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di Victoria Herranz
Verso metà febbraio del 2020 sono tornata in Sicilia dopo una breve visita in Spagna. Non fu niente di previsto. Ho l’abitudine (l’avevo) di guardare assiduamente i voli e dire “un giorno ne prenderò uno senza pensarci su, e me ne andrò”, ma non l’ho mai fatto. Fino a quel giorno. Ho preso un biglietto di andata e ritorno e, quando sono tornata a casa, raccontai alla mia famiglia, tra le risate, quanto erano esagerati gli italiani, che mi avevano controllato la temperatura prima dell’imbarco a causa di ciò che stava accadendo in Cina.
In Cina! manco c’entrasse con loro! L’aneddoto finì là perché fu soltanto un aneddoto, dato che in Spagna non mi controllarono mai la temperatura. I pochi giorni che rimasi a casa li vissi alla mediterranea, cioè in famiglia, mangiando, dormendo e incontrando degli amici.
Quando ritornai fui accolta all’aeroporto di Palermo ancora con un controllo di temperatura e il classico “Benvenuta in Italia”, e poi la mia anche classica risposta “Grazie” accompagnata da un sorriso più grande del solito, stupita della ammirevole coerenza sanitaria di fronte a una minaccia così lontana…
Ma presto ciò che sembrava esotico divenne minaccia reale anche in Spagna.
L’8 marzo, in un ambiente rarefatto, con pioggia, seppi che l’Associazione Comunità Cinese di Palermo della via Lincoln stava distribuendo mascherine gratuitamente. Mi sembrò che, se non era notizia, quanto meno era qualcosa di insolito, e quindi andai a fare qualche scatto e a chiacchierare con i commercianti cinesi.
Lì ebbi il piacere di conoscere i nostri ormai grandi e cari amici: la mascherina e il gel idroalcolico. Quando finì la distribuzione mi dissero che loro stavano chiudendo e che non sapevano quando avrebbero riaperto. Ascoltai il lamento della saracinesca che si arrestava sul pavimento.
Due giorni dopo, l’Italia decretava il lockdown. Nelle settimane successive Palermo incominciò a soffrire tutta una serie di conseguenze collaterali della pandemia. In una terra dannata economicamente, con un alto tasso di disoccupazione, esodo e immigrazione, l’isolamento stava mandando fuori controllo la già delicata situazione di tante famiglie che si incontrarono faccia a faccia con un nemico sempre in agguato: la fame.
Organizzazioni come il gruppo G.E.S. (Gruppo emergenza sociale), appartenente al A.N.A.S. (Associazione nazionale di azione sociale), raccolsero circa 5.000 euro di donazioni fatte da privati che, assieme a quelle delle aziende di distribuzione di prodotti alimentari, contribuirono al sostegno di oltre 280 famiglie durante il mese di aprile. Come l’A.N.A.S., diverse organizzazioni governative, no-profit e movimenti sociali continuarono la loro opera di assistenza alle famiglie in situazione di emergenza radicata, al di là del Covid-19.
Si stima che nel corso dell’emergenza coronavirus siano aumentate del 20%-30% le richieste di aiuto alimentare in tutto il Paese, registrandosi le maggiori criticità nel Mezzogiorno. La chiusura generale non soltanto stava compromettendo il tessuto produttivo, già in gravi condizioni, ma stava anche alterando la vita di coloro che si affannavano per sopravvivere senza bisogno di ulteriori incentivi.
Secondo i dati della Cgil, soltanto nella provincia di Palermo un lavoratore su quattro è in nero. Navigando tra i vari rapporti, sia nazionali che internazionali, sul rischio di povertà ed esclusione in Italia, e in particolare in Sicilia, ho trovato montagne di grafici indecifrabili, tra cui spiccava la percentuale di popolazione disoccupata, e mi stupii vedendo che questa veniva distinta in “pensionati”, “in cerca di lavoro” e un enigmatico “in un’altra condizione”. Mi chiedo perché la diplomazia linguistica si ostini a nascondere con parole magniloquenti ciò che è sempre stato lavorare in nero, cioè senza garanzie, senza assicurazioni, invisibile manodopera che sostiene tante famiglie, ancora di più quando è una situazione in cui si trova praticamente la metà della popolazione definita come disoccupata. Come si forgia una patria di invisibili?
I popoli del Mediterraneo si mantengono ancora, in misura maggiore o minore, lontani dell’individualismo esacerbato promulgato dalle potenze di un Occidente di cui, ironicamente, fanno parte. Ogni singolo membro delle famiglie palermitane viaggia sulla stessa barca, sulla quale si aggiungono i migranti venuti innanzitutto dall’Africa e dall’Asia, rendendo ancora più grande e accogliente la barca siciliana. Ma essere uniti non evita le tempeste, soprattutto nell’alto mare di una pandemia.
La società palermitana è storicamente radicata in una solida base familiare, essendo ogni membro del suo nucleo al contempo protettore ed anche protetto. Per quella che sembra essere una parte importante di questa società, costretta in una situazione precaria basata su un’economia informale, vale a dire la cui fonte di guadagno nasce da lavori senza contratti, occasionali, oppure da attività più o meno lecite: chiudersi a casa non è un’opzione. Questo spiega in parte la lunghezza delle file per ricevere gli aiuti.
Se campare in Sicilia non è stoicismo soltanto Dio sa cosa sia. Ma siccome sono di mente dispersa, mi ricordo de I Malavoglia e penso che tutte le persone davanti a me sono diventate quella famiglia, tutte hanno perso la loro barca, tutte sperano di riprenderla senza sapere né come né quando, disgrazia dopo disgrazia. La barca, sempre la barca siciliana…
Di solito la gente tende a fare dei grandi racconti sulle sue scelte vitali. Io invece sono assai semplice, al punto che quando ero piccola mi piaceva il rumore che faceva la macchina fotografica mentre scattava e chiedevo il perché di questo rumore (e di tutto). Per ciò, eccomi qua, quindi non datemi retta, io soltanto volevo sentire quel rumore…
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
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Vittoria Herranz, (Madrid, 1983), fotografa documentarista e fotoreporter di origine spagnola con sede a Palermo, Sicilia. Ha lavorato, come freelance, per agenzie di stampa internazionali. Le sue foto sono state pubblicate su giornali, riviste e ONG come Survival International, The Cut, Le Temps, Internazionale, Le Point, Le Journal, Fri Tanke, La Vanguardia, tra gli altri. Inoltre, è scrittrice e collaboratrice per diversi media. Associa il suo lavoro di documentarista e fotoreporter con la scrittura e il cinema.
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