di Ada Boffa
Le ricerche di G. Castelli-Gattinara a proposito della poesia orale tuareg [1] mostrano un’ampia sezione dedicata alla poesia amorosa e alla decantazione in chiave letteraria della figura femminile. La donna e il sentimento amoroso emergono, come in tutte le letterature, anche in quella tuareg, laddove la tematica amorosa e l’elogio della bellezza femminile prevalgono sugli elementi tipici della poesia epico-cavalleresca. Le gesta eroiche, le battaglie, la figura dell’uomo-eroe che salva il suo accampamento dalle tribù nemiche e dal colono invasore assumono un ruolo di secondo piano nel momento in cui il poeta decide di cantare la bellezza della donna amata.
Il maggiore poeta che ha prodotto componimenti d’amore è l’enad Rabidin della tribù dei Kel Air, stanziati principalmente entro i confini del Niger. La sua biografia è nota grazie ad un rapporto francese del 1952, riproposto nella ricerca di G. Castelli-Gattinara. Figlio di una Kel Tadele (Air) e padre originario della tribù dei Kunta, una tribù maura di lingua araba che proveniva dal Mali, stanziatasi nella regione dell’Azawak dei Kel Dinnik. I componimenti di Rabidin sono in lingua materna, la tayert, dialetto tamasheq della regione dell’Ayr.
Si riportano di seguito dei versi scelti, ovvero l’incipit iniziale di una sua poesia n.31, titolata “Sono ormai prigioniero della morbida carne”. In questi versi introduttivi il poeta esprime le motivazioni e le modalità della propria ars poetica.
«Invocate Iddio, le sorelle, domandategli un uomo,
amabile, bello, stimato e coraggioso,
che sappia comporre le canzoni più belle.
Ha lasciato quelle del passato conservandole nel cuore,
ha bevuto l’acqua versata sul canto,
costringe le parole in un chiaro fluire,
domina il tamasheq e sulla terra lo diffonde,
ora in lui germogliano rapide parole
e si legano di verso in verso,
più forti dei nodi di una catena,
ma perché a voi rivelo tutto ciò che ho nel cuore?
A quest’arte mi son dedicato,
in quest’arte io danzo, son famoso, sono il primo
e nessuno colpirmi potrà in queste parole armoniose,
parole senza menzogna, che hanno solide basi».
La poesia amorosa tuareg mette in versi un amore fisico, sensuale, che trasuda sessualità e libertà di costumi, diversamente dall’amore concettuale e spirituale della tradizione letteraria occidentale, così come descritto accuratamente nel saggio di D. de Rougemont [2]:
«Le sopracciglia e la bocca nere,
la mano dipinta…..
I suoi occhi truccati con cura
su cui scendono…. sopracciglia di un nero profondo.
L’ho trovata distesa sul letto, tinta d’henné, profumata
con acqua d’ebedar, d’indaco abbigliata.
Profumo di esimbil e polvere di garofano
Si spandono sulla bocca quand’ella respira».
La sinuosità corporea è espressa in parole, in un continuum descrittivo che va dall’alto al basso, come se il poeta volesse prestare alla struttura poetica la direzionalità del suo sguardo, regalandoci una fotografia o un’inquadratura della donna amata.
«La donna tuareg dedica molto tempo e attenzione al proprio aspetto. Si trucca gli occhi con la polvere di kohl (solfuro di antimonio), si unge col burro i capelli neri che porta acconciati in lunghe trecce raccolte sulla nuca o ricadenti sulle spalle, usa polveri vegetali o morbide pietre colorate per truccarsi il viso e le labbra, brucia essenze profumate per impregnare il corpo e le vesti e si colora le unghie, i palmi delle mani e le piante dei piedi con l’henné, le cui foglie essiccate al sole e sciolte in acqua danno un colore rossastro» [3].
Generalmente le donne tuareg sono più istruite degli uomini, sono depositarie della cultura e della tradizione, godono di una grande libertà e si dedicano alla musica e alla poesia. Sono le donne a suonare l’anzad, (il violino monocorde), sono loro ad organizzare serate galanti dove sorseggiare il tè, conversare e recitare poemi. Sono sempre loro a suonare il tende (tamburo ad acqua) mentre gli uomini danno prova delle proprie abilità nel cavalcare il cammello a ritmo di musica con l’intento di conquistare l’attenzione di qualche giovane fanciulla.
Nell’austerità dell’ambiente e della natura desertica la donna appare come una figura di letizia e di gioia, sempre pronta ad accogliere le persone in viaggio lungo il Sahel, ricambiando la loro stanchezza con cordiale ospitalità. Ella è emancipata, attiva, perfetta sintesi tra bellezza ed intelligenza. Le differenze sociali non implicano un’agiatezza dei costumi. Le donne imajaghen sono laboriose e autoritarie quanto le loro schiave. Diversamente invece le donne ineslemen appartenenti allaa classe religiosa seguono un rigido codice comportamentale. A tal proposito, ciò che sicuramente ha reso possibile questa apertura del mondo femminile, è stata l’assenza di una matrice religiosa così radicata. Fattore che invece ha plasmato in modo determinante il ruolo della donna nella letteratura e nell’immaginifico della società cristiano-occidentale. Se difatti la letteratura tuareg e la letteratura trobadorica europea si possono equiparare per l’esaltazione che fanno dell’immagine femminile, queste differiscono in merito alla sua proiezione nella sfera spirituale.
La donna nella letteratura occidentale è sempre stata descritta in relazione al fattore religioso sino ad arrivare alla massima esaltazione del suo valore spirituale con la produzione letteraria dell’amor cortese. Questo motivo letterario donna/dimensione spirituale non compare nella produzione poetica tuareg. Seppur l’amata è posta al centro del desiderio e dell’attenzione del poeta, ella non è mai paragonata a qualcosa di divino. L’elemento sovrannaturale è presente nella poesia amorosa ma non per descrivere l’amata. Il riferimento alla dimensione religiosa o spirituale riscontrato con maggiore frequenza nella produzione poetica amorosa è l’invocazione a Dio da parte del poeta-uomo-innamorato, per chiedere aiuto nell’affrontare le pene d’amore [4]:
«[…] a te va la mia preghiera affinché tutto si appiani, salva chi soffre, travolto da getti non di latte di cammella, ma di doloroso amore […]»
L’elemento sovrannaturale si palesa anche attraverso la figura di Iblis (il demonio), che incarna l’ansia e la tentazione di bruciare le tappe per coronare il desiderio amoroso.
«Ieri nel mezzo del giorno io riposavo, quando a un tratto mi assale della passione un demone dal ciuffo intrecciato […]»
È in questi versi recitati dal celebre Rabidinche si percepisce la natura carnale e passionale dell’amore tuareg.
«[…] ieri sera mentre tutti dormivano, a occidente ho diretto il cammello l’ho trovata distesa sul letto, tinta di henne,profumata con acqua d’ebeder,d’indaco abbigliata,bella come giovane pianta […]»
Ciò deriva da una visione universale dell’amore che tende a percepire il piacere fisico come un’esperienza di unione non vincolante. L’analisi di D. De Rougemont riportata da Castelli-Gattinara, spiega come il soffocamento del sentimento amoroso sia stato possibile nella società occidentale attraverso il forte nesso sessualità-amore [5]. Tra i Tuareg l’amore assume un aspetto più leggero, come un sentimento positivo di cui godere. La sofferenza e le pene d’amore affliggono ovviamente l’uomo ma nulla in confronto all’amore platonico e alle pene descritte dalla letteratura amorosa europea.
Ecco la reazione di Rabidin dopo aver ricevuto un rifiuto:
«[…] Rispondo: “Concedimi un piccolo tempo, che in me torni la calma, le tue parole pesano sul mio cuore malato”[…]» [ 6].
L’amore dunque non diventa mai una tragedia. L’uomo-poeta dirà di essere impazzito per amore ma non si sottometterà mai all’amata. Nel mondo tuareg la libertà individuale è prima di ogni cosa. Infine per usare le parole di Castelli-Gattinara:
«I tuareg non hanno avuto l’Impero Romano, il Cristianesimo, i Trovadori, la Chiesa del Medio Evo, l’Illuminismo e ancora la Chiesa e poi la “liberazione sessuale”. Sono al di fuori di questo melting pot; l’Islam non li ha toccati che per qualche pratica superficiale, il loro “amore” dunque è rimasto costante, funzionale, libero, logico e soprattutto allegro, legato alla loro visione ottimistica della vita che così ben si esprime nel verso: “Bella è ogni cosa che sia completamente piena”. Il posto occupato dalla donna nel loro cuore e nella società è un corollario di questa massima» [7].
Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Note
1 I Tuareg e la poesia orale, Roma, CNR, 1992
2 L’amour et l’Occident, Parigi, 1984.
3 Castelli-Gattinara, cit.: 355.
4 “Travolto son da getti di doloroso amore”, Poesia n.32, in Castelli- Gattinara, cit.:445.
5 Castelli-Gattinara, cit.:367.
6 “Le tue parole pesano sul mio cuore malato”, poesia n.30, in Castelli-Gattinara, cit.:424.
7 Ivi: 368.
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Ada Boffa, attualmente insegnante d’italiano L2 ed esperta di Studi Berberi, ha conseguito il titolo di Laurea Magistrale in Scienze delle Lingue, Storie e Culture del Mediterraneo e dei Paesi islamici, presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, discutendo una tesi in Lingua e Letteratura Berbera: “Temi e motivi della letteratura orale berbera: racconti tuareg dell’Aïr”, svolta in collaborazione con tutor esterno presso l’Università di Parigi, INALCO. Ha partecipato al convegno ASAI, Africa in movimento (Macerata 2014), presentando un paper sulla favolistica tuareg.
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Complimenti per il bell’ articolo, interessantissimo. Mi trova d’accordo e mi fa pensare alla poesia araba cosiddetta preislamica, che tanto somiglia a questa poesia tuareg citata, dove l’elemento divino non è presente se non nell’invocazione e in una concezione panteistica ma atea alla Giordano Bruno. E questo rende l’amore verso le donne profondamente umano, così come lo è nei versi di Imru al Qais, ad esempio, prima che la componente religiosa ortodossa intervenisse a divinizzare la donna e svuotare così di significato quel rapporto reale e originale che gli esseri umani chiamano amore. Splendida la nota: Con l l’Islam non li ha toccati che per qualche pratica superficiale, il loro “amore” dunque è rimasto costante, funzionale, libero, logico e soprattutto allegro, legato alla loro visione ottimistica della vita che così ben si esprime nel verso: “Bella è ogni cosa che sia completamente piena”. Il posto occupato dalla donna nel loro cuore e nella società è un corollario di questa massima» [7]. Grazie.