è conforme al ritaglio delle soglie formali atte a costituire tipi di iniziazione. Questi spunti progettuali, come anticipato, non riguardano soltanto l’antropologia. Dal punto di vista semiotico, si è senz’altro incoraggiati a prendere maggiormente in conto il va e vieni tra testo e cultura, tra le più specifiche discretizzazioni semantiche interne al testo e i più generali parallelismi della cultura, passando inoltre, come piacerebbe a Wittgenstein, per i contesti d’uso intermedi. Infine, dal punto di vista del francesista, si è positivamente spinti a vedere un testo letterario come serbatoio di esplorazione della cultura, estendendone la significazione al suo esterno, per cogliere tratti più generali dell’essere umano e del suo modo di vivere, considerando l’immaginazione dell’autore, per quanto sovente individualmente inventiva o trasgressiva, un processo dinamico di creazione di connessioni tra se stesso, la collettività e i dispositivi artistici approntati a questo fine. Il tutto, come vorrebbe Popper, nell’ottica, da noi condivisa, di conoscenze e società aperte.
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
Note
[1] Questo saggio, concepito congiuntamente dagli autori, è stato redatto da Licia Taverna per i paragrafi III, IV, VIII, IX, X, XI, XIII e da Stefano Montes per i paragrafi I, II, V, VI, VII, XII.
[2] M. Proust, Dalla parte di Swann, a cura di L. De Maria, trad. G. Raboni, Mondadori, Milano, 1983: 12.
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
Licia Taverna, ha insegnato nelle università di Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. Semiologa e francesista, ha dedicato diversi saggi al Surrealismo e, più in generale, all’analisi della dimensione spazio-temporale dei testi letterari dell’Ottocento e del Novecento francese. Altri suoi campi di interesse sono i testi liminari e la traduzione intersemiotica.
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