di Mattia Giampaolo
Introduzione
All’indomani del 7 ottobre del 2023 è tornata con una certa forza al centro del dibattito la questione palestinese. Con una certa insistenza, al di là della retorica, i grandi media e la politica tutta sono impegnati a dibattere su come implementare la ‘Pace in Medio Oriente’. Tuttavia a guardare bene le cose ci si accorge sempre di più che già da tempo la Palestina e i palestinesi hanno messo un punto definitivo a quello che è stato conosciuto come ‘il processo di pace in Medio Oriente’.
Nonostante la retorica sulla formula dei ‘due popoli e due Stati’ continua ad avanzare inesorabile del colonialismo di insediamento israeliano nella Cisgiordania occupata e le operazioni militari contro la Striscia di Gaza. Congiuntamente, le mobilitazioni di questo ultimo decennio in Palestina hanno dimostrato che nulla è rimasto della storica stretta di mano tra Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il premier israeliano Yitzhak Rabin. Sono crollati di fatto quei paradigmi che erano alla base di quel processo. Regole, quasi assiomi, che erano tutte figlie di un’epoca in cui le grandi ideologie prendevano la via del tramonto e la grande potenza militare, economica e politica, quali erano gli Stati Uniti, tentava l’affondo finale per risolvere il più lungo e duraturo conflitto del XX secolo.
Il neo-liberismo alla base degli accordi, già all’inizio del 2000, iniziava ad essere messo in discussione e che, con la cosiddetta Primavera Araba, veniva fortemente criticato proprio dai grandi movimenti che si erano messi in moto a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008. In Palestina, la nascita con Oslo della Autorità Nazionale Palestinese (ANP) non aveva cambiato molto sul terreno, anzi gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata continuavano ad aumentare. L’OLP, un tempo rappresentante del popolo palestinese, limitata dalla presenza del quasi-Stato palestinese, cedeva sempre più spazio ai movimenti islamisti e quelli che furono i protagonisti della lotta di liberazione si trasformavano gradualmente in burocrati semi-statali che nulla potevano (o volevano) contro l’occupante. L’aumento della violenza da parte dell’esercito israeliano e la costruzione di ‘barriere di protezione’ (il muro) e checkpoint in ogni angolo della Cisgiordania, insieme all’isolamento sempre più pesante della popolazione di Gaza, hanno provocato una serie di reazioni portando la popolazione palestinese, non solo a rivoltarsi contro queste forme oppressive, ma a mettere in dubbio fino a farlo crollare quello che qui chiamiamo paradigma Oslo.
Tra internazionale e locale: origini e implicazioni di Oslo
Ci sono due immagini che hanno caratterizzato gli anni ‘90 del XX secolo: la prima è la stretta di mano nel giardino della Casa Bianca tra il leader dell’OLP, Yasir Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin con al centro Bill Clinton; la seconda è quella dell’abbraccio di due bambini, uno con la tradizionale kūfiyya (generalmente chiamata kefiah) e l’altro con la Kippah, su una delle colline della città di Gerusalemme [1]. Entrambe le immagini rappresentavano, per utilizzare le parole di Bill Clinton, «un momento che per tanto tempo è risultato impossibile anche da immaginare» (Archives, Records Administration, and of the Federal Register 1994).
Un accordo che fu il risultato di più di venticinque anni di sforzi diplomatici di quello che, a partire dalla metà degli anni ‘70, venne definito ‘processo di pace in Medio Oriente’ (Quandt 2010; Guazzone and Pioppi 2010) e che affonda le sue radici storiche all’indomani della sconfitta araba del 1967 nella Guerra dei sei giorni. Questo processo vide gli Stati Uniti come i protagonisti indiscussi nell’intavolare un primordiale dialogo tra le parti. L’utilizzo dello strumento diplomatico da parte USA è in parte spiegabile dalla volontà di evitare un secondo teatro di conflitto dopo il Vietnam. Se sino a quel momento gli Stati Uniti non ebbero un ruolo di primo piano rispetto al conflitto israelo-palestinese (Quandt 2010), lo scoppio della terza guerra arabo-israeliana aprì l’opportunità per un cambio di strategia della politica statunitense nella regione.
È in questo periodo che gli Stati Uniti appoggiarono in modo netto i vari governi israeliani e, allo stesso tempo, promossero un’azione diplomatica volta a favorire un processo di negoziato per assicurare a Israele sicurezza e pace (Guazzone and Pioppi 2010). Tale esigenza nasceva dal fatto che, secondo molti collaboratori dell’allora presidente Johnson (in primis il Segretario di Stato Eugene Rostow), la tensione bellica, poi sfociata nella guerra dei Sei Giorni, fosse una tattica dell’Unione Sovietica per impegnare gli Stati Uniti su più fronti e indebolirli in Vietnam (Quandt 2010: 24).
Tali sospetti, nonostante le cause della guerra furono ben altre, si alimentarono anche per tutto il decennio successivo portando l’amministrazione Reagan a considerare Israele non solo un ‘semplice’ partner locale, ma un alleato strategico degli Stati Uniti e una ‘risorsa’ della nuova ‘crociata antisovietica’ (Guazzone and Pioppi 2010: 39).
Non è un caso dunque che gli accordi di Oslo (nome ufficiale Dichiarazione di principi sugli accordi di autogoverno ad interim) furono il risultato di un particolare momento storico nel quale la combinazione di diversi fattori ideologici, politici, economici e culturali conversero tra gli attori chiave: Stati Uniti, Israele, l’OLP in esilio a Tunisi e la leadership palestinese nei Territori Occupati (Haddad 2016: 36). Gli Accordi furono un modo per raggiungere una serie di obiettivi, basandosi sull’equazione di ‘terra in cambio di pace’ (Hilal 2007; Guazzone and Pioppi 2010; Quandt 2010), un meccanismo che non fu nient’altro che la posizione israeliana e poi americana sviluppatasi dopo il 1967.
La formula ‘terra in cambio di pace’, infatti, fu menzionata per la prima volta dal presidente americano Johnson, diventando poco dopo il punto di partenza della risoluzione 242 delle Nazioni Unite (Guazzone and Pioppi 2010; Quandt 2010): «Israele non deve essere costretta a restituire territorio occupato se non in cambio di pace, sicurezza e riconoscimento da parte degli arabi» (Guazzone and Pioppi 2010: 38). Fu dunque la convergenza degli interessi israeliani, che puntavano a mantenere un certo controllo nei territori palestinesi, e quelli americani, volta a garantire allo Stato ebraico la sicurezza di cui necessitava, che portò alla strutturazione dei meccanismi di Oslo e tradurre le reali intenzioni statunitensi e israeliane in elementi, solo apparentemente, progressivi per le aspirazioni palestinesi. Fu proprio il carattere non definito di questa formula che portò le due parti al dialogo e a una prima accettazione delle proposte di accordo. Parti che si ritrovarono attorno al tavolo in un momento molto particolare per gli equilibri politici globali e per la regione stessa.
Gli accordi, infatti, arrivavano in un momento in cui si stavano verificando enormi cambiamenti negli equilibri di potere locali e globali, ma soprattutto si stava aprendo una nuova fase che avrebbe cambiato non solo gli equilibri politici, ma che avrebbe visto il trionfo su larga scala della globalizzazione e della dottrina neo-liberale (Hobsbawm 1994; Gill 1995). Un processo che, per usare le parole dello storico Eric Hobsbawn, «presenta per la prima volta nella storia un’unica, crescente economia mondiale integrata e universale che opera in gran parte al di là delle frontiere statali e quindi sempre più al di là dell’ideologia statale» (Hobsbawm 1994: 287). È in questo contesto che si delinea in maniera decisa il paradigma Oslo, un assioma rappresentato dal fatto che le sue basi ideologiche, al di là della durabilità nel tempo, sono rimaste inattaccabili sotto il punto di vista del dibattito politico. Questo paradigma si rafforza all’interno del contesto delle relazioni internazionali, la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dei due blocchi ha portato con sé l’emergere su scala globale dell’egemonia americana.
Il crollo dell’URSS non significava, infatti, soltanto la scomparsa di un pericolo contro-egemonico, ma un radicale cambiamento nel pensare la politica, l’economia e la cultura stessa. Stava emergendo un nuovo zeitgeist il quale, annientato il pericolo sovietico, avanzava senza alcun apparente ostacolo dando la possibilità agli Stati Uniti di diventare «il solo architetto del sistema capitalistico globale» (Ahmad 2004). È la Fine della Storia di Francis Fukuyama (Sela 2009: 105) e il trionfo del motto TINA (There is no alternative) della Thatcher, ove al declino dell’economia pianificata del socialismo reale, l’unica soluzione percorribile restava l’economia di mercato e la democrazia liberale su scala globale. Non fu un caso che gli accordi di Oslo furono uno dei primi esperimenti nella creazione artificiale di strutture istituzionali funzionali al neo-liberismo. Con il beneplacito degli Stati Uniti, istituzioni finanziarie internazionali e le Nazioni Unite, gli Accordi avrebbero dovuto portare alla luce una «entità di governo centrale e funzionale che rispettasse le pratiche democratiche e l’approccio liberale dell’economia e che rappresentasse l’esercizio nel pieno spettro dei valori liberali, essendo di fatto la miglior opportunità per la pace e la sicurezza» (Haddad 2016: 86).
Il carattere paradigmatico degli Accordi di Oslo risiede, in prima istanza, nell’idea della pace neo-liberale ovvero ne «l’importanza dei guadagni materiali assoluti nel generare la pace, che porta ad adottare il libero mercato e la liberalizzazione dell’economia» (Rynhold 2009). Tale meccanismo avrebbe portato a un’integrazione economica e istituzionale che avrebbe scoraggiato il conflitto, aprendo a maggiori possibilità che uno Stato, una società eviti la guerra (Ibid.). La pace liberale, come afferma criticamente Toufic Haddad, avrà successo solo quando riuscirà a costituire le basi dello Stato neo-liberale e strutturarsi sull’ordine politico-economico neo-liberale (Haddad 2016: 26). Era opinione comune sia per gli israeliani che per i palestinesi che gli strumenti della pace liberale fossero la condizione sufficiente e necessaria per una pace giusta e duratura e che questi, sarebbero dovuti passare attraverso la «costituzione di un’entità di governo centralizzata che rispettasse le pratiche democratiche e l’economica liberale» (Ibid.: 86).
Se dal lato prettamente strutturale dell’economia, il carattere paradigmatico di Oslo fu uno dei tanti casi di restaurazione/istaurazione neo-liberale, dall’altro esso introduceva alcuni caratteri politico-ideologici che nel tempo risulteranno fatali per i palestinesi. Il primo effetto fu quello di una graduale depoliticizzazione degli scontri che avevano animato il periodo post-coloniale in favore di una pace sociale internazionale all’interno della quale i nuovi paradigmi giocavano un ruolo fondamentale (Cornish 2014). Se fino all’inizio degli anni ‘80 l’OLP di Arafat avrà un atteggiamento, almeno in termini retorici, critico verso ad esempio le risoluzioni dell’ONU e verso il ruolo degli Stati Uniti e dell’Occidente in generale, a partire dalla metà degli anni ‘80 la leadership palestinese sarà costretta a rivedere non solo le rivendicazioni del popolo palestinese, ma anche a ripensare la propria impostazione ideologico-politica (Sayigh 1997).
L’illusione di Oslo e le criticità storiche
In questo quadro, nonostante gli Accordi di Oslo fossero fortemente penalizzanti per i Palestinesi, per impostazione ideologico-politica, essi includevano alcuni elementi ‘progressivi’ che concorrono, ancora oggi, a considerare gli Accordi come un passo in avanti rispetto al passato. Come primo elemento paradigmatico e progressivo vi è il fatto che gli Accordi avrebbero messo sullo stesso piano OLP e lo Stato israeliano, rappresentando un punto di rottura rispetto alla posizione subalterna dei palestinesi rispetto agli israeliani. Questa impostazione se da un lato poteva rappresentare una vera e propria svolta per l’OLP, dopo anni di esilio e repressione israeliana, dall’altro celava la strategia israeliana di mettere alle strette la stessa leadership palestinese (Hilal 2007; Guazzone and Pioppi 2010). Infatti, non risulta difficile immaginare l’asimmetria strutturale e legale tra i due attori al negoziato (Gallo and Marzano 2009): da una parte uno Stato con un delimitato territorio, con tutte le sue istituzioni e apparati coercitivi e dall’altro una delegazione con poca esperienza diplomatica e privi di un apparato istituzionale stabile (ibid.: 40).
Era questo uno dei sotto-obiettivi di Oslo e dell’amministrazione israeliana, ovvero quello della «creazione di un quadro internazionale basato su un’illusoria parità delle due parti in conflitto e quindi sull’occultazione dei rapporti di forza fra potenza occupante e popolazione sotto occupazione» (Guazzone and Pioppi 2010: 17). Fu lo stesso Mahmud Abbas (Abu Mazen), attuale presidente dell’Autorità Palestinese, a riconoscere che «nei negoziati di Oslo non avevamo fatto rivedere il testo ad un esperto legale per paura che uscissero fuori informazioni segrete… avevo provato a sfruttare quello che avevo appreso, sotto il profilo legale, durante i miei studi in legge all’università di Damasco, ma non potevo, allo stesso tempo, farci troppo affidamento» (Abbas 1997: 162).
Questo è confermato dal fatto che «concetti vuoti come il riconoscimento dell’OLP da parte israeliana e l’autonomia dei palestinesi, furono usati solo per rafforzare la convenienza di tale approccio a una soluzione. La realtà sul campo era un’entità non ben definita il cui 20% era sotto indiretta occupazione israeliana, mentre lo si spacciava come la realizzazione della soluzione dei due Stati […]» (Pappé in Hilal 2007: 57). Inoltre, tali riconoscimenti generavano allo stesso tempo, alcune convinzioni di metodo del negoziato che hanno finito per cancellare elementi storici di primaria importanza per la risoluzione definitiva del conflitto e che costituiranno un secondo elemento paradigmatico: il 1967.
La centralità del 1967 come data spartiacque nel processo di pace in Medio Oriente ha assunto nel tempo una rilevanza storico-politica che ha influenzato negativamente un serio e stabile accordo di pace. Con Oslo, il 1967 diventa di fatto l’inizio della Storia, considerando la nascita dello Stato ebraico nel 1948 come un processo assodato di cui non tenere conto (Carminati 2021:155). Scompare dalla cronologia storica il 1948, la Nakba (in arabo, la catastrofe), ovvero l’esodo di migliaia di palestinesi dalle loro case e la costituzione dello Stato d’Israele (Pappe 2007; Pappe in Hilal 2007). Le iniziative lanciate nel periodo antecedente agli accordi di Oslo e in quelli successivi, tenevano in considerazione soltanto i profughi del 1967 della Guerra dei Sei Giorni. Questo era esplicitato dai colloqui, nati in seno al processo di Madrid del 1991, del Refugee Working Group (RWG) all’interno del quale la questione dei profughi del 1948 non era stata presa in considerazione (Zureik 1994). Infatti, nei documenti finali dell’iniziativa dei cinque incontri del RWG si puntava più a migliorare le condizioni di vita nei campi profughi interni ai territori e nei Paesi arabi confinanti che ad una soluzione definitiva (Giordania, Siria, Libano) (Ibid.).
Il ritorno dei profughi palestinesi, a ridosso degli Accordi di Oslo, voleva dire, inoltre, mettere in discussione due priorità del governo israeliano: coprire i crimini sionisti che avvennero nel 1948 e mantenere una particolare attenzione alla demografia interna ai territori israeliani (Klein 1998; Hilal 2007). Aprire il vaso del 1948 significa(va) mettere in cattiva luce Israele dalla concezione internazionale che considera(va) lo stato sionista ‘l’unica democrazia del Medio Oriente’. A proposito di Oslo e della questione dei profughi, per Pappé uno dei presupposti di Israele per aprire un tavolo negoziale era proprio quello di assolvere lo Stato ebraico dalle «accuse di pulizia etnica rivoltele nel 1948 e che la questione non doveva più essere menzionata dentro un futuro piano di pace» (Pappé in Hilal 2007: 57).
Le responsabilità dell’esodo palestinese, per la storiografia israeliana, erano da attribuire alle violenze della guerra di cui erano responsabili allo stesso modo israeliani e Paesi arabi. In questo senso, la proposta israeliana al secondo incontro del RWG fu quella di accordare un ipotetico diritto al ritorno a patto che venisse concordato un risarcimento per gli ebrei cacciati dai Paesi arabi (Zureik 1994). Tale proposta fu respinta dai palestinesi i quali reagirono dicendo che non avrebbero dovuto pagare loro il prezzo dell’espulsione degli ebrei dai Paesi arabi (Ibid.). Il ritorno dei palestinesi avrebbe significato un mutamento di equilibrio a livello demografico che avrebbe fatto cambiare i rapporti di forza all’interno del neonato Stato ebraico e messo in pericolo la sicurezza di Israele stessa (Klein 1998; Hilal 2007). Anche in questo caso la soluzione per gli israeliani guardava ai vicini arabi e proponeva che ai profughi palestinesi venisse riconosciuta la cittadinanza e pieni diritti ai Paesi confinanti che ospitavano gli esuli (Giordania, Siria, Libano e, in minor misura, l’Egitto) (Zureik 1994).
L’unica apertura di un ipotetico ritorno dei profughi fu avanzata da Israele per coloro che erano fuggiti a causa della guerra del 1967, a loro lo Stato ebraico avrebbe consentito, tramite un sistema quote anti-litteram, il ritorno nelle sole zone della Cisgiordania e Gaza (Ibid.). Legato a doppio filo alla questione del ritorno dei profughi è, inoltre, il ruolo dell’OLP all’interno degli accordi. La creazione, dopo la firma di Oslo, dell’Autorità Nazionale Palestinese nei Territori Occupati ha limitato l’azione del legittimo rappresentante dei palestinesi in diaspora (Guazzone and Pioppi 2010). Se l’OLP, almeno sino alla metà degli anni ‘80 rivendicava con forza il ritorno dei profughi palestinesi, a partire dal 1988 durante il diciannovesimo Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) tale punto assunse sempre più caratteri vaghi e poco espliciti (Klein 1998). In uno dei passaggi del CNP si legge: «[…] tra i diritti nazionali del popolo arabo palestinese quello del diritto al ritorno, il diritto all’indipendenza, il diritto alla sovranità nel territorio e nella madrepatria».
Si intravedeva, implicitamente, di come l’inizio della Storia nel ‘67 era ormai penetrata all’interno delle élite palestinesi che avrebbero successivamente firmato gli accordi di Oslo. Questa svolta era direttamente collegata alle condizioni materiali e politiche in cui si ritrovava, nel caso specifico, l’OLP di Arafat soprattutto quelle legate al contesto internazionale. Il ritorno dei profughi e il cambio di approccio dell’OLP verso tale questione non era nient’altro che un più ampio cambiamento legato in modo indissolubile con il nuovo spirito del tempo. Un cambiamento che costringerà di fatto l’OLP a sposare in toto i nuovi paradigmi politici e spingeranno il leader palestinese ad accettare, nel 1988, per la prima volta la risoluzione 194 delle Nazioni unite; lo fece durante la cosiddetta Dichiarazione di Stoccolma nel cui documento finale si leggeva che: «per una soluzione della questione dei rifugiati in accordo con la legge e le prassi internazionali e le risoluzioni ONU relative, incluse quelle del diritto al ritorno e alla compensazione dei danni» (Klein 1998: 6)
Tale scelta venne poi formalizzata all’interno della conferenza di Madrid del 1991, organizzata e promossa dalla Spagna e appoggiata dagli Stati Uniti. Al di là della valenza politica della mossa di Arafat, ciò che è importante sottolineare è il fatto che l’OLP formalmente iniziava la sua lunga corsa verso quello che sarà il riconoscimento dell’inizio della Storia al 1967. Infatti, uno dei principali consiglieri politici della delegazione presente a Madrid, confermava che il diritto al ritorno, così come confermato e formalizzato da Haidar ‘Abd al-Shafi’ (capo delegazione a Madrid), si riferiva al ritorno dei profughi all’interno dei territori del 1967 e non al completo diritto al ritorno dei palestinesi della cosiddetta Palestina storica (oggi Israele) (ibid.). Si stavano formalizzando quei passaggi politici che avrebbero definito quelli che successivamente saranno gli Accordi di Oslo. Accordi, che metteranno al centro ancora più forza e legittimità internazionale un altro pilastro del processo di pace, ovvero quello della soluzione dei ‘due popoli e due Stati’.
Il tempo che ruba lo spazio: l’ambiguità diplomatica
Un ultimo elemento che renderà paradigmatici gli Accordi, sarà quello relativo alla tecnica di negoziazione imposta dagli Stati Uniti all’intero processo, ovvero quella dell’ambiguità costruttiva (Kittrie 2003; Weinberger 2007). Tale approccio sarà la base che darà lustro al carattere paradigmatico di Oslo e della soluzione finale al conflitto israelo-palestinese. L’ambiguità costruttiva è stata una tecnica negoziale ideata negli anni ‘70 dal politico e diplomatico americano, Henry Kissinger, che consiste nell’uso deliberato di un linguaggio vago, equivoco o ambiguo che può essere interpretato da ciascuna delle parti in favore dei propri interessi in campo (Klieman 1999; Singer 2020). Secondo questo approccio, tutte le questioni più spinose venivano di fatto messe da parte favorendo piccole fasi che creassero, in una certa maniera, fiducia tra le parti. Evitare la polarizzazione politica era lo scopo principale degli Accordi che rappresentavano, secondo la diplomazia, soltanto la prima fase di un più lungo processo negoziale che sarebbe durato cinque anni (Sayigh 1997; Buchanan 2000; Weinberger 2007).
In un articolo comparso su Brookings nel 2014 dal titolo When ambiguity is destructive (Quando l’ambiguità è distruttiva) l’analista e politologo Khaled Elgindy, affermava, all’indomani delle numerose visite dell’ex Segretario di Stato Americano John Kerry in Medio Oriente per rigenerare il processo di pace in Medio Oriente, che «nel contesto dei negoziati israelo-palestinesi, l’ambiguità costruttiva è riuscita solo a produrre confusione e a erodere la fiducia tra le parti. Nel corso del processo di Oslo degli anni Novanta, i disaccordi su come interpretare le varie disposizioni hanno portato a ritardi infiniti, nonché alla rinegoziazione e alla mancata attuazione degli accordi firmati» (Elgindi 2014).
I principali sostenitori di questa metodologia negoziale, soprattutto da parte israeliana e americana, erano convinti che con tale metodo si sarebbe raggiunta nel minor tempo possibile la pace. Joel Singer, legale che prese parte al team diplomatico di Oslo per lo stato d’Israele, affermava che «di solito […] si concorda un quadro generale che comprende l’accordo di base delle parti sugli elementi fondamentali della loro controversia, lasciando ad accordi successivi tutti i dettagli dell’attuazione dell’accordo quadro di base. L’Accordo di Oslo è stato strutturato in modo inverso. È pieno di dettagli riguardanti la gestione quotidiana di un periodo di transizione di cinque anni, lasciando aperta la porta a un accordo successivo la questione più importante della soluzione definitiva della controversia israelo-palestinese» (In Kittrie 2003: 1669).
Al di là degli effetti concreti che tale approccio avrà sulla negoziazione, ciò che è necessario sottolineare è la capacità americana e israeliana di depoliticizzare e rendere innocue le questioni che saranno centrali per i palestinesi: il ritorno dei profughi, lo status di Gerusalemme, il territorio del futuro Stato palestinese e lo status finale dello stesso (Said 1993; Weinberger 2007; Hilal 2007; Guazzone and Pioppi 2010; Pappe 2007). L’ambiguità costruttiva, insieme al gradualismo aperto (questioni non risolte oggetto di nuovi negoziati), saranno le armi diplomatiche che gli israeliani e americani utilizzeranno dal 1994 fino ad oggi. Contrariamente a quanto si possa pensare, gli accordi non avevano alcun effetto vincolante nei confronti di Israele, questo era dimostrato soprattutto dalla continua occupazione di Israele di terre palestinesi proprio durante il periodo di Oslo (Guazzone and Pioppi 2010). Dall’altro lato, la leadership palestinese, seppur anch’essa non vincolata ufficialmente, era di fatto legata a doppio filo all’accordo poiché, trovandosi in posizione subordinata, dovette procedere a rispettare tutti i dettami imposti dal negoziato. Inoltre, gli Accordi risultavano estremamente positivi per Israele soprattutto in relazione allo spazio e al tempo. Lo stesso Shimon Peres afferma che «invece di tentare di tracciare una mappa di un territorio autogovernato … abbiamo suggerito un calendario definitivo. Sebbene questa proposta non abbia la chiarezza di una mappa, offre l’impegno di un calendario» (In Shlaim 1994: 14).
Oltre il 7 ottobre: una conclusione
Molti, in questi ultimi tempi stanno mettendo al centro gli eventi accaduti il 7 ottobre. Eventi che sono iniziati con un commando di Hamas, gruppo islamista della resistenza palestinese, il quale, eludendo i controlli israeliani ai confini con Gaza, è riuscito a rompere il muro di separazione ed entrare in territorio israeliano. L’impatto dell’attacco di Hamas, soprattutto per l’alto numero dei civili morti, ha riportato al centro del dibattito politico occidentale, dopo anni di congelamento e mantenimento dello status quo, la questione palestinese. Questo fa emergere la totale inadeguatezza dei dibattiti che si stanno susseguendo soprattutto a livello internazionale e sui media, di fatto rimasti fermi a quel lontano 1993 nel giardino della Casa Bianca.
Già un decennio fa l’intera regione, con le cosiddette Primavere Arabe, metteva in dubbio, al di là del caso specifico palestinese, tutta l’impalcatura di sviluppo delle politiche neo-liberali messe in atto dai regimi al potere sotto la pressione delle potenze e istituzioni finanziarie occidentali (Bayat 2017; Del Panta 2019). Le piazze di Tunisi e del Cairo, insieme a quelle di Dara’a in Siria, Sana’a in Yemen e Benghazi in Libia avevano dimostrato, seppur in maniera disorganizzata, la volontà di un cambiamento radicale e la rottura con lo status quo. La Palestina, a sua volta, non è rimasta a guardare. La natura sempre più repressiva dell’ANP e il dilagare della corruzione tra i ranghi politici palestinesi, avevano generato un comune malcontento (Haddad 2015; Hanieh 2016). A questo si aggiungeva la presenza del potere coloniale israeliano che proprio negli anni successivi agli Accordi di Oslo da un lato aumentava il numero di colonie in Cisgiordania e dall’altro rendeva l’Autorità Palestinese sempre più dipendente politicamente ed economicamente (semmai non lo fosse stata) (Hilal 2007; Rynhold 2009; Dana 2019). Nonostante l’assenza di una rivendicazione strategica di liberazione nazionale, a livello di movimenti dal basso si è sviluppata, nel tempo, tutta una serie di organizzazioni della società civile e comitati popolari indipendenti che hanno smontato attraverso azioni collettive le strutture politiche, istituzionali e ideologiche alla base di Oslo.
A partire dall’ultimo decennio, ad essere presa di mira da queste organizzazioni, composte soprattutto dalla cosiddetta generazione di Oslo (giovani cresciuti nell’epoca di Oslo) (Hawari 2023), è stata la stessa ANP che, incapace di far valere anche il minimo diritto per i palestinesi sotto occupazione è stata duramente attaccata e criticata per la sua ‘collaborazione’ con Israele soprattutto in ambito securitario. Infatti, uno dei punti di Oslo era proprio il coordinamento della sicurezza con le forze di occupazione. Questo si rafforzava con l’accordi di Oslo II e con la divisione in tre zone della Cisgiordania: A (sotto il controllo totale palestinese), B (amministrazione palestinese e sicurezza in condominio con le forze israeliane) e C (amministrazione palestinese e controllo della sicurezza israeliano) (Hilal 2007; Kittrie 2003; Said 2002). Tutto questo ha provocato una crescente frustrazione dei palestinesi, soprattutto della Cisgiordania, che si sono ritrovati all’interno di un sistema doppiamente oppressivo: da un lato l’occupazione israeliana e dall’altro la repressione, sotto richiesta israeliana, della polizia palestinese.
Oltre a ciò, le grandi questioni irrisolte degli Accordi mettevano in moto tutta una serie di iniziative, come la Grande Marcia del Ritorno del 2018. Un’iniziativa promossa dai comitati popolari durata due anni e tenutasi ogni venerdì soprattutto al confine con la Striscia di Gaza (Mezan 2021). Tale marcia rappresenta(va) di fatto la forte volontà rivendicativa del ritorno dei profughi nelle terre che un tempo appartenevano ai palestinesi, una richiesta che non era stata esaudita dagli accordi di Oslo se non per pochissimi eletti e, per una buona parte, legati all’OLP in esilio a Tunisi.
In questi ultimi anni, inoltre, anche i palestinesi all’interno della Palestina storica, hanno iniziato a rivendicare una ritrovata centralità all’interno della questione palestinese. Da sempre considerati come cittadini di serie B, i palestinesi all’interno di Israele sembrano ormai soggetti integrati e assimilati alla società israeliana. Se da un lato questo potrebbe risultare vero, considerando la presenza di palestinesi all’interno delle istituzioni israeliane e l’ormai perfetto bilinguismo degli stessi, dall’altro essi sono relegati a un sistema di discriminazione, soprattutto nei luoghi di studio e lavoro. Infatti, la maggior parte dei palestinesi in Israele (chiamati arabi d’Israele, per sottolineare la diversità con gli israeliani, ma non considerati palestinesi), non ricoprono posizioni di spicco all’interno dei luoghi di lavoro, ma sono impiegati principalmente in piccole attività commerciali oppure all’interno di quei settori legati al settore edile, manifatturiero e agricolo.
Tutta questa serie di attività dal basso e contraddizioni economico-sociali che si sono consumate in questi ultimi decenni hanno portato a diverse esplosioni di protesta e mobilitazione che hanno visto il culmine nel maggio 2021. Questa data, probabilmente molto di più del 7 ottobre, ha rappresentato la fine della grande illusione del processo di pace. Le proteste, iniziate nel quartiere di Gerusalemme di Shaykh Jarrah, a causa della cacciata di diverse famiglie dalle loro case ha dato vita a quella che è stata definita dai palestinesi stessi l’Intifada dell’unità. Una vera e propria mobilitazione di massa che ha interessato non solo la Cisgiordania occupata, ma anche la Striscia di Gaza (con conseguente operazione militare), i palestinesi nei campi di Giordania e Libano e, per la prima volta dal 1936-39 (anni della grande rivolta palestinese), anche i palestinesi della Palestina storica.
Le masse al confine con Giordania e Libano che tentavano, seppur simbolicamente di rientrare in Palestina, così come la bandiera palestinese innalzata nella città di al-Lud in Israele, oltre agli scioperi dei commercianti del porto di Haifa (Israele) e le proteste in tutte le piazze della Cisgiordania hanno dimostrato il totale fallimento dei tentativi americani e israeliani del cosiddetto processo di pace. Interessante, per concludere, il manifesto dei comitati popolari diffuso durante le proteste nel quale si descriveva la questione e la situazione dei palestinesi (tutti i palestinesi) come una serie di prigioni:
«Così Israele ci ha sbattuto dentro prigioni isolate dal resto del mondo. Una di esse nella Sponda Occidentale (Cisgiordania) ed è la ‘prigione di Oslo’. Una dentro i territori del 1948 ed è quella della ‘prigione della cittadinanza’. un’altra, caratterizzata con la guerra e con la crudeltà perenni, che è quella di Gaza. Poi ce n’è un’altra, isolata da parte di un processo di ebraicizzazione, ovvero Gerusalemme. E un’ultima, cacciata e sparpagliata in tutte le parti della terra.
In questi giorni stiamo scrivendo un nuovo capitolo. Il capitolo dell’intifada dell’unità che perseguirà un solo e unico scopo: il ritorno dell’unità della società palestinese in tutte le sue peculiarità e in tutti i suoi campi. Il ritorno per unire le aspirazioni politiche e le lotte per far fronte al sionismo in tutta la Palestina» (Giampaolo 2021).
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] I bambini in fotografia, come racconta la fotografa americana Ricky Rosen, sono in realtà entrambi israeliani ed è stata commissionata dal direttore della rivista canadese Maclean. Si veda: https://www.huffingtonpost.it/2014/12/08/foto-bambini-israeliani-fake-_n_6288684.html (al 16/02/2022).
Riferimenti bibliografici
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Mattia Giampaolo, laureato magistrale in Lingue e civiltà orientali con una tesi in Storia Contemporanea dei Paesi arabi con focus sui partiti politici egiziani nella rivoluzione 2011-12, dal 2017 collabora con il CeSPI (Centro Studi di Politica Internazionale) all’interno dell’osservatorio Medio Oriente e Mediterraneo. Si occupa di Libia, Egitto, Tunisia e Palestina. È dottorando in Studi Politici presso il Dipartimento di Scienze Politiche all’università di Roma La Sapienza con una ricerca sugli Accordi di Oslo in chiave gramsciana.
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