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La democrazia alla prova della guerra

11di Giuseppe Savagnone 

Per la democrazia 

Le guerre che si sono scatenate il 24 febbraio 2022 e il 7 ottobre 2023, rispettivamente in Ucraina e nel Medio Oriente, hanno chiamato in causa la democrazia. In entrambi i casi è stato in suo nome che i governi occidentali si sono schierati prima a favore del governo di Kiev, poi di quello di Tel Aviv. E in questo senso si sono pronunziati quasi unanimemente anche i maggiori opinionisti italiani. Emblematico un articolo di Sergio Fabrini, sul «Sole24ore» del 15 ottobre 2023, in cui – anticipando quasi alla lettera quanto avrebbe detto, qualche giorno dopo, il presidente americano Biden nel suo messaggio alla nazione – metteva in rapporto l’aggressione all’Ucraina da parte di Putin e quella ad Israele da parte di Yahya Sinwar (il leader operativo di Hamas a Gaza). Secondo lui, il vero obiettivo di entrambi era l’eliminazione di due democrazie che li sfidano proprio ai loro confini.

«Putin e Siwar», nota Fabrini, «condividono il disprezzo per le società aperte, dove gli individui sono protetti da diritti inalienabili rispetto a chi detiene il potere (secolare e religioso) […]. Ucraina e Israele sono democrazie, seppure imperfette, che sono l’opposto dei regini autocratici (sia secolari che religiosi) che quei leader rappresentano». Da qui la conclusione: «Se la democrazia è la posta in gioco delle due aggressioni militari, allora è evidente che le altre democrazie non possono che sostenere Kiev e Tel Aviv».

Non c’è dubbio che in questa analisi ci sono molti elementi di verità. Putin è un dittatore senza scrupoli, noncurante dei diritti umani, fino al punto di eliminare anche fisicamente i suoi avversari politici. Si inserisce in questa logica la sua aggressione all’Ucraina, che, tra gli altri moventi, ha sicuramente il progetto di ristabilire i confini dell’ex Unione sovietica, negando l’identità e l’autonomia del popolo ucraino.

Quanto ad Hamas, il gruppo armato che dal 2006 ha il controllo della Striscia di Gaza, pur avendo conseguito questo risultato con libere elezioni (però mai più ripetute) già nella gestione del suo territorio ha mostrato di condividere lo stile tipico del fondamentalismo islamico nei confronti degli oppositori interni e delle donne, costrette a subire (come in Iran e in Afghanistan) una soffocante discriminazione che le mette al margine della società. E solo un cieco, feroce fanatismo può spiegare le modalità disumane dell’attacco a Israele del 7 ottobre.

Si giustifica, dunque, da questo punto di vista, la denunzia di Fabrini (e soprattutto di Biden). 

Guardare i fatti

Il limite di questa posizione – anche recentemente ribadita con grande decisione dagli Stati aderenti al G7, almeno per quanto riguarda l’Ucraina (ma anche nei confronti di Israele il loro appoggio, pur con delle condizioni, non è mai venuto meno) – è che essa assume il concetto di democrazia nella sua valenza puramente giuridica, senza tenere conto dei comportamenti effettivi dei governi “democratici” in gioco. Forse bisognerebbe anche guardare, oltre alle formule costituzionali, i fatti.

Per farlo, però, bisogna uscire dallo schema, quasi universalmente impostosi quando si è parlato di queste guerre, che esse siano nate con l’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 e con l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023. Uno schema in base a cui è stato chiaro a tutti chi era l’aggredito e chi l’aggressore, legittimando automaticamente i comportamenti e la reazione del primo nei confronti del secondo.

12La realtà, però, è molto più complessa. Nel caso dell’Ucraina, fin dal 2014 infuriava una guerra, del tutto “dimenticata” dall’Occidente, fra i separatisti filo-russi (sostenuti più o meno occultamente dal Cremlino) e le truppe del governo centrale di Kiev. Difficile dire quanto pesassero delle reali esigenze di autonomia linguistica e amministrativa delle regioni secessioniste e quanto le mire espansionistiche di Mosca. Quel che è certo è che da entrambe le parti si sono commesse atrocità – attribuite particolarmente, dal lato ucraino, al famigerato “battaglione Azov”, accusato di neonazismo –, con un bilancio complessivo di 14.000 morti.

Nel 2015, finalmente, gli accordi di Minsk stabilirono la fine dei combattimenti e il ritorno all’Ucraina delle regioni ribelli – che intanto si erano costituite in repubbliche indipendenti –, in cambio di maggiore autonomia. A questo scopo gli accordi prevedevano, da parte di Kiev, entro la fine del 2015, una riforma costituzionale sul decentramento territoriale. Quest’ultimo obbligo era indicato dall’art. 9 come presupposto necessario affinché la Russia cedesse al governo ucraino il pieno controllo sulla frontiera nelle zone del conflitto. In realtà gli accordi non sono stati mai rispettati. Neppure quello relativo alla riforma costituzionale, che avrebbe dovuto garantire i diritti delle minoranze russofone del Donbass.

Siamo davanti a un quadro che non consente di tracciare una netta linea di demarcazione fra le ragioni e i torti dei contendenti, ma che certamente esclude la visione semplicista, resa comune dai mass media e dai governi occidentali, secondo cui l’aggressione di Putin sarebbe saltata fuori dal nulla. In particolare, se ha un fondamento (come sembrerebbero attestare gli stessi accordi di Minsk) l’accusa, rivolta da una parte degli abitanti delle regioni del Donbass, di una soffocante negazione della loro identità culturale, è chiaro che – quali che siano i torti di Putin – esiste il problema di come una vera democrazia debba gestire la diversità delle minoranze, per evitare di trasformarsi in una dittatura della maggioranza.

Di ciò, nel corso di questa guerra, il governo di Kiev non ha mai parlato, né lo hanno fatto i suoi alleati democratici. E sta di fatto che tra i «dieci punti per la pace» enunciati da Zelensky nel vertice tenutosi in Svizzera il 16 e 17 giugno, su questo tema non si trova neppure un cenno. Né gli Stati che hanno sottoscritto il documento hanno sollevato la questione, chiedendo una qualche garanzia in proposito. Così, il rischio è che aiutare Kiev a vincere questa guerra – a costo degli immensi sforzi che ciò sta comportando – significhi alla fine autorizzarlo a continuare a violare i diritti imani di una parte consistente dei suoi cittadini. Ma è questa la causa della democrazia? 

Il nome della pace è veramente “vittoria”? 

Una democrazia non può non praticare, con tutti i mezzi, la ricerca della pace. Con tutti i mezzi non vuol dire a tutti i costi – come un discutibile pacifismo vorrebbe –, ma certo implica l’attitudine a un confronto che permetta di recepire quanto di legittimo vi possa essere nelle esigenze dell’altra parte. Di un simile sforzo dialogico non c’è stata la minima traccia né nel comportamento del governo ucraino né in quello degli Stati che, sotto l’insegna della Nato – un’alleanza militare creata alla fine della Seconda guerra mondiale in funzione antisovietica – si sono schierati al suo fianco.

Ferma restando la indiscutibile tendenza imperialista di Putin, è inquietante apprendere che, come il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha riconosciuto, nel dicembre 2021 da Mosca era venuta una proposta per evitare la guerra, proponendo un trattato di sicurezza che stabilisse la neutralità di Kiev e lo stop all’ampliamento a est della Nato.

espansione_vs_est_nato_edito_1019In effetti, dopo la caduta del muro di Berlino, era stata data assicurazione verbale al presidente russo Gorbaciov che la Nato non avrebbe approfittato delle difficoltà della Russia per ulteriori espansioni. Lo testimonia Jack Matlock, ambasciatore americano a Mosca dal 1987 al 1991 in un’intervista rilasciata al «Corriere della Sera» del 15 luglio 2007: «Quando ebbe luogo la riunificazione tedesca noi promettemmo al leader sovietico Gorbačëv – io ero presente – che se la nuova Germania fosse entrata nella Nato non avremmo allargato l’Alleanza agli ex Stati satelliti dell’Urss nell’Europa dell’Est. Non mantenemmo la parola».

Infatti, nel 1999 Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca entrarono a far parte della Nato. Nel 2004 fu la volta di quattro Paesi ex membri del Patto di Varsavia: Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia, nonché di tre ex repubbliche sovietiche, Lettonia, Estonia e Lituania. Nel 2009 aderirono Croazia e Albania. Nel 2017 il Montenegro. Nel 2020 la Macedonia del Nord. 

Basta guardare la carta dell’Europa orientale per rendersi conto che quello che si stava verificando era un accerchiamento della Russia da parte di un’alleanza militare a trazione americana nata in funzione anti-russa. Si possono capire le resistenze del Cremlino all’ingresso nella Nato di un’altra ex repubblica sovietica, appunto l’Ucraina, che avrebbe completato questo accerchiamento.

Si potrà dire che l’Ucraina è un Paese sovrano ed è libero di fare le sue scelte. Ma nella Nato si entra solo se si è accettati. Dipendeva dagli Stati Uniti e dai suoi alleati evitare lo scontro frontale. C’è un chiaro precedente. Nell’ottobre del 1962 il presidente americano Kennedy pose un ultimatum alla Russia per impedire che fossero impiantate a Cuba, a ridosso dei confini degli Stati Uniti, basi con missili russi. Il premier russo Kruscev capì e rinunziò.

Lo stesso Stoltenberg, ricordando la richiesta di trattative, da parte di Mosca, per una situazione analoga, ha ammesso senza mezzi termini che essa fu respinta. E si sapeva bene che ciò portava alla guerra, tanto che fin dal 2014, istruttori americani preparavano ad essa l’esercito ucraino. Infine, nei giorni immediatamente precedenti l’attacco russo, i servizi segreti americani sono stati gli unici ad esserne perfettamente informati in anticipo. Può darsi che non sarebbe bastato, ma il presidente Biden non ha detto una sola parola che potesse rassicurare il suo omologo del Cremlino sulla neutralità ucraina ed evitare l’intervento armato russo.

Un analista non certo sospetto di “antiamericanismo” come Domenico Quirico poteva affermare, nei primi mesi della guerra, che il sostegno dato all’Ucraina dagli Stati Uniti aveva come scopo «spazzare via la potenza russa come pericolo permanente» e che la guerra costituiva per gli americani «una imperdibile occasione di riaffermare una “iperpotenza” a cui sono giustamente affezionatissimi» («La Stampa», 11 maggio 2012).

Così non stupisce che l’obiettivo dichiarato e perseguito, sia con le misure politiche, sia con le sanzioni economiche, sia stato fin dall’inizio non di trovare una via per por fine alla strage in corso, ma quello – per usare le parole del presidente Biden – di «isolare la Russia dal palcoscenico internazionale», riducendola al ruolo di «paria». E che si sia potuto ripetere, da parte di Zelensky, che «il nome della pace è la vittoria».

Si spiega allora come mai, all’indomani dell’invasione, si sia scatenata una demonizzazione senza precedenti di tutto ciò che era russo. Così, nell’ambito sportivo, tradizionalmente favorevole alla sospensione delle ostilità reciproche, le squadre – per esempio la Nazionale di calcio e i club – furono bandite dalle competizioni internazionali. Addirittura lo furono anche i singoli che chiedevano di gareggiare a titolo personale, per il solo fatto di essere russi, a prescindere dalle loro prese di posizione politiche. I tennisti, furono esclusi dal torneo di Wimbledon; il Comitato Olimpico Internazionale raccomandò «vivamente» a tutte le federazioni mondiali di «non invitare atleti russi e bielorussi» alle gare sportive internazionali; il divieto fu addirittura applicato anche agli atleti disabili che avrebbero dovuto partecipare (ed erano disposti a farlo senza bandiera) alle paraolimpiadi invernali di Pechino. Lo stesso avvenne nel mondo della cultura. Nei teatri occidentali venero cambiati i programmi, togliendo dai cartelloni, per solidarietà all’Ucraina, opere e artisti russi. Un muro altissimo e invalicabile, in un certo senso più alto e impenetrabile di quello di Berlino. Altro che ricerca della pace!

E oggi, di fronte alle difficoltà militari che l’esercito ucraino sta incontrando, la sola prospettiva all’ordine del giorno è quella di aumentare indefinitamente le forniture di armi – per questo i soli Stati Uniti hanno investito, dall’inizio della guerra, la cifra astronomica di 173 miliardi di dollari! – e di ridurre i vincoli che finora limitavano la possibilità di usarle sul territorio russo.

In questa logica, che non prevede alcun negoziato, non stupisce che il presidente Zelensky abbia indetto a Lucerna dal 15 al 16 giugno, una grande «Conferenza di pace sull’Ucraina», a cui erano convocate 160 delegazioni di tutto il mondo (anche se hanno di fatto partecipato 92), senza invitare la Russia. L’obiettivo, ancora una volta, era quello di isolarla e raccogliere altri appoggi e aiuti, per il solo scopo che sembra contare, che non è la pace, bensì – come si diceva prima – la vittoria finale.

Ma non c’è, a questo punto, il rischio che le democrazie coinvolte in questo scontro frontale – di cui diventano ogni giorno di più protagoniste dirette (si parla sempre più spesso di inviare “istruttori” europei in Ucraina) – siano simmetriche e spaventosamente simili al nemico che vogliono combattere? Se ci si affida solo alla forza delle armi, cosa distingue un regime autoritario da uno democratico? E, ammesso pure che si arrivasse alla vittoria di uno dei due, sarebbe davvero un aiuto per la democrazia o avvierebbe processi disastrosi di risentimento, come quelli che dopo la Prima guerra mondiale favorirono l’avvento al potere del nazismo?

È quello che papa Francesco da molto tempo cerca disperatamente di spiegare, chiedendo ai contendenti di fare un passo indietro e di avviare un confronto che non sia un puro e semplice braccio di ferro militare. Ma è una voce che grida nel deserto. 

Guterres  ad estra e

Cohen a sinistra e Guterres a destra

Prima del 7 ottobre 

Anche la risposta di Israele alla sfida (e forse alla trappola) dell’attacco di Hamas ha preso le mosse dal rifiuto di prendere sul serio ciò che stava a monte di esso e che, senza giustificarlo, poteva però far capire in che direzione muoversi per una soluzione non solo militare.

Oggi il governo israeliano e i suoi sostenitori insistono univocamente sull’aggressione del 7 ottobre, come se prima di quella non fosse accaduto nulla, e il ministro degli esteri di Tel Aviv Cohen si è infuriato quando il segretario generale dell’ONU Guterres, pur condannandoli duramente, ha notato che «gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite».

La risposta di Cohen è stata la richiesta di dimissioni di Guterres, unita all’affermazione che l’ONU «non avrà motivo di esistere» se le nazioni che la compongono «non si schiereranno dalla parte di Israele» e alla decisione di «dargli una lezione», negando il visto di entrata ai suoi rappresentanti. Viene in mente quello che Fabrini diceva, spiegando perché su Israele, in quanto democrazia, si gioca il futuro delle nostre società aperte. Società piene di difetti ma dotate della libertà per correggerli».

9788881129089_0_536_0_75In realtà, come ha dimostrato lo storico israeliano Ilan Pappé, nel suo libro tradotto in 15 lingue La pulizia etnica della Palestina, fin dal marzo 1948 l’Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista, guidata da Davide Ben Gurion – che rimane per gli israeliani “il padre della patria” – aveva programmato e avviato un programma di sistematica espulsione dei residenti palestinesi. La sua finalità era espressa nelle parole: «I palestinesi devono andarsene». A monte, c’era la «determinazione ideologica sionista ad avere un’esclusiva presenza ebraica in Palestina».

I metodi erano minuziosamente predeterminati: «Intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno».

«Ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti».

E neppure la giusta indignazione per la ferocia dimostrata dagli uomini di Hamas può far dimenticare che in questi ultimi cinquant’anni Israele ha sistematicamente ignorato e violato tutte le risoluzioni dell’ONU che gli imponevano di rispettare i diritti dei palestinesi. Non si possono chiudere gli occhi sull’occupazione da parte israeliana del territorio che l’ONU, con la risoluzione del 1947, aveva assegnato al popolo palestinese; sulla illegale proclamazione di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, in violazione della stessa risoluzione dell’ONU, secondo cui questa “città santa” anche per cristiani e musulmani avrebbe dovuto rimanere internazionale; sul moltiplicarsi degli insediamenti abusivi di coloni israeliani sulle residue terre rimaste in mano agli antichi abitanti; sulla recentissima scelta del governo di Netaniahu di promuoverne altri e di presentare un progetto in cui lo Stato palestinese non figura affatto.

Per non parlare della gestione interna dello Stato e del trattamento riservato agli arabi. Un esempio clamoroso è stata la costruzione, a partire dalla primavera del 2002, del muro – la «Barriera» – lungo 730 km e alto 8 metri che ha spaccato il territorio, le famiglie (arabe), l’intero tessuto sociale, inglobando tra l’altro nella parte israeliana la quasi totalità dei pozzi d’acqua. In un rapporto dell’Onu del 2005 si legge: «È difficile esagerare l’impatto umanitario della Barriera. Il percorso dentro la Cisgiordania separa comunità, l’accesso delle persone ai servizi, mezzi di sostentamento e servizi religiosi e culturali».

Una democrazia degna di questo nome, come scriveva Fabrini, dovrebbe essere capace di autocritica. E gli Stati democratici che oggi affermano di vedere in quella israeliana l’emblema dei propri valori, avrebbero dovuto già da tempo intervenire decisamente per bloccare le reiterate violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale da pare di Tel Aviv, invece di esserne silenziosamente o esplicitamente complici. Che democrazia stiamo difendendo? 

Gaza, l'Ospedale

Gaza, l’Ospedale

«Danni collaterali» 

Rimuovere i fatti anteriori al 7 ottobre, concentrandosi ossessivamente sulle atrocità commesse dal nemico, ha portato lo Stato ebraico a scatenare una campagna militare che fin dall’inizio implicava il massacro dei civili presenti sul territorio di Gaza. Se si lanciano per settimane e mesi, ogni giorno, bombe di novecento chili su un territorio grande come metà della città di Madrid e dove sono ammassati due milioni e mezzo di esseri umani, non si ha il diritto di definire «involontaria» l’uccisione di 37.000 persone, tra cui 15.000 bambini.

Si è obiettato che questi sono «danni collaterali», inevitabili in una guerra giusta e condotta secondo tutte le regole del diritto internazionale. Ma i danni collaterali devono essere proporzionati. Altrimenti giustificano qualunque azione. Non si possono uccidere migliaia di innocenti per vincere una guerra.

È stato ripetuto per mesi, dal governo ebraico e dai suoi tradizionali alleati occidentali, che «Israele ha il diritto di difendersi». Anche se una difesa che si propone non di bloccare gli attacchi del nemico, ma di aggredirlo per distruggerlo totalmente, assomiglia molto a una vendetta. In ogni caso, c’è modo e modo di difendersi, come c’è modo e modo di vendicarsi. Farlo togliendo elettricità, acqua e cibo a una intera popolazione che – secondo gli stessi israeliani – non è colpevole di quanto è accaduto, ha provocato quello che alla fine, anche gli stessi alleati di Tel Aviv hanno dovuto riconoscere essere un «disastro umanitario».  Senza parlare della deportazione forzata che ha costretto gli abitanti di Gaza a lasciare in tempi brevissimi le loro case, le loro terre, il loro lavoro, per fuggire in campi profughi improvvisati, alla fine rivelatisi anch’essi tutt’altro che sicuri.

Ancora una volta, come nella crisi ucraina, quello che conta sembra essere solo la vittoria. In realtà, anche in questo caso, i fatti stanno dimostrando il fallimento della pretesa di risolvere le questioni con le armi. Israele, che in passato si era illuso di esserci riuscito, sta constatando sulla propria pelle che le sue vittorie militari non avevano portato alla pace, come non porterebbe ad essa quella che da otto mesi sta inseguendo – questa volta vanamente – nell’attuale conflitto.

Milano, Per la Palestina, Ansa

Milano, Per la Palestina, Ansa

Si potrà discutere se quanto sta accadendo a Gaza sia “genocidio” – una definizione secondo alcuni non appropriata –, ma è certo che siamo davanti a crimini di guerra gravissimi, indegni di una democrazia e che rischiano di screditare non solo quella dello Stato ebraico, ma anche tutte le altre che in tutto questo tempo hanno continuato ad additarla come il loro punto di riferimento nel Medio Oriente e a fornirle copertura militare e diplomatica. Non si testimonia l’ideale democratico a forza di bombe e di altre violenze. Se questa macchina da guerra spietata, del tutto simmetrica ed opposta ad Hamas, fosse la democrazia, essa non meriterebbe di essere difesa.

Le guerre in corso ci costringono, dunque, a rimettere in discussione l’idea che ce ne siamo fatti finora. È il momento di lasciarci dietro le spalle i facili slogan che sentiamo ancora continuamente ripetere da politici e opinionisti e di chiederci, seriamente, alla luce dei fatti, che cosa comporta per uno Stato essere democratico. Sarà inquietante, ma ne vale la pena. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024

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Giuseppe Savagnone, dal 1990 al 2019 è stato direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, di cui oggi cura il sito «www.tuttavia.eu, pubblicandovi settimanalmente un editoriale nella rubrica “Chiaroscuri”.  Scrive per quotidiani e periodici e collabora con «Tv2000», «Radio in Blu», «Radio Vaticana» e «Radiospazionoi». Nel 2010 ha ricevuto il premio «Rocco Chinnici» per l’impegno nella lotta contro la mafia. Tra le sue pubblicazioni, Quel che resta dell’uomo. È davvero possibile un nuovo umanesimo?, Cittadella Editrice, Assisi 2015; Il gender spiegato a un marziano, Edizioni Dehoniane,  Bologna 2016; Cercatori di senso. I giovani e la fede in un percorso di libertà, Edizioni Dehoniane, Bologna 2018, Il miracolo e il disincanto. La provvidenza alla prova, Edizioni Dehoniane, Bologna 2021.

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