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La deportazione nella storia e della storia: un excursus tra passato e presente

Deportazione di Quadraro, 17 aprile 1944 (Mausoleo Fosse Ardeatine)

Deportazione di Quadraro, 17 aprile 1944 (Mausoleo Fosse Ardeatine)

di Salvatore Speziale 

1. Deportazione, storia e memoria [1] 

Alla voce “Deportazioni” l’Enciclopedia Treccani unisce la voce “Genocidi” in un contributo di Antonio Ferrara, tratto da un passo della Storia della civiltà europea curata da Umberto Eco. Nel volume dedicato al Novecento si danno diverse definizioni del termine che meritano di essere qui riportate: «pena mediante la quale il condannato viene privato dei diritti civili e politici, allontanato dal luogo del commesso reato o di residenza e relegato in un territorio lontano dalla madrepatria… [e] trasferimento coatto di gruppi di condannati politici o di minoranze civili invise o sospette in campi di lavoro o di concentramento» [2]. Altre definizioni potrebbero essere aggiunte, ma queste due sono già sufficienti per evidenziare come esse includano categorie di persone e situazioni notevolmente diverse: dai condannati per un reato effettivamente commesso a coloro che lo sono semplicemente perché invisi o sospetti. Nel mezzo ci stanno tutti coloro che vengono ingiustamente condannati per un reato non commesso o addirittura per il fatto di essere, di esistere, nudo e crudo: di vivere nel luogo e/o nel momento sbagliato, di essere diversi per “razza”, lingua, confessione, credo politico e orientamento sessuale, di essere diventati minoranze sgradite all’interno di maggioranze diventate ostili anche dopo secoli di convivenza pacifica. Nel mezzo ci stanno tutti coloro che, vivendo nel posto sbagliato al momento sbagliato, si sono trovati e si trovano oggi costretti a mettersi in marcia per fattori globali come la povertà e il cambiamento climatico che quasi sempre si accompagnano a terribili conflitti tra poveri. Queste migrazioni, sebbene non rientrino nella definizione classica di deportazione, condividono con essa la natura forzata dall’esterno e la perdita di autodeterminazione per le popolazioni coinvolte. Le risposte politiche internazionali, spesso incentrate sulla chiusura delle frontiere piuttosto che sull’affrontare le cause strutturali di questi esodi, hanno solo aggravato la crisi umanitaria globale. La violenza dell’azione umana si accompagna dunque alla violenza dell’uomo sul territorio, sugli ecosistemi.

La Storia si è trovata e dunque si trova ancora oggi davanti al difficile compito di aggiornare annualmente l’elenco delle azioni violente degli uomini sugli uomini, di esaminarne i contesti, di comprenderne le cause, di capirne le conseguenze sul breve e sul lungo periodo: eccidi, genocidi, migrazioni forzate, deportazioni, pulizie etniche. Questo perché la Storia guarda e riguarda anche (per fortuna non soltanto) il “lavoro sporco” che l’uomo ha compiuto nel corso dei secoli attraverso l’analisi dei documenti, delle testimonianze. Questo perché la Storia ci riguarda, ci rammenta, ci fa capire anche quello che la memoria a volte dimentica o vuole dimenticare, selezionare, rivedere sulla base dell’esperienza individuale e familiare. Storia e memoria dell’uomo, dei suoi atti, delle sue deportazioni sono dunque strumenti diversi che con fini e modi diversi possono concorrere a farci comprendere come si è agito nel passato, come si è giunti al nostro presente e, per certi versi, cosa si continuerà a fare nel futuro: una memoria collettiva a uso del presente e del futuro.

3Sebbene possa a tanti sembrare pleonastico si ritiene invece necessario ribadire, che le innumerevoli guerre, gli incalcolabili conflitti e gli infiniti antagonismi che gli uomini hanno vissuto, voluto o subìto, nel corso della storia hanno sempre avuto sulle popolazioni coinvolte una qualche ricaduta, diretta, indiretta, immediata o ritardata. Ognuna di quelle contrapposizioni di cui si legge nei libri di storia si è quasi immancabilmente accompagnata non solo e non sempre allo scontro sul campo di battaglia tra eserciti, come spesso viene proposto e a molti potrebbe sembrare, ma anche a saccheggi, stupri, torture, esecuzioni, eccidi e, ovviamente, esodi, migrazioni forzate e deportazioni, segregazioni e stermini, pulizie etniche o religiose [3]. Allo stesso modo ogni pace si è quasi sempre accompagnata a spartizioni di territori prima uniti, all’unione di territori prima divisi e, per diretta conseguenza, a spostamenti forzati di popolazioni in rapporto ai nuovi confini, a nuove coabitazioni e a nuove separazioni che, nel corso del tempo, hanno generato nuovi conflitti in un loop senza soluzione di continuità. Sono, purtroppo, tutte questioni che spesso sono asetticamente citate o addirittura non menzionate, poiché considerate implicite conseguenze della “grande” guerra, della “grande” storia.

Se il peso di questa amara constatazione fosse condiviso da molti e non da pochi, verrebbe da pensare a cosa (e se) potrebbe servire un excursus tanto “banale” quanto è banale il male [4], sulle deportazioni e migrazioni forzate di popolazioni da un momento della storia ad un altro. Verrebbe da pensare che l’umanità stessa, di fronte ai fatti compiuti, sia ancora in grado di comprendere la valenza dei suoi atti passati, presenti e futuri, di riconoscerne il “fardello”, di comprenderne la portata, le conseguenze, il rischio per i domani. Ma se il peso di questa amara constatazione fosse condivisa da pochi e non da molti, verrebbe da pensare allora a cosa (e se) potrebbe servire l’ennesima denuncia nel caso questa sia in grado soltanto di toccare le coscienze di pochi, dell’ennesima minoranza che rischia l’isolamento, che rischia le accuse “infamanti” di buonismo e di pacifismo.

Nella speranza che così non sia, mi sia dunque consentito un sorvolo storico scritto “tra storia e memoria”, un viaggio a ritroso nel tempo dall’alba dell’età moderna all’età contemporanea e da questa all’attualità più stringente, passando in veloce rassegna quanto è molto noto e offrendo uno sguardo in più a quanto è meno noto, senza alcuna intenzione di “pesare” l’uno rispetto all’altro, senza alcun intento di creare “graduatorie” delle tragedie umane, senza alcuna ambizione di essere esaustivo. Nella speranza che la sfilata macabra dei corpi svuotati della personalità giuridica e della sacralità umana, e deportati da un luogo all’altro della terra per i fini più diversi, possa servire a riesaminare senza minimamente giustificare tanti perché del passato; possa servire a riumanizzare la coscienza individuale e collettiva di fronte alle tragedie alle quali si assiste nel presente; possa servire a riattivare quei meccanismi di empatia propri all’essere umano utili ad affrontare “umanamente” il destino di sé stesso e del suo prossimo. 

97888339396053.L’età moderna delle deportazioni: razza e religione in Europa, Africa e America 

Una deportazione tira l’altra. In Occidente, per molti, anche se non per tutti, la cosiddetta età moderna si dischiude con quell’anno ricordato a memoria, il 1492, connesso all’evento della “scoperta” dell’America da parte di Cristoforo Colombo per la corona di Spagna. Quasi nessuno, però, ricorda che il 1492 è lo stesso anno in cui si chiude drasticamente la secolare compresenza cristiana, ebraica e musulmana di Spagna con la “cacciata” di tutti coloro che non rientravano nei canoni della “Limpieza de sangre”: ebrei, e musulmani ivi compresi gli ebrei convertiti (conversos) e i musulmani convertiti (moriscos). Dopo la Reconquista solo i cattolici di vecchia data ebbero diritto di restare a vivere in quelle terre anche a costo di rinunciare a un patrimonio culturale ed economico invidiabile [5]. Tutti gli espulsi dovettero cercare immediato rifugio e lo trovarono soprattutto nel Mediterraneo musulmano in qualità di protetti o dhimmi. Con l’inizio della storia moderna, iniziò dunque il primo esodo forzato, deportazione se si vuole, per motivi religiosi della storia moderna.

Ma proprio il 1492 segnò, con la scoperta geografica di nuove terre e di nuovi uomini, l’avvio di una delle più estensive e intensive campagne di sottomissione, deportazione e segregazione, annientamento fisico, culturale e psicologico, della storia dell’umanità: quella degli abitanti originari delle terre conquistate. Popoli cui venne imposta la deportazione e la segregazione ai fini dello sfruttamento delle risorse, cui venne imposta pure l’erronea denominazione di “indiani” poi parzialmente corretto in “indiani d’America” dal nome di chi si rese conto dell’abbaglio della prima ora. Secondo le difficili e discordanti stime messe in campo dagli storici, dall’80% al 95% della popolazione indigena venne sterminato: dai 50 ai 100 milioni di persone [6].

Ma lo “svuotamento” demografico del suolo americano perpetrato sia con mezzi bellici sia con “armi biologiche” (vaiolo, varicella, morbillo, influenza) dai conquistatori e colonizzatori, comportò ben presto la necessità di effettuare un periodico “riempimento” di mano d’opera necessaria per le attività vitali e proficue delle colonie spagnole, portoghesi, inglesi e francesi. Una nuova deportazione di massa ebbe dunque inizio sotto il nome di tratta transatlantica degli schiavi e si protrasse dal XVI secolo al XIX secolo [7]. Le stime degli storici variano da un minimo di 7 milioni a un massimo di 15 milioni di uomini deportati e schiavizzati. Una eredità pesante cui contribuirono diverse potenze europee, in qualità di traghettatori oltreoceano, nonché diversi regni africani, come collettori di schiavi, tutti diversamente impegnati in contemporanea anche nella cosiddetta tratta o deportazione transahariana (il Regno del Benin, del Dahomey e del Congo, l’impero Oyo e Ashanti) [8]. 

9788858100530_0_350_0_75Le deportazioni e le religioni: l’Europa tra Cinquecento e Seicento. Tornando al Vecchio mondo, i conflitti interni che scaturirono dal Cinquecento in poi per ragioni dinastiche, religiose e territoriali offrono numerosi spunti per uno spaccato sulle deportazioni o esodi forzati noti o meno noti. Le guerre di religione in Europa causarono infatti numerosi casi di deportazione, esodo o migrazione incentivata o forzata, insieme a segregazioni o relegazioni. Un caso meno noto è di certo quello dell’istituzione delle quattro “places de sûreté” destinate ai soli protestanti secondo l’Editto di Saint-Germain del 1570. A fine Cinquecento vennero aumentate progressivamente con gli Editti di Beaulieu (1576), di Poitiers (1577), il Trattato di Nérac (1579) e con l’Editto di Nantes (1598) per poi sempre più essere ridotte a inizi Seicento, fino all’Editto di Grazia di Alès del 1629 quando i protestanti francesi persero tutti i luoghi sicuri ove risiedere [9].

La contemporanea Guerra dei Trent’anni (1618-1648), uno dei conflitti più devastanti della storia europea, causato dalle lotte tra cattolici e protestanti che stavano spaccando l’Europa, produsse non solo massacri e carestie, ma anche massicci trasferimenti forzati di popolazione. Durante la guerra, intere comunità furono infatti costrette ad abbandonare le loro terre a causa delle persecuzioni religiose e delle devastazioni causate dagli eserciti mercenari. La fine della guerra sancì nuovi equilibri politici e religiosi in Europa, ma portò anche alla ridefinizione di confini e alla conseguente deportazione o migrazione forzata di intere popolazioni [10].

Il principio del Cuius regio, eius religio, già introdotto con la Pace di Augusta del 1555 venne riaffermato dalla pace di Vestfalia del 1648. Esso stabiliva che i sudditi di un dato territorio dovessero adottare la religione del loro sovrano. Ciò comportò l’espulsione o la migrazione forzata di molte comunità religiose: i cattolici furono costretti ad abbandonare le regioni a guida protestante, mentre i protestanti dovettero lasciare le zone a guida cattolica. In alcuni casi, la conversione forzata rimase l’unica alternativa alla deportazione. Il conflitto segnò uno dei primi esempi di deportazione su base confessionale su vasta scala nella storia europea e contribuì a creare nuovi equilibri demografici e a intensificare la frammentazione religiosa dell’Europa [11]. 

Le deportazioni e le razze: gli indiani d’America nell’Ottocento. Passando all’America settentrionale, dopo lunghe fasi di ostilità tra i coloni europei che avanzavano progressivamente verso ovest e le popolazioni originarie, si escogitò come soluzione finale la deportazione forzata di quelle popolazioni dalle loro terre ancestrali nelle cosiddette “riserve”, aree distanti sia in termini di chilometri che in termini climatici e ambientali. Il caso più emblematico è il cosiddetto “Cammino delle Lacrime” (1830-1850): migliaia di nativi americani appartenenti alle cinque tribù dei Cherokee, Creek, Seminole, Chickasaw e Choctaw furono costretti a lasciare le loro terre nel sud-est degli Stati Uniti per essere ricollocati in territori assegnati a ovest del fiume Mississippi [12].

Il governo statunitense, attraverso l’Indian Removal Act del 1830, giustificò queste deportazioni come una necessità per favorire l’espansione dei coloni bianchi. Tuttavia, le marce forzate verso le riserve, effettuate in condizioni estreme, portarono alla morte di migliaia di nativi a causa di fame, malattie e violenze. Le deportazioni ridussero drasticamente la presenza indigena nelle loro terre d’origine e segnarono un punto di svolta nella politica statunitense di assimilazione e confinamento delle popolazioni native. Le riserve divennero luoghi di isolamento e privazione, spesso con scarse risorse naturali e limitate opportunità economiche [13]. Ancora oggi, le conseguenze di queste deportazioni si riflettono nelle difficoltà sociali ed economiche delle comunità indigene degli Stati Uniti, molte delle quali continuano a lottare per il riconoscimento dei loro diritti e per la restituzione delle terre storicamente sottratte. 

97888581202934.Il Novecento: secolo delle deportazioni 

Intorno alla Prima guerra mondiale. Il Novecento è, senza dubbio, il secolo in cui le deportazioni hanno avuto una frequenza e una dimensione mai vista prima nella storia. In quel secolo lo spostamento forzato di popolazioni divenne una pratica diffusa, spesso giustificata da ragioni militari o di sicurezza nazionale.

Durante la Prima guerra mondiale, in Europa orientale, ad esempio, l’Impero Russo prima, e l’Unione Sovietica poi, minacciò e in alcuni casi effettuò deportazioni di massa: contro i tedeschi del Volga nel 1915, risparmiati però dalla Rivoluzione russa [14], contro polacchi e contro i musulmani tatari di Crimea dal 1917 in poi [15]. Sospettati di essere potenziali simpatizzanti degli Imperi Centrali o della Germania nazista, decine di migliaia di tatari furono costretti a spostarsi verso l’interno dell’Impero in condizioni di grande sofferenza. Nell’Europa occidentale, invece, l’occupazione tedesca del Belgio e della Francia settentrionale portò alla deportazione di lavoratori forzati nei campi di lavoro in Germania, contribuendo a una sistematica violazione dei diritti umani durante il conflitto.

Il caso più noto del tempo è però quello relativo alla deportazione e al genocidio degli armeni perpetrato dall’Impero ottomano. Le persecuzioni di vario genere e di grande brutalità erano già iniziate alla fine dell’Ottocento: una data simbolica dell’avvio della repressione è quella dell’assalto alla Banca ottomana di Costantinopoli, il 26 agosto 1896 da parte di uomini appartenenti alla Federazione rivoluzionaria armena. Seguirono un ventennio di vessazioni, violenze individuali e collettive, imprigionamenti, uccisioni e distruzione di villaggi fino alla fase principale del genocidio che ebbe luogo negli anni 1915-1916. Fu uno degli esempi più noti di deportazione forzata su base etnica attuata in base a un piano sistematico. Centinaia di migliaia di armeni furono costretti a marciare dai luoghi originari dell’Anatolia verso il deserto siriano senza cibo né acqua, accusando un numero altissimo di morti. Le deportazioni furono accompagnate da massacri e stupri e avvennero in condizioni inumane che portarono a un drastico declino di quella popolazione. Le motivazioni dietro questa deportazione includevano sospetti di collusione con le forze russe e la politica di omogeneizzazione etnica dello Stato ottomano su base turca. Le testimonianze di diplomatici stranieri e di sopravvissuti hanno contribuito a consolidare il riconoscimento di questi eventi come genocidio da parte di numerosi Stati e organizzazioni internazionali, sebbene la Turchia continui a negare ufficialmente tale accusa [16].

Oltre agli armeni, l’Impero Ottomano deportò anche le comunità greche e assire, con l’obiettivo di eliminare gruppi etnici considerati una minaccia per la coesione dello Stato. Gli assiri vennero perseguitati e costretti a migrare tra il 1914 e il 1924 [17]. I greci del Ponto furono costretti a marce forzate verso insediamenti lontani dalle loro terre d’origine, subendo persecuzioni e massacri simili a quelli armeni tra il 1914 e il 1923. Non va dimenticato però che già dalle guerre balcaniche del 1912-1913, che avevano sancito la liberazione della gran parte della penisola dall’Impero ottomano, la Grecia, la Serbia, il Montenegro, la Bulgaria e l’Albania si erano scontrati a lungo al fine di espellere o di assimilare tutti i civili stranieri dal territorio che avevano occupato. Nel 1913 un trattato disciplinò lo spostamento di decine di migliaia di musulmani della Tracia bulgara verso l’Impero ottomano in cambio di altrettanti bulgari della Tracia ottomana [18]. Un altro scambio di popolazioni venne ratificato dalla Pace di Losanna alla fine della guerra greco-turca del 1919-1922: oltre un milione di ortodossi dell’Anatolia vennero espulsi in cambio di circa 350 mila musulmani da secoli residenti in Grecia. L’obiettivo fu sempre quello di rendere il più possibili omogenei gli Stati nazionali derivati dalla frammentazione della grande realtà sovranazionale dell’Impero ottomano. 

product_pagesL’esportazione delle deportazioni nelle colonie: tra Africa e Asia. Dopo aver costretto alla coabitazione popoli diversi e diviso popoli una volta uniti in base a criteri meramente territoriali, economici e commerciali tra Ottocento e Novecento, le potenze europee ricorsero frequentemente a deportazioni di massa come strumento di controllo territoriale e repressione politica in aree coloniali. In Africa, l’amministrazione coloniale tedesca della Namibia (all’epoca Africa Tedesca del Sud-Ovest) attuò una brutale deportazione delle popolazioni Herero e Nama tra il 1904 e il 1908 che culminò in uno dei primi genocidi del XX secolo. Dopo aver represso una ribellione indigena nel 1904, i tedeschi costrinsero gli Herero e i Nama a fuggire nel deserto del Kalahari, impedendo loro di accedere a fonti d’acqua e condannandoli alla morte per sete e fame. Molti dei sopravvissuti furono poi deportati in campi di concentramento dove furono sottoposti a lavori forzati e perfino a sperimentazioni mediche [19].

In Asia, l’Impero britannico praticò la deportazione su larga scala per reprimere movimenti di resistenza e per meglio sfruttare la manodopera indigena. Un esempio significativo fu la deportazione forzata di migliaia di indiani nel corso dell’Ottocento verso altre colonie come le Mauritius, le Fiji e i Caraibi, dove furono costretti a lavorare nelle piantagioni in condizioni di semi-schiavitù. Il sistema della “girmitiya” o “jahajis” impose contratti di lavoro coercitivi che portarono alla separazione forzata di famiglie e alla perdita delle radici culturali delle comunità deportate [20].

L’Impero francese usò la deportazione anche come mezzo di punizione politica. Durante la resistenza al dominio coloniale in Algeria, alcune migliaia di “ribelli” furono deportate in Nuova Caledonia tra 1863 e 1931, al tempo una colonia penale nell’Oceano Pacifico [21]. Similmente, la Francia utilizzò dal 1852 al 1953 l’Isola del Diavolo, al largo della Guyana francese, per imprigionare decine di migliaia dissidenti politici e oppositori al regime coloniale.

Anche l’Italia coloniale si rese colpevole di deportazioni di massa durante il colonialismo. Il caso più noto e storicamente accertato fu quello della deportazione di circa 100.000 persone dal Jebel al-Akhdar, la Montagna verde, della Cirenaica nei campi di concentramento della Sirte e del Sud Bengasino (tra cui Marsa Brega, Soluch, Sidi Ahmed el-Magrun, el-Agheila, Agedabia, el-Abiat) per “fare spazio” ai coloni provenienti dall’Italia. La deportazione verso una delle zone meno ospitali del pianeta, fino a oltre 1000 km a ovest dai luoghi di origine, avvenne tra il 1930 e il 1931 e costò circa 40.000 morti nonché la perdita di beni e bestiame causando l’impoverimento drastico dei superstiti [22].

In terra australiana, una particolare e articolata forma di deportazione iniziò nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale e proseguì per alcuni decenni dopo la sua conclusione. Dietro la giustificazione di voler favorire l’“assimilazione” degli aborigeni australiani ai nuovi cittadini australiani, era già stata avviata fin dal 1869 una progressiva segregazione della popolazione indigena adulta comprendente la separazione di uomini e donne e l’allontanamento dei bambini a fini educativi. All’interno di questo lungo periodo si effettuò un programma intensivo e strutturato che venne denunciato sotto il titolo di “The stolen generations” dal 1931 al 1960 durante il quale migliaia di bambini vennero sottratti alle rispettive famiglie. Pratiche di questo genere vennero dismesse definitivamente solo nel 1969 [23].

Le spartizioni, riunificazioni e deportazioni coloniali hanno lasciato profonde cicatrici nelle società africane, asiatiche, americane e oceaniche contribuendo a traumi storici praticamente inguaribili, alla frammentazione delle comunità indigene e alle belligeranze intertribali senza soluzione di continuità in epoche post-coloniali. Ancora oggi, molte delle popolazioni discendenti dai deportati continuano a lottare per il riconoscimento delle ingiustizie subite e per ottenere risarcimenti da parte delle ex-potenze coloniali [24]. 

978-0-387-29904-4Le deportazioni in Europa a cavallo della Seconda guerra mondiale. Prima dello scoppio del conflitto mondiale, il regime comunista staliniano, nell’intento di eliminare alla radice ogni forma di resistenza e di dissenso, deportò oltre 2 milioni di contadini ex proprietari (kulaki) verso le aree meno ospitali dell’Unione sovietica tra il 1930 e il 1931 con la conseguente morte di circa 600.000 di essi [25]. Simile sorte toccò nel 1937 a circa 172.000 coreani che dell’Estremo Oriente del Paese vennero completamente trasferiti nell’area kazaka e uzbeka dell’Asia centrale onde evitare infiltrazioni del Giappone o alleanze possibili [26].

La Seconda guerra mondiale comportò lo spostamento di oltre 30 milioni di persone di tutte le nazionalità per via dei fronti di guerra, delle deportazioni imposte e delle migrazioni volontarie e dei nuovi assetti e nuove frontiere che si andarono man mano a delineare nei vari continenti.

Un posto a parte va riservato alla Germania nazista che orchestrò la più grande e sistematica deportazione della storia. Gli ebrei, insieme ad altre minoranze come rom, slavi, dissidenti politici e omosessuali, vennero rastrellati da tutti i territori occupati e trasferiti forzatamente nei ghetti per poi essere deportati nei campi di concentramento come Buchenwald, Dachau e Mauthausen e nei campi di sterminio come Auschwitz e Treblinka. Questa politica, nota come “Soluzione Finale”, aveva lo scopo di eliminare interamente la popolazione ebraica d’Europa. Le deportazioni furono facilitate da un’accurata burocrazia statale e dal supporto di infrastrutture ferroviarie. L’efficiente sistema logistico nazista permise lo sterminio sistematico di milioni di persone in un lasso di tempo molto ridotto. Le implicazioni di questa sistematica deportazione e di questo terribile sterminio furono enormi: alla fine della guerra, sei milioni di ebrei erano stati annientati, lasciando un vuoto umano, culturale e sociale irreparabile. Il processo di Norimberga (1945-1946) contribuì a rendere giustizia ai responsabili, stabilendo il concetto di crimini contro l’umanità nel diritto internazionale [27].

Sempre a ridosso della Seconda guerra mondiale si deve annoverare l’esodo forzato della popolazione giuliano dalmata o istriana che ebbe luogo dal 1943 al 1956. Come è noto, esso coinvolse gli abitanti di nazionalità italiana della Venezia Giulia (Friuli Orientale, Istria e Quarnaro) e della Dalmazia, territori che erano stati ceduti dall’Italia alla Jugoslavia di Josip Broz Tito a seguito del Trattato di Parigi del 1951. Le stime parlano di 250.000-350.000 persone costrette a fuggire verso l’Italia. Tale esodo fu però costellato da eccidi di civili e militari passati alla storia come i “massacri delle foibe” [28].

Un’altra tragica deportazione avvenuta in contemporanea è quella che colpì i popoli di alcuni territori caucasici (Georgia e Cabardino-Balcaria) che erano stati invasi da Hitler nel 1943 e riconquistati dall’Armata Rossa nel 1944. Stalin pianificò la deportazione in massa con l’utilizzo di treni merci delle popolazioni caucasiche accusate ingiustamente di collaborazionismo con i tedeschi a partire dall’Operazione Lenticchia del 23 febbraio 1944 [29]. Quasi un milione di persone fu trasferito in Siberia, negli Urali e nel Kazakistan dal Caucaso settentrionale (ceceni, ingusci, caraciai e balcari musulmani e calmucchi buddisti) e dalla Transcaucasia (musulmani curdi e meschi e i tartari di Crimea). I decessi si contarono a centinaia di migliaia [30].  

Altre deportazioni vennero disposte a fine conflitto dai vincitori: dalla Repubblica Ceca vennero espulsi oltre due milioni di sudeti accusati di tradimento durante l’occupazione nazista. Dalla nuova Polonia, invece, vennero espulsi gli abitanti tedeschi. Uno scambio tra polacchi e ucraini venne inoltre effettuato nei territori di confine tra i due Paesi. 

eventi-12Esodi e deportazioni del Secondo dopoguerra. Esodi forzati e deportazioni continuarono ad essere fenomeni onnipresenti anche negli anni a seguire la fine della Seconda guerra mondiale. La storiografia ha messo in luce gli effetti disastrosi del “Grande balzo in avanti” inaugurato da Mao Zedong nel 1958 e interrotto nel 1961 e durante il quale milioni di persone vennero spostate ai fini della produzione agricola ed industriale. Altrettanto noti sono ormai anche gli effetti disastrosi della massiccia deportazione della popolazione cambogiana dalle aree urbane a quelle rurali imposta dai Khmer rossi guidati da Pol Pot dopo la presa di potere nel 1975. Il tentativo di emulare il “Grande balzo” della Cina costò la morte di circa un quarto della popolazione stessa [31].

Negli stessi anni, le guerre arabo-israeliane dal 1948 in poi e le tensioni pressoché continue tra palestinesi ed israeliani, comportarono ingenti fuoriuscite di profughi verso la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e i Paesi confinanti (Giordania, Egitto, Siria, Libano e Iraq). Il loro numero passò dai circa 900.000 del 1950 a circa 5.800.000 del 2021. La creazione dei campi profughi, inizialmente pensata come temporanea e in seguito manifestatasi di lunghissima durata, ha complicato ulteriormente il quadro politico internazionale dell’intera area fino ai nostri giorni [32]

Gli anni Novanta segnarono una inquietante recrudescenza del fenomeno delle deportazioni in vari contesti. In quegli anni, il popolo Rohingya in Myanmar è stato vittima di espulsioni di massa e violenze sistematiche da parte delle autorità locali, costringendo centinaia di migliaia di persone a rifugiarsi in Bangladesh e India [33]. Le persecuzioni nei confronti dei Rohingya sono state caratterizzate da attacchi mirati contro villaggi, incendi dolosi, violenze sessuali e uccisioni extragiudiziali. Le Nazioni Unite hanno definito la crisi Rohingya un esempio di pulizia etnica e possibile genocidio. La comunità internazionale ha tentato di rispondere attraverso sanzioni e pressioni diplomatiche, ma la situazione è rimasta tuttora irrisolta con centinaia di migliaia di persone ancora in campi profughi senza alcuna prospettiva di rimpatrio sicuro [34].

Sempre negli anni Novanta, l’aspro contrasto tra nazionalismi nei neonati Stati della ex-Jugoslavia causò una serie di guerre che comportarono efferati eccidi nonché imponenti spostamenti forzati di popolazioni tra il 1991 e il 2001. Il progetto di creare la “Grande Serbia” spinse alla conquista di territori della Croazia e della Bosnia e si accompagnò al tentativo di eliminare le popolazioni non serbe nelle terre conquistate. A loro volta i croati attuarono azioni di pulizia etnica nei confronti dei serbi della Slavonia riconquistata nel 1995. Dinamiche simili si registrarono nei confronti degli albanesi del Kosovo da parte dei serbi nel 1999 e, in seguito, da parte degli albanesi nei confronti dei serbi. Le Guerre jugoslave comportarono scarsi cambiamenti territoriali insieme alla morte di 300.000 persone e lo spostamento di circa 4 milioni di profughi [35].

La tormentata storia delle rivalità tra le etnie hutu e tutsi, entrambe cristiane, che dal 1959 raggiunse i primi anni 2000, segnò l’apice con il cosiddetto Genocidio del Ruanda del 1994 durante il quale gli hutu massacrarono circa 800.000 tutsi. A seguito di quei fatti un rovesciamento di potere costrinse alla fuga un milione circa di hutu principalmente nello Zaire (in seguito denominato Repubblica Democratica del Congo). La destabilizzazione all’area dovuta alla massiccia migrazione forzata fu alla base delle due guerre del Congo del 1996-1997 e del 1998-2003 e della guerra civile del Burundi del 1993-2005 [36]. 

97806911923455. Il nuovo secolo delle deportazioni 

La moltiplicazione dei fronti. Questa breve e superficiale rassegna delle deportazioni e migrazioni forzate non si esaurisce purtroppo nel secolo scorso ma continua e si complica nel corso di questo primo quarto di secolo. Infatti, stanno avendo luogo una serie di migrazioni forzate per motivi che sulla carta risultano politici o religiosi o economici in varie parti del globo. Le guerre civili come in Sudan e Sud-Sudan, in Yemen, in Somalia, in Mali, in Etiopia, in Nigeria e in Messico, le occupazioni di territori da parte di eserciti occidentali come in Iraq e in Afganistan, gli sconvolgimenti legati alle Primavere arabe in vari Paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente, come nel caso della Libia, la destabilizzazione di intere aree da parte di movimenti radicali, come il Daesh o Isis in Iraq e Siria, il ritiro degli eserciti occidentali dall’Iraq e dall’Afganistan con conseguente ritorno dei Talebani al potere; la vittoria della coalizione islamica radicale Hay’at Tahrir al-Sham (Hts) in Siria; il conflitto tra palestinesi e israeliani insieme ad altri conflitti a bassa o alta intensità in varie parti del mondo sono tutte cause di spostamenti forzati di gruppi e popolazioni che investono soprattutto i continenti africano, asiatico ed europeo. Se non sempre sono definibili come deportazioni imposte e organizzate sistematicamente, sono certamente definibili come migrazioni forzate, uniche scelte possibili di fronte a scenari che rendono la vita impossibile: il discrimine spesso è minimo.

A questi flussi principalmente legati a fattori bellici interni e internazionali vanno aggiunti tutti quelli causati dai cambiamenti climatici che implicano la progressiva desertificazione (in certi casi sommersione) di sempre più ampi territori cui si aggiunge l’invivibilità per inquinamento atmosferico e ambientale autoprodotto o introdotto [37]. Siria, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Burkina Faso, Ciad, Niger, Repubblica Sudafricana, Sud Sudan, Nigeria, Sudan, Afghanistan, Bangladesh e Myanmar, Haiti sono tra i Paesi maggiormente toccati. Le analisi degli osservatori internazionali hanno da lungo tempo sottolineato come ci sia una coincidenza evidente tra povertà e conflitti e conseguente migrazione. Se proprio non sono tutte deportazioni eseguite in punta di leggi emanate da Stati, de iure, per quanto opinabili, possono essere annoverate tra le deportazioni de facto, contro le quali le istituzioni di Stati nazionali continuano ad ergere muri legislativi o di calcestruzzo e filo spinato e a programmare rimpatri forzati o delocalizzazioni temporanee o definitive in Paesi stranieri o creazione di centri di raccolta, spesso veri e propri lager, in Paesi stranieri. 

In questo panorama di “Terza guerra mondiale a pezzi” secondo l’espressione coniata da Papa Francesco nel 2014, che coinvolge 56 Paesi secondo il Global Peace Index del 2024 [38], l’attenzione mediatica è quasi del tutto assorbita da due conflitti ad alta intensità recenti o recentemente acuiti attorno all’area mediterranea ed europea e che implicano anch’essi spostamenti forzati di popolazioni. 

I conflitti “più vicini”. La guerra in Ucraina, iniziata nel febbraio 2022, ha visto episodi di deportazione forzata della popolazione, con accuse rivolte alla Russia di trasferire illegalmente civili ucraini, inclusi bambini, nei territori sotto il suo controllo. Secondo rapporti internazionali, migliaia di cittadini ucraini sono state deportate contro la loro volontà in territori controllati dalla Russia. La Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto nei confronti di leader russi, accusandoli di crimini di guerra legati alla deportazione illegale di bambini [39].

Sullo sfondo delle vicende russo-ucraine si stagliano gli accadimenti terribili del 7 ottobre 2023 con l’uccisione di circa 1200 civili e militari israeliani e il rapimento di altre 250 persone. La reazione di Israele, tesa a smantellare la rete di Hamas nella striscia di Gaza, ha portato alla morte di 42.000-64.000 persone [40], allo spostamento forzato di centinaia di migliaia di palestinesi da varie parti della Striscia di Gaza in diverse fasi e alla distruzione di intere aree [41]. Dal 19 gennaio 2025 è entrato in vigore l’accordo tra Israele e Hamas che ha consentito il rilascio di una parte degli ostaggi in cambio del rilascio di alcune centinaia di detenuti palestinesi dalle carceri israeliane.

In questo frangente così delicato, il 4 febbraio 2025, durante la conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è giunto l’annuncio del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di una soluzione americana per la striscia di Gaza che contemplerebbe la deportazione in Egitto e Giordania di tutta la popolazione palestinese, il controllo americano sul territorio e la ricostruzione sotto forma di nuova Riviera del Medio Oriente [42], una soluzione rimodulata ma ribadita il 10 febbraio 2025 [43] che ha suscitato una vasta gamma di reazioni a livello internazionale e i cui effetti sono ancora da valutare. 

Fuga dei palestinesi (da il Manifesto)

Fuga dei palestinesi (da il Manifesto)

6.Gli uomini sugli uomini: la deportazione della storia e della memoria 

Fin qui, dunque, si è provato a redigere una rassegna tanto lunga quanto incompleta delle deportazioni e delle migrazioni forzate dalla storia moderna all’attualità, una rassegna che si è sforzata di essere il più possibile distante dalla materia umana che trattava, e il più possibile equidistante rispetto alle forze in campo, agendo nei limiti che uno storico può e deve avere nei confronti dell’agire umano nei casi più divisivi e drammatici.

Si è partiti dall’alba dell’età moderna che ha preso l’avvio da una catena di deportazioni e importazioni che hanno stravolto per sempre l’articolazione e la ricchezza etnica, linguistica, religiosa e demografica del continente americano e dell’Africa e il suo rapporto uomo-ambiente. Si è passati, dunque, alle deportazioni motivate da questioni religiose che hanno colpito l’Europa tra Cinquecento e Seicento segnando per secoli la geografia umana del continente. Si è sorvolato, poi, sulle spartizioni, unioni e deportazioni compiute durante i secoli successivi nei territori coloniali d’Africa e d’Asia che hanno segnato il passato e il presente dell’intero continente, attraversato fino ad oggi da conflittualità di natura etnica e religiosa complicate da questioni legate alle troppo scarse o troppo ingenti risorse e ai mutamenti climatici. Si è posta, successivamente, attenzione alle terribili guerre mondiali del Novecento che hanno inaugurato un’era di trasferimenti di massa e di genocidi motivati principalmente da requisiti nazionalisti e da ideologie totalitarie. Si è visto, pertanto, come dai genocidi del Novecento alle crisi umanitarie contemporanee, il trasferimento forzato di popolazioni ha generato traumi collettivi e mutamenti geopolitici profondi, indelebili. Si è aggiunto che, oggi come ieri, tranne alcuni casi più definiti e macroscopici è difficile scindere nettamente tra deportazioni e migrazioni forzate. Queste ultime, essendo legate ai conflitti interni e internazionali, alla povertà e alla crisi climatica e ambientale spesso prodotta dall’uomo, non hanno costituito altro che una forma di deportazione indiretta, spesso alimentata da politiche di esclusione e discriminazione, che ha inciso sul presente e inciderà sul futuro del pianeta. Si evince, inoltre, che attraverso tempi diversi, spazi diversi e quindi contesti diversi esiste però una inquietante linea di continuità e di trasversalità del fenomeno.

Si può sostenere, purtroppo, che quella delle deportazioni è una pratica frequentemente utilizzata dall’uomo: una costante della storia di ogni età e di ogni latitudine. Si può, inoltre, aggiungere che l’Occidente e l’Europa posseggono un primato e la prerogativa dell’esportazione di questa pratica. Si comprende anche che le motivazioni possono essere raggruppate in alcuni ordini spesso intrecciati tra loro: differenze religiose (cristiani cattolici e protestanti-musulmani-ebrei-animisti…), contrapposizioni razziali (bianchi e neri e pellirosse, ariani…), posizioni nazionalistiche (tentativo di rendere omogenea una nazione eliminando o assimilando le minoranze), questioni di sicurezza (spostamento di popolazioni ritenute infedeli o inaffidabili dalle zone di confine con nazioni ostili), questioni economiche (piani economici ambiziosi imposti a intere popolazioni), velleità totalitaristiche (controllo totale di uomini sugli altri uomini, progetti di sterminio). Ne deriva che le giustificazioni che si sono date nel corso del tempo sono state anche varie e spesso interconnesse: evangelizzazione dei selvaggi d’America, civilizzazione delle popolazioni inferiori, difesa dei valori identitari di uno Stato-nazione, difesa dalle minacce interne di un Paese, repressione politica di dissidenti, controllo assoluto di un territorio, un popolo, una minoranza, politiche imperialiste. Ne consegue che esiti simili si ripresentano in contesti diversi in un crescendo consueto: controllo poliziesco, repressione del dissenso, riduzione delle libertà individuali, ghettizzazione, deportazione, migrazione forzata, eliminazione fisica: sofferenze fisiche e psicologiche fino alla fuga, la deportazione e/o la morte individuale o collettiva.

Giunto a questo punto, ritorna più forte che mai la domanda posta all’inizio di questo contributo alla riflessione, una domanda che per molti versi esula dal compito dello storico per rientrare in quello dell’osservatore: a che cosa può servire rispolverare il passato e il presente di queste tormentate vicende? Solo a una ricostruzione del passato lungo linee sincroniche o diacroniche, tematiche o contestuali? Oppure, proprio alla luce di quanto detto, quella linea senza soluzione di continuità dal passato al presente e dal presente agli scenari che si intravedono già oggi nel prossimo futuro, piuttosto che portare ad una rassegnata visione della natura umana e delle sue aberrazioni deve spingere verso ulteriori riflessioni e nuovi posizionamenti?

La deportazione di migranti dagli Stati Uniti alle loro terre di partenza come Bolivia, Messico e India; la creazione di luoghi di raccolta per migranti extraterritoriali, come quelli progettati dal Regno Unito in Rwanda [44], dall’Italia in Albania, dagli Stati Uniti a Guantanamo; gli accordi di contenimento dell’emigrazione forzata in Tunisia, in Libia, in Turchia, in Grecia e in altri Stati senza il necessario controllo della tutela dei diritti umani; le deportazioni russe dall’Ucraina; il recentissimo progetto di deportazione dei palestinesi di Gaza in Egitto e Giordania; la moltiplicazione dei muri in tutti i continenti [45]; l’inasprimento dell’agone politico intorno ai temi delle migrazioni, dell’accoglienza, dell’aiuto agli Stati extraeuropei, sono tutti aspetti che meriterebbero una nuova riflessione globale in punta di diritto nazionale e internazionale, in vista di un posizionamento etico e di un distinguo morale.

È assodato, e tale dovrebbe restare, il fatto che le deportazioni di massa violano numerosi trattati internazionali, inclusa la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di Genocidio del 1948 e la Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra del 1949. Nonostante però l’esistenza di organismi come l’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU nato del 1993 e la Corte Penale Internazionale istituita nel 2002, e sebbene il diritto internazionale abbia sviluppato strumenti per prevenire e punire tali crimini, il perseguimento dei responsabili rimane spesso difficile a causa della preminenza data alla sovranità nazionale, alla mancanza di effettiva cooperazione degli Stati colpevoli e degli Stati “vicini” e alla mancata partecipazione di Stati largamente coinvolti.

È assodato, e tale dovrebbe restare, che dal punto di vista etico le deportazioni e le migrazioni forzate rappresentano una delle massime forme di violazione dei diritti umani, eliminando intere comunità e privandole della loro identità culturale e storica, strappandole alla propria terra, alle proprie origini. Per prevenire il ripetersi di simili tragedie, è essenziale dunque non solo rafforzare la memoria e la storia, ma anche promuovere la giustizia sociale e sviluppare politiche globali che affrontino le cause profonde degli spostamenti forzati nonché politiche di intervento internazionale che fungano da deterrente nei confronti di chi si macchia di crimini contro l’umanità.

È assodato, purtroppo, e tale non dovrebbe restare, che uomini continuano pericolosamente a provocare nuove deportazioni ed emigrazioni forzate, o a gestire quelle già avviate da tempo. Da altrettanto tempo, essi tentano con tutti i mezzi di deportare la storia e la memoria, banalizzandole, reinventandole, piegandole a una visione selettiva, parziale e strumentale. Parallelamente, cercano di confinare in una prigione lontana, deprivata di senso di utilità e di necessità, l’analisi e la denuncia delle radici profonde e delle cause remote delle lacerazioni collettive di cui essi stessi si sono resi protagonisti, uomini contro uomini, riducendo così la possibilità e l’intenzionalità di comprendere veramente, criticare con lucidità e agire con consapevolezza. Con la deportazione della storia e della memoria si vuole andare ben oltre il tentativo di assolvere gli uomini di fronte al tribunale dell’umanità, ma si intende addirittura anestetizzare le coscienze, annullare l’accusa stessa e cancellare ogni processo di verità e giustizia. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note
[1] Nessun approfondimento bibliografico è previsto in questo veloce excursus ma solo sintetici e parziali rimandi in nota a testi recenti di una vastissima letteratura sulle deportazioni e migrazioni forzate con maggiore attenzione ai casi meno noti.
[2] A. Ferrara, Deportazioni e genocidi: https://www.treccani.it/enciclopedia/deportazioni-e-genocidi_(Storia-della-civilt%C3%A0-europea-a-cura-di-Umberto-Eco)/ (sito consultato il 9 febbraio 2025). U. Eco (ed.), Storia della civiltà Europea. Il Novecento, EncycloMedia, EM Publishers 2014. Cfr. A. Ferrara e N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa. 1853-1953, Bologna, il Mulino, 2012.
[3] M. Mann, The Dark Side of Democracy. Explaining Ethnic Cleansing, Cambridge, Cambridge University Press 2005.
[4] Ovvio è il riferimento a: A. Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 1963.
[5] A. Vanoli, La Spagna delle tre culture: ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Roma, Viella 2006; idem, La Reconquista, Bologna, il Mulino 2022.
[6] E.D. Stannard, Olocausto americano. La conquista del nuovo mondo, Torino, Bollati Boringhieri 2021.
[7] L.A. Lindsay, Il commercio degli schiavi, Bologna, il Mulino 2011.
[8] J. Thornton, Africa and Africans in the Making of the Atlantic World, 1400-1800, Cambridge, Cambridge University Press 1998; O. Pétré-Grenouilleau, La tratta degli schiavi. Saggio di Storia globale, Bologna, il Mulino 2010.
[9] C. Vivanti, Le guerre di religione nel Cinquecento, Roma, Laterza 2007.
[10] V. Wedgwood, La Guerra dei Trent’anni: 1618-1648, Milano, Il Saggiatore 2018; G. Brunelli, Guerra dei Trent’anni, Milano, RCS 2016.
[11] D. Croxton, The Peace of Westphalia of 1648 and the Origins of Sovereignty, in International History Review, 21, 3, 1999: 569–591.
[12] D.W. Raat, Lost Worlds of 1863. Relocation and Removal of American Indians in the Central Rockies and the Greater Southwest, Hoboken, Wiley 2021.
[13] R. Thornton, The Demography of the Trail of Tears Period: A New Estimate of Cherokee Population Losses, in W. L. Anderson (ed.), Cherokee Removal: Before and After, Athens, University of Georgia Press 1991: 75–93.
[14] Circa 27.000 persone risposero all’invito di Caterina II la Grande a colonizzare terreni in prossimità del fiume tra 1760 e 1761. Nel 1915 il governo zarista emise un decreto di deportazione in Siberia ma, per via della rivoluzione, non venne eseguito.
[15] I tatari furono uccisi o costretti a fuggire dalla Crimea tra il 1917 e il 1933. Nel 1944 l’intera minoranza di circa 200.000 individui fu definitivamente deportata sotto l’accusa di collaborare con i nazisti. https://www.balcanicaucaso.org/aree/Ucraina/Tatari-di-Crimea-226480#:~:text=Fra%20il%201917%20e%20il,46%25%20perirono%20per%20la%20deportazione (sito consultato il 30 gennaio 2025).
[16] Sull’argomento esiste una bibliografia notevole e spaccata tra i sostenitori del genocidio e i negazionisti. Cfr. Commissione per la pubblicazione dei documenti italiani sull’Armenia, Documenti diplomatici sull’Armenia, 1891-1923, 9 volumi, Firenze, 2P 1999-2003; A. Riccardi, La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo, Roma, Laterza 2015; M. Mollica Marcello, A. Hakobyan, Syrian Armenians and the Turkish Factor. Kessab, Aleppo and Deir ez-Zor in the Syrian War, Londra, Palgrave Macmillan 2021. Il 24 aprile si celebra ogni anno il Giorno del Ricordo.
[17] B. Morris e D. Ze’Evi, Il genocidio dei cristiani. 1894-1924. La guerra dei turchi per creare uno stato islamico puro, Milano, Rizzoli 2019.
[18] E. Ivetic, Le guerre balcaniche, Bologna, il Mulino 2016.
[19] J. M. Bridgman, The Revolt of the Hereros. Perspectives on Southern Africa, Berkeley, University of California 1981; D. Olusoga, W. C. Erichsen, The Kaiser’s Holocaust: Germany’s Forgotten Genocide and the Colonial Roots of Nazism, Londra, Faber & Faber 2010. Nel 2021 la Germania ha riconosciuto il genocidio e ha accettato di finanziare progetti di sviluppo in Namibia come forma di riparazione storica.
[20] Importanti i lavori di Marina Carter su questo argomento. M. Carter, Servants, Sirdars, Settlers, Indians in Mauritius 1834-1874, Oxford, Oxford University Press 1995; idem, Women and Indenture. Experiences of Indian Labour Migrants, London, Ping Pigeon Press 2012.
[21] Ch. Sand, L.-J. Barbançon, Caledoun. Histoire des arabes et berbères de Nouvelle-Calédonie, Bourail, Association des arabes de Nouvelle-Calédonie 2013.
[22] A. Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, Neri Pozza 2005: 165-184.
[23] P. Read, The Stolen Generations: The Removal of Aboriginal Children in New South Wales 1883 to 1969, Sidney, NSW. Department of Aboriginal Affairs 1998.
[24] Per il caso libico, si legga, ad esempio, il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione di Bengasi del 30 agosto 2008. https://documenti.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apritelecomando_wai.asp?codice=16pdl0017390 (sito consultato il 5 febbraio 2025).
[25] M. Craveri, Resistenza nel Gulag: un capitolo inedito della destalinizzazione in Unione Sovietica, Soveria Mannelli, Rubbettino 2003: 46 e seguenti.
[26] N. G. Kim, “Koreans in Kazakhstan, Uzbekistan and Russia”, in M. Ember, C.R. Ember, I Skoggard (eds), Encyclopedia of Diasporas, Boston, Springer, 2005: 983-992.
[27] La produzione storiografica sul genocidio degli ebrei, la Shoah, è talmente ampia da non poter essere indicata in questa sede. Si citano pertanto solo alcuni dei libri più recenti: N.G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Sesto San Giovanni, Meltemi 2024; B. Halioua, O. Chirizzi, I medici di Auschwitz. Viaggio oltre le porte dell’inferno, Milano, Giunti 2024. Il 1° novembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato il 27 gennaio “Giorno della Memoria”.
[28] Aa. Vv., Dall’Impero austro-ungarico alle foibe, Torino, Bollati Boringhieri, 2009. La legge del 30 marzo 2004 n. 92 ha istituito il “Giorno del ricordo” il 10 febbraio.
[29] Venne chiamata così in quanto la parola “lenticchia” in russo чечевица (pron. chechevitsa) è in stretta assonanza con la parola “ceceno” in russo Чеченский (pron. Chechenskiy).
[30] Nel 1957 Krushëw ammise il crimine. Nel 2004 il Parlamento europeo riconobbe il genocidio. https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/23-febbraio-memoria-delle-deportazioni-caucasiche-32507.  (sito consultato il 4 febbraio 2025). A. Rognoni, La deportazione di ceceni e ingusci del febbraio 1944 nelle testimonianze femminili, in Deportate, Esuli, Profughe, n. 9, 2008: 87-120.
[31] G. Falanga, Non si parla mai dei crimini del comunismo, Roma, Laterza 2022. H.A. Laban e J.R. Lifton, Why Did They Kill? Cambodia in the Shadow of Genocide, Berkeley, University of California Press 2004.
[32] Sulla questione esiste una letteratura estremamente ricca cui non è possibile accennare in questa sede.
[33] B. Mohanty, N. Chowdhory, Citizenship, Nationalism and Refugeehood of Rohingya in Southern Asia, Singapore, Springer 2020.
[34] https://www.refugeesinternational.org/reports-briefs/a-lifetime-in-detention-rohingya-refugees-in-india/ (sito consultato il 4 febbraio 2025); https://www.ohchr.org/en/press-releases/2024/07/india-must-end-racial-discrimination-against-rohingya-cease-forced (sito consultato il 5 febbraio 2025).
[35] J. Pirjevec, Le guerre jugoslave, Torino, Einaudi 2017.
[36] M. Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Torino, Bollati Boringhieri 2000; M. Mamdani, When Victims Become Killers. Colonialism, Nativism, and the Genocide in Rwanda, New York, Princeton University Press 2001.
[37] Si fa riferimento al trasferimento di scarti industriali inquinanti e perfino radioattivi nonché di rifiuti altamente inquinanti in vari stati dell’Africa.
[38]chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.economicsandpeace.org/wp-content/uploads/2024/06/GPI-2024-web.pdf (sito consultato il 9 febbraio 2025).
[39]https://www.icc-cpi.int/news/situation-ukraine-icc-judges-issue-arrest-warrants-against-vladimir-vladimirovich-putin-and (sito consultato il 10 febbraio 2025).
[40]Le stime sono molto diverse a seconda della fonte. Secondo Amnesty International sarebbero 42.000 https://www.amnesty.it/israele-sta-commettendo-genocidio-contro-la-popolazione-palestinese-a-gaza/ (sito consultato il 7 febbraio 2025); secondo The Lancet del 10 gennaio 2025 sarebbero 64.260 https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(24)02678-3/fulltext (sito consultato il 7 febbraio 2025).
[41] https://pagineesteri.it/2024/11/14/medioriente/human-right-watch-lo-spostamento-forzato-della-popolazione-di-gaza-e-un-crimine-contro-lumanita/ (sito consultato il 10 febbraio 2025).
[42] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/trump-gaza-e-la-riviera-del-medio-oriente-199433 (sito consultato il 10 febbraio 2025).
[43] https://www.rainews.it/maratona/2025/02/trump-a-netanyahu-controlleremo-noi-gaza-palestinesi-via-per-sempre-sara-la-nuova-costa-azzurra-385a9af2-8c9e-4847-b2d0-21db2b84840e.html (sito consultato l’11 febbraio 2025).
[44] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/uk-la-deportazione-dei-migranti-in-rwanda-e-legge-171824 (consultato in data 16 gennaio 2025).
[45] https://www.atlanteguerre.it/notizie/dossier-muri-e-politica-di-recinzione/ (sito consultato il 25 gennaio 2025).

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Salvatore Speziale, professore associato di Storia e istituzioni dell’Africa e del Vicino Oriente presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina. I suoi campi di interesse sono le “migrazioni” di uomini, merci, saperi e malattie epidemiche tra le due sponde del Mediterraneo dal XVIII al XX secolo. Su questi temi ha pubblicato diverse monografie e un centinaio di saggi in riviste e opere collettanee italiane e straniere. É, inoltre, membro delle più importanti associazioni di studi del settore. 

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