di Giuseppe Bea, Franco Pittau, Silvano Ridolfi e Edith Pichler [*]
La specificità della Germania
La Germania è diventata il principale sbocco dell’emigrazione italiana, prima di massa e, da ultimo, anche di quella qualificata. Dagli anni della Seconda guerra mondiale ad oggi non vi sono stati altri Paesi al mondo nei quali si siano spostati così tanti italiani: si è di fronte al caso di una “grande emigrazione”, paragonabile a quella transoceanica verificatasi alla fine dell’Ottocento.
La presenza italiana in Germania, pur iniziata in precedenza, diventò rilevante sotto l’aspetto quantitativo tra la fine del XIX secolo e l’inizio di quello successivo e conobbe una particolare intensità nel periodo tra le due guerre mondiali, quando tra il regime nazista e quello fascista intervennero specifici accordi per l’impiego di uomini e donne della penisola da inserire nei settori tedeschi dell’industria e dell’agricoltura, con la doverosa precisazione che l’arruolamento divenne precettazione negli ultimi anni del conflitto. Ebbe un carattere forzato anche la custodia in campi di concentramento del Terzo Reich di centinaia di migliaia di militari italiani dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, così come fu attuata la deportazione degli ebrei italiani nei campi di sterminio dal 1939 in poi, in applicazione delle leggi razziali approvate in Italia nell’anno precedente.
Nel periodo successivo al Secondo conflitto mondiale la mobilità degli italiani verso la Germania si rivela di maggiore interesse, non solo perché si è trattato di flussi temporalmente a noi più vicini, ma anche perché gli stessi sono privi degli aspetti tragici del periodo precedente e statisticamente molto consistenti. Questi settanta anni, che dall’immediato dopoguerra conducono fino ai nostri giorni, sono molto differenziati a seconda dei periodi.
Sotto l’aspetto quantitativo, i flussi verso questo Paese presentano – come abbiamo detto – una certa analogia con un’altra grande meta dell’emigrazione italiana, e cioè con gli Stati Uniti. L’esperienza statunitense conobbe l’apice nel trentennio tra il XIX e il XX secolo, mentre in quella tedesca una particolare intensità dei flussi si ebbe sia a ridosso della Seconda guerra mondiale, sia nel corso della ricostruzione postbellica [1]. Sotto l’aspetto quantitativo, in particolare con riferimento alla concentrazione di una rilevante quota dei flussi migratori italiani in un ristretto periodo di tempo e in una determinata direzione, si riscontrano delle analogie della Germania con l’Argentina e il Brasile (tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e con la Svizzera nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale) [2].
I flussi verso la Germania sono perdurati nel tempo e tuttora persistono e, come accennato, fanno della Germania la prima meta degli emigrati italiani. Naturalmente, il confronto della Germania con altri Paesi è segnato anche da profonde differenze. Ad esempio, anche se nell’esperienza statunitense e in quella tedesca si trattò inizialmente di protagonisti con bassa istruzione e formazione professionale, le prime generazioni di italiani in America insistettero molto sulla formazione dei propri figli, mentre in Germania, per diverse ragioni, ciò non avvenne in misura adeguata e tempestiva, per cui le esigenze di un proficuo e generalizzato inserimento ancora oggi risultano in parte da soddisfare. Tuttavia, rispetto all’esperienza statunitense sembrano presentarsi in Germania prospettive molto innovative, sulle quali ci si sofferma in questo saggio.
Mentre l’esperienza tedesca presenta diversi aspetti di contatto con quella svizzera (specialmente per la temporaneità dell’impiego degli italiani nei primi decenni del dopoguerra), queste convergenze (a parte gli aspetti quantitativi) si attenuano nei confronti dell’Argentina e del Brasile, dove la prima emigrazione fu quella dei coloni e, quindi, di insediamento immediatamente stabile, mentre in Germania invece, dopo una lunga insistenza sulla temporaneità della presenza straniera, il nuovo concetto d’integrazione, cui si ispira la politica tedesca a seguito di rilevanti modifiche legislative, ha delle analogie con quello realizzato nei due Paesi latino-americani, dove la presenza degli emigrati europei (e in particolare italiani) ebbe una sorta di “ruolo “fondante” nella loro formazione come nazioni moderne.
Nei flussi verso la Germania la componente maschile fu nettamente predominante, ma non esclusiva. Lisa Mazza, nel suo volume Donne mobili. L’emigrazione femminile italiana in Germania (2012) parla delle “fornaciaie” friulane, delle attrici del muto, delle contadine padane, delle operaie del Sud e, da ultimo, delle donne con una formazione accademica andate a lavorare in terra tedesca. La bibliografia nel passato aveva scarsamente tenuto conto del protagonismo femminile, realizzato sia da mogli e figlie, che si ricongiungevano con gli uomini in precedenza emigrati, sia da donne spostatesi autonomamente per lavorare in Germania.
Tra Stati Uniti e Germania vi sono anche delle analogie che vanno oltre l’essere accomunati come Paesi di arrivo dei flussi di massa che li accreditano attualmente come due tra le più ambite destinazioni dei migranti qualificati. Questa specifica capacità di attrazione è esercitata dalla Germania non solo per effetto della sua vicinanza geografica e delle garanzie offerte dalle normative comunitarie ai cittadini europei che si spostano per lavoro, sia anche in ragione della strategia con cui il governo tedesco attrae i talenti, basandosi sulle opportunità offerte da un sistema economico solido e tecnologicamente avanzato.
In un quadro mondiale globalizzato, dove il primo protagonismo spetta a giganti come gli Stati Uniti e la Cina, la vecchia Europa ancora stenta a consolidare il suo processo d’integrazione interna e di politica internazionale, includendovi stabilmente una concezione meno episodica delle migrazioni. Sembra che la Germania si sia resa conto di questa posta in gioco e che, più di altri Stati membri, sia disponibile a riconsiderare il ruolo positivo della mobilità umana. Questa è una prospettiva di preminente interesse e perciò merita di essere scandagliata, come si cercherà di fare, l’autocoscienza che va maturando nella collettività italo-tedesca per quanto concerne la sua funzione mediatrice tra le proprie origini italiane e il suo recente e stabile inserimento nella RFT dopo la lunga e problematica fase intermedia.
La metodologia qui seguita è consistita nell’attingere alla bibliografia specialistica dedicata all’emigrazione italiana in Germania e nel proporre il quadro storico di riferimento, valutarne il suo svolgimento e formulare, recependo gli stimoli di questo impegno preliminare, qualche commento e qualche ipotesi sul ruolo che potrà svolgere la collettività italiana in Germania. Gli autori hanno avuto inizialmente un’esperienza simile come operatori sociali o pastorali in Germania e ciò ha indubbiamente influenzato l’ottica di questo breve saggio. Per questo si è preferito affidare le conclusioni a un’apprezzata studiosa dell’emigrazione italiana in Germania, che ha completato il prevalente interesse dedicato a quelli già inseriti in quel Paese con il futuro che potrà riguardare quelli che vi sono giunti da poco o continuano a giungervi.
Anche in questo caso, come del resto nella lunga storia dell’emigrazione dall’Italia unitaria ad oggi, il percorso di questi protagonisti della mobilità appare travagliato, carico di sofferenze, talvolta addirittura tragico ma, alla fine, molto promettente. L’auspicio è che questa visione trovi nel tempo la conferma.
Le tre fasi migratorie della prima metà del Novecento
Qui si tralascia di riferire sulle migrazioni degli italiani in Germania prima delle migrazioni di massa, quando furono protagonisti mercanti, banchieri, artisti, musicisti e artigiani. Va comunque evidenziato che, dopo la Riforma protestante, l’interessamento della Chiesa cattolica a chi si spostava era dettato dalla preoccupazione di tenere i propri fedeli lontano dalle insidie degli eretici. Papa Clemente VIII, con una bolla del 1596 indirizzata ai cattolici che risiedevano nelle zone abitate in prevalenza dai protestanti, li invitò a trasferirsi nelle città a maggioranza cattolica. Quindi papa Gregorio XV, in una enciclica del 1622 promulgata contro gli eretici, chiese agli inquisitori di indagare su chi era andato a vivere in città dove prevalevano i protestanti, come era il caso di Francoforte e Norimberga. A Magonza, ad esempio, nel XVII e XVIII secolo, vi era una consistente presenza italiana, costituitasi naturalmente molto tempo prima. Si vedrà in seguito che la pastorale cattolica, incrementata specialmente dopo la seconda guerra mondiale con l’istituzione di numerose Missioni cattoliche italiane in Germania, assumerà un’impostazione più globale perché riuscirà a unire all’assistenza spirituale, un’intensa attività di promozione umana.
L’emigrazione a carattere popolare si sviluppò, però, solo dopo l’Unità d’Italia e riguardò, oltre ad alcuni Paesi confinanti come la Francia e la Svizzera, anche la Germania, seppure in misura contenuta [3]. L’elevato sviluppo della Prussia, con le conseguenti opportunità lavorative, non poteva non attirare l’attenzione di un certo numero di italiani. Il traforo del San Gottardo (1882) aveva da tempo favorito il trasferimento a Friburgo in Brisgovia, una meta gradita non solo perché questa città era a maggioranza cattolica, ma anche perché era un agevole punto d’accesso alle altre città tedesche. Secondo il censimento professionale tedesco, condotto nel 1907, in quell’anno vi erano in Germania 150 mila italiani, di cui circa 18 mila erano donne. Le regioni italiane di provenienza erano in prevalenza centro-settentrionali. Le donne coinvolte nei flussi erano molto attive nel settore tessile e anche in altri comparti, come evidenziato dalla citata Lisa Mazzi nella sua ricerca Donne mobili, che presenta la storia dell’emigrazione italiana in Germania in chiave non unicamente al maschile.
Negli anni ’20 del XX secolo, per la durata di almeno un decennio, si trasferirono a Berlino registi, dive e “fusti” del cinema muto italiano, tra l’altro senza incontrare difficoltà burocratiche di sorta perché il loro arrivo era incoraggiato: questi operatori dello spettacolo non avevano bisogno di sforzarsi per apprendere la lingua essendo impegnati nel cinema muto. Fu quello, ante litteram, un flusso di lavoratori specializzati, destinato a ripetersi negli anni 2000 ma in altri ambiti professionali.
In quel periodo la cinematografia tedesca, grazie ai mezzi messi a disposizione e all’originalità della sua ispirazione, era l’unica in Europa in grado di competere con quella americana. Alla Kurfurstendamm berlinese, una sorta di Via Veneto del secondo dopoguerra, era usuale sentire parlare il romanesco, il genovese o il napoletano, come del resto altre lingue di diversi Paesi europei. Le attrici italiane furono apprezzate dal pubblico tedesco e alcune riuscirono anche a fondare proprie case di produzione cinematografica e a operare in alcuni casi con un certo successo. Dalla documentazione pubblicata dalla Mazzi risulta, però, che la soddisfazione professionale non trovava un corrispettivo equivalente nel sistema alimentare locale e restava il rimpianto per i gustosi cibi italiani.
Gli accordi bilaterali sull’occupazione degli anni ’30 [4]
Dal 1938 al 1943, e in parte anche nell’anno successivo, migliaia d’italiani e d’italiane andarono a lavorare come braccianti in Germania. Il regime nazista era interessato a raggiungere l’autarchia alimentare, ponendo fine alle carenze emerse nel periodo della Repubblica di Weimar: si rimediava, così, alla fuga dei tedeschi dal mondo rurale con l’arrivo di lavoratori dall’estero. Fu il grande sviluppo dell’industria degli armamenti, che risucchiò un gran numero di lavoratori agricoli, a evidenziare l’urgenza di ricorrere alla manodopera straniera. Questa esigenza aiuta a capire perché nel 1938 le autorità tedesche decisero di pensare all’inserimento anche di donne italiane, le quali anche nel passato avevano svolto un ruolo importante nell’agricoltura tedesca.
Il 1°ottobre 1936 il Terzo Reich e il Regno d’Italia firmarono un accordo, che Mussolini, in occasione di un suo discorso tenuto a Milano, definì “l’Asse Roma-Berlino”. L’accordo, che entrava nel merito degli aspetti politici, economici e culturali riguardanti la collaborazione tra i due Paesi, consentì, in particolare, di compensare, da una parte, la mancanza di manodopera in Germania sia nell’industria che nell’agricoltura (questa carenza doveva essere assolutamente colmata, anche perché da tempo si prevedeva l’avvio di una guerra espansionista); d’altra parte l’accordo consentiva di attenuare l’eccesso di forza lavoro tradizionalmente riscontrabile in Italia, disfunzione cui l’inserimento nelle colonie italiane in Africa poteva rimediare solo in parte.
L’accordo del 1938 non nacque all’improvviso e fu preceduto da alcune intese. Nel 1936 i due Paesi si accordarono per lo scambio di un contingente di braccianti altoatesini, scelti per primi in quanto già in possesso della conoscenza della lingua tedesca, e l’inserimento, in una fase successiva, anche di braccanti originari di altre regioni. Un altro protocollo del 14 maggio 1937, questa volta segreto, riguardò la messa a disposizione, da parte italiana, di manodopera per l’industria e l’agricoltura. L’Italia fece valere come condizioni la non obbligatorietà della conoscenza della lingua tedesca e la necessità di dare attuazione immediata all’accordo stesso. La Germania, invece, si riservò l’ultima parola sulla scelta delle persone da assumere (e, in effetti, diversi candidati furono scartati per motivi sanitari) e stabilì che il trasferimento avvenisse in gruppi in cui ci fosse un interprete (spesso una donna). Così come si volle che i capigruppo fossero iscritti al Partito Nazionale Fascista e che le donne fossero percentualmente ben rappresentate e incluse non solo come cuoche ma anche nei gruppi in partenza come lavoratrici nei campi, nel contingente annuale di lavoratori stagionali ufficialmente fissati ora di 30 mila persone, ma segretamente fu portato fino a 50 mila. La durata della stagione sarebbe stata di nove mesi, con possibilità di inviare a casa parte del salario, che doveva essere uguale a quello corrisposto ai tedeschi impiegati per lo svolgimento delle stesse mansioni. Era anche previsto che il governo nazista si adoperasse per promuovere un’immagine più accettabile del lavoratore italiano, che nell’immaginario collettivo dei tedeschi era considerato un poveraccio e spesso anche un imbroglione.
Nel 1938 le autorità italiane iniziarono a pubblicizzare diversi aspetti dell’accordo e diedero il via libera alla partenza dei primi gruppi di lavoratori. Ai candidati all’espatrio era dedicata la Piccola guida del lavoratore agricolo italiano in Germania, pubblicata nel 1939 dalla Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura. I flussi che si determinarono non furono di lieve entità: alla fine del febbraio 1943 si trovavano in Germania moltissimi braccianti italiani, per un quarto donne. Dopo la caduta del governo fascista e la nascita della Repubblica Sociale italiana, l’accordo bilaterale del 1938 fu completato con una normativa specifica da parte italiana, che dispose la precettazione dei lavoratori da inviare in Germania (decreto legge 24 maggio 1940). Questa normativa conobbe un’applicazione massiccia a partire dal mese di febbraio del 1942 e continuò a essere applicato sia anche nel 1943 e nel 1944, tramite un continuo rastrellamento di lavoratori nell’Italia settentrionale. Per sostenere gli sforzi del Reich Mussolini arrivò a precettare anche le classi del 1920/21 e addirittura quella del 1926. Ancora nel 1944 furono 74.231 gli italiani e le italiane che, sempre meno volontariamente, lasciarono l’Italia per andare a lavorare in Germania. Solo tardivamente, con gli accordi di Bellagio nell’ottobre 1944, Mussolini cercò di attenuare il rigore delle precettazioni, escludendo le forme di coercizione e limitandosi a tenere conto solo dei casi di domanda volontaria di trasferimento in Germania.
La condizione degli italiani recatisi a lavorare in Germania si fece molto delicata dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, firmato dall’Italia con le Forze Alleate, che in sostanza trasformò l’Italia in un Paese nemico della Germania. La collettività italiana, nel periodo della sua abbastanza celere affermazione in Germania, non era rilevante.
Uno straordinario esempio di integrazione: il teologo Romano Guardini
Trattando la presenza italiana in Germania nella prima parte del Novecento non si può fare a meno di citare Romano Guardini (1885-1968). Egli fu protagonista della massima importanza per la società e la Chiesa cattolica tedesca, un ambiente nel quale si poté formare senza penuria di mezzi. Il suo fu un esempio di emigrazione d’élite, che ne facilitò l’affermazione, dovuta però principalmente alle sue qualità e al suo impegno personale. L’eccezionale risalto da lui avuto anticipa, dopo la problematica integrazione degli italiani nell’immediato dopoguerra, i casi di affermazione di diversi esponenti della collettività italiana negli anni ‘2000, seppure non ancora realizzati a livelli così eccelsi. Il ruolo di Guardini fu di primaria importanza nel mondo accademico e a livello teologico e filosofico e, nel mondo pastorale, si segnalò sul piano liturgico e formativo, conseguendo un’ampia notorietà durante la sua vita e anche un rinnovato apprezzamento ancora oggi [5] .
Guardini, nato a Brescia nella famiglia di un agiato commerciante, si trasferì da piccolo a Magonza, tradizionale sede di una collettività italiana. Seguì l’iter formativo nel sistema tedesco senza trascurare la lingua italiana, parlata in famiglia, e senza perdere il legame con la sua terra d’origine, dove ritornava di frequente. Sotto l’influenza del padre maturò un particolare interesse per Dante Alighieri, la cui grandezza analizzò anche in alcune sue opere [6]. Egli ricoprì un ruolo eminente nella formazione del mondo giovanile cattolico e, tuttavia, inizialmente non dimostrò spiccate attitudini relazionali e, anzi, il suo saggio Il ritratto della malinconia induce a pensare che egli stesso soffrisse di qualche difficoltà. Da giovane egli impiegò non poco tempo prima di individuare la branca di studi universitari a lui più congeniale, poi individuata come una via di mezzo tra la filosofia e la teologia con una forte accentuazione della spiritualità: ciò lo portò anche a seguire la vocazione sacerdotale.
Divenne sacerdote e docente di Weltanschauung cattolica all’Università di Berlino, non senza incontrare difficoltà in quell’ambiente tipicamente protestante [7]. Prima e durante il periodo nazista fu un apprezzato formatore della gioventù cattolica tedesca e si avvalse come perno del suo impegno del Castello di Rochentes, dove aveva sede il movimento giovanile Quickborn. Del tutto avverso all’ideologia del regime nazista, da questo fu continuamente spiato e avversato: il citato movimento venne ben presto soppresso, mentre l’attività presso il Castello continuò dalla chiusura imposta dal regime nel 1939 all’inizio della guerra. Non va poi dimenticato che Guardini fu prematuramente pensionato dall’insegnamento a Berlino perché i nazisti avevano notato e non gradito il suo forte influsso sui giovani per i quali aveva coniato il motto: “Gioventù. Libertà. Gioia”.
La sua posizione politica, mediana tra i socialisti e i conservatori, fu lontana dall’assolutismo e imperniata sulla democrazia: questo spiega perché, nel 1945, alla caduta del regime, Guardini pubblicò il volume La Rosa Bianca (successivamente edito nella traduzione italiana dalla Morcelliana) per coltivare il ricordo di un piccolo gruppo di studenti (cattolici, protestanti e con essi anche un ortodosso) presso l’Università di Monaco, i quali avversi al nazionalsocialismo e, ispirandosi nella loro azione ai principi del Quickborn, diffusero degli opuscoli contro il regime ma, scoperti e catturati dalla Gestapo, furono condannati a morte.
Il Guardini scrisse anche un saggio dedicato alla Weltanschauung cristiana dell’Europa, anch’essa in contrasto con i totalitarismi del Novecento. Nel dopoguerra fu nominato esperto del Concilio Vaticano II (1962-1965) per il settore liturgico. Fu anche prescelto da papa Paolo VI per la porpora cardinalizia (che rifiutò). Guardini è stato il teologo di riferimento per papa Ratzinger ed è stato molto apprezzato anche da papa Bergoglio [8]. Per la vastità e la qualità dei suoi saggi da alcuni suoi biografi è stato indicato come “Padre della Chiesa del XX secolo”. La sua produzione accademica, pienamente immersa nel contesto tedesco, non fu priva di legami con l’italianità, evidenziata dalle sue opere dedicate a Dante e anche dal suo periodico soggiorno a Isola Vicentina, nella villa ottocentesca acquistata dalla famiglia. Escluso il periodo bellico, quando il fabbricato fu requisito dai soldati tedeschi, qui, confortato dalla comodità della villa e del suo giardino, ritornò regolarmente una o due volte l’anno per elaborare i suoi saggi, destinati regolarmente, a diventare altrettante pubblicazioni.
Nella sua ampia produzione non vi sono titoli dedicati all’emigrazione italiana. Ciò avvenne sia perché, come si è detto, essa allora era di ridotte dimensioni, sia perché egli non era un esperto in scienze sociali. La presenza italiana divenne straordinaria solo a partire dal 1956, anno dell’entrata in vigore dell’accordo sul reclutamento della manodopera italiana, ma al tempo Guardini era ormai anziano. Sarebbe stato indubbiamente di grande interesse se questo italiano illustre, avvalendosi delle sue capacità e della sua esperienza personale, dopo aver vissuto la drammatica vicenda del conflitto mondiale e le storture del nazionalsocialismo, avesse elaborato anche una sua Weltanschauung sullo straniero dal punto di vista filosofico e teologico, come aveva fatto magistralmente, all’inizio del secolo, Georg Simmel a livello sociologico.
Guardini, comunque, a modo suo fu un esempio di “italianità” perché, nonostante il suo straordinario successo in Germania, non dimenticò le sue origini territoriali: sotto tale aspetto può essere considerato un antesignano della possibilità di unire, nella esperienza esistenziale come migranti, il riferimento al Paese di accoglienza e quello al Paese di origine. Questa prospettiva di feconde interazioni culturali riguarda, ovviamente, anche i luoghi in cui egli visse in Italia da adulto. In effetti, il paese di Isola Vicentina non ha uno studioso così illustre che tante volte ospitò con sua grande soddisfazione. A tenere vivo il suo ricordo il locale Centro studi a lui dedicato da ultimo (agosto 2020), in collaborazione con un’associazione tedesca di Moshausen, una località dove parimenti aveva vissuto, ha voluto celebrare Guardini come uomo del dialogo, europeo e cristiano, organizzando un percorso sulle sue tracce (anche con esposizione dei suoi oggetti personali). Come linea guida dell’iniziativa, è stata posta una frase dello scomparso che unisce il suo tempo passato in Italia con quello vissuto in Germania: «Esisto io, che vengo qui per la mia strada, e la mia vita com’è stata finora, e porto in me il retaggio del passato che m’ha preceduto» [9].
Questa frase allude a inedite ibridazioni e riconduce agli immigrati italiani arrivati di seguito in Germania che, seppure da umili lavoratori e immersi in percorsi problematici, sono stati chiamati a perseguire un inserimento positivo nel Paese che li ha accolti. In considerazione di tali interconnessioni, in occasione del 60° anniversario della Missione cattolica italiana di Magonza nell’ambito dei missionari non mancò un articolo che fece riferimento alla figura e all’insegnamento di Romano Guardini [10].
Le migrazioni italiane in Germania durante la Seconda guerra mondiale [11]
È stato giustamente posto in evidenza che, nei pochi anni antecedenti lo scoppio della Seconda guerra mondiale e durante tutti gli anni del conflitto (1939-1945), un’imponente massa di lavoratori italiani dovette lavorare in Germania per sostenerne lo sforzo bellico, sia militari (per lo più) che civili (anche questi da ultimo inseriti in maniera coatta), con condizioni di trattamento differenziate a seconda della categoria di appartenenza. A lavorare in Germania furono sia i militari che i civili, ai quali era riservato un trattamento differenziato anche all’interno della categoria dei militari a seconda che gli interessati accettassero il lavoro o che questo venisse loro imposto. Questi flussi migratori avvennero in un contesto socio-politico del tutto particolare, sul quale conviene soffermarsi.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale gli italiani, che fossero convinti o meno dell’opportunità della guerra (una scarsa propensione a entrare nel conflitto si riscontrava anche, in parte, nelle gerarchie militari e politiche), sentirono il dovere di combattere per la loro patria. La propaganda fascista, anche se inizialmente poteva avere sortito una certa efficacia, insistendo sui miti della grandezza politica e della superiorità razziale degli italiani, vide scemare la sua capacità di presa nel corso delle disastrose operazioni belliche e specialmente dopo che l’ex alleato tedesco attuò una deportazione in massa di militari e civili italiani. Finita la guerra, fu tutt’altro che agevole il rimpatrio degli italiani, anche perché l’Italia, un Paese messo completamente in ginocchio dal conflitto, aveva scarsi mezzi a disposizione per provvedere a un’ulteriore massa di persone in aggiunta a quelle già presenti sul suo territorio.
Dopo la ricerca e di Gerhard Schreiber, pubblicata in Italia dallo Stato Maggiore dell’Esercito, furono, diversi gli approfondimenti condotti sui militari internati in Germania. Si possono citare le opere di Alessandro Natta (Einaudi 1996), di Mario Avagliano (Einaudi 2009, il Mulino 2020) e di Ugo Gabriele Hammermann (il Mulino 2004). Ancor più numerose sono state le pubblicazioni di diari e testimonianze. Non sono, poi, mancati gli approfondimenti riguardanti i cappellani impegnati nei campi [12]. I soldati italiani, catturati dopo l’armistizio del 1943 e rifiutatisi di continuare a combattere contro gli alleati, furono tradotti in Germania per farli lavorare. Essi erano divisi in due categorie. La prima categoria riguardava i soldati custoditi come prigionieri di guerra, con le garanzie offerte dalla convenzione di Ginevra. Furono considerati tali quelli che accettarono di lavorare per il Reich. La seconda categoria era quella degli IMI (militari internati Italiani). Questi erano custoditi in appositi campi, senza le garanzie dei prigionieri di guerra, erano trattati peggio perché non avevano accettato di lavorare e, pertanto, costretti al lavoro forzato.
Tra i soldati catturati, ad accettare di lavorare senza esservi costretti, furono secondo stime tra il 10% e il 20% dei militari catturati: in particolare, 62 mila italiani furono inquadrati nelle fila dell’esercito tedesco, o della Repubblica Sociale italiana (RSI). Va segnalato che i militari italiani, nel trasferimento dalla Grecia e dalle isole del Mar Egeo nel continente, per poi continuare verso la Germania, andavano incontro a gravi rischi. Le vecchie navi requisite dai militari tedeschi (italiane, greche, francesi, spagnole, norvegesi), erano di solito antiquate, di stazza ridotta, lente, prive di dotazioni di sicurezza in caso di naufragio. Che essi fossero destinati ai campi di prigionia o di internamento poco importava; essi, ammassati nelle stive (tra l’altro chiuse a chiave). non avevano una via di campo in caso di naufragio. Le carrette del mare utilizzate dai tedeschi furono facile preda dei bombardamenti aerei e dei siluri da parte delle forze anglo-americane, quando non delle stesse burrasche (come nel caso del piroscafo Oria). Si stima che, durante queste traversate, persero la vita ben 13 mila soldati italiani [13].
La triste sorte degli internati [14]
I soldati catturati, che non acconsentirono a lavorare per il Reich, furono parimenti deportati in Germania (Internati Militari italiani, IMI), ma, per decisione arbitraria dello stesso Hitler, non fu loro riconosciuto lo status di prigionieri militari, con il rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione di Ginevra e con l’assistenza della Croce Rossa Internazionale, bensì segregati come internati in particolari campi di concentramento e costretti ai lavori forzati. Le loro condizioni di trattamento estremamente gravose e per questo, da alcuni autori, indicati come “schiavi immigrati”. Si stima che tra di essi furono ben 60 mila, quelli che morirono a causa delle condizioni subumane che caratterizzavano i campi d’internamento. Questo trattamento disumano fu praticato per garantire il sostegno al sistema produttivo tedesco riducendo al minimo le spese di sostentamento. Alla sofferenza materiale si aggiungeva un profondo disprezzo nei loro confronti da parte dei custodi, perché essi furono ritenuti colpevoli di tradimento e insieme al loro Paese indicati anche come “Badoglio Truppen”. Servì a richiamare l’attenzione sulla loro triste vicenda la ricerca di Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945: traditi, disprezzati, dimenticati, pubblicato in Germania nel 1990 e tradotto in Italia, dall’Ufficio Storico dell’Esercito, nel 1997.
I lavoratori “liberi” soggetti alla precettazione
Come prima accennato, questa categoria di lavoratori (Fremdarbeiter) era presente in Germania già prima dello scoppio della guerra. La prospettiva di lavoro in questo Paese era presa in considerazione da un certo numero d’italiani per gli aspetti vantaggiosi riguardanti la retribuzione, la sistemazione sul posto e le condizioni di lavoro: Non erano neppure trascurabili i rapporti più stretti che era possibile stabilire, specialmente in ambito rurale, dove s’inserì circa un terzo di tutta la forza lavoro straniera. In seguito fu pregiudicata la loro posizione di lavoratori liberi perché durante le operazioni belliche, come anticipato, il loro arruolamento divenne coatto. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il loro trattamento andò peggiorando, innanzi tutto perché l’Italia non era più un Paese alleato (che in precedenza fu motivo per un certo riguardo), e perché le condizioni economiche della Germania risentivano dello sforzo bellico e, infine, perché continuavano a influire i pregiudizi ideologici ed etnici.
Sul numero degli appartenenti alle diverse categorie di lavoratori liberi e dei soldati (sia prigionieri che internati) vale la statistica proposta da Nicola Cabramele, dopo il vaglio della bibliografia specifica prodotta al riguardo:
«Ai lavoratori rimasti nel Reich dopo l’8 settembre e ai circa 650.000 Internati Militari Italiani (IMI), si devono aggiungere gli 82.517 (secondo altre fonti 88.644) civili rastrellati o assunti, rispettando più o meno la volontà degli interessati, e gli italiani residenti nei territori dell’Europa occidentale – Francia, Belgio e Lussemburgo – caduti sotto la forca del Reich. Tra gli 82.517 lavoratori coatti che furono rastrellati e trasferiti involontariamente dall’Italia alla Germania tra l’ottobre 1943 e il 15 gennaio 1945 se ne contano 39.080 che decisero ‘spontaneamente’».
ITALIA Espatriati in Germania nel periodo1946-2018 e & sul totale espatri
Anno |
Totale espatri |
Germania |
Germania |
Anno |
Totale espatri |
Germania |
Germania |
|
|
v.a. |
% |
|
|
v.a. |
% |
1946 |
110.286 |
- |
- |
1984 |
77.318 |
27.609 |
35,7 |
1947 |
254.144 |
- |
- |
1985 |
66.737 |
21.092 |
31,6 |
1948 |
308.515 |
- |
- |
1986 |
57.862 |
19.793 |
34,2 |
1949 |
254.469 |
- |
- |
1987 |
38.305 |
10.655 |
27,8 |
1950 |
200.306 |
74 |
0,0 |
1988 |
36.660 |
10.341 |
28,2 |
1951 |
293.057 |
431 |
0,1 |
1989 |
59.894 |
25.402 |
42,4 |
1952 |
277.535 |
270 |
0,1 |
1990 |
48.916 |
14.986 |
30,6 |
1953 |
224.671 |
242 |
0,1 |
1991 |
51.478 |
15.466 |
30,0 |
1954 |
250.925 |
361 |
0,1 |
1992 |
50.226 |
14.704 |
29,3 |
1955 |
296.826 |
1.200 |
0,4 |
1993 |
54.980 |
16.597 |
30,2 |
1956 |
344.802 |
10.907 |
3,2 |
1994 |
59.402 |
20.807 |
35,0 |
1957 |
341.733 |
7.653 |
2,2 |
1995 |
34.886 |
9.857 |
28,3 |
1958 |
255.459 |
10.511 |
4,1 |
1996 |
39.017 |
10.142 |
26,0 |
1959 |
268.490 |
28.394 |
10,6 |
1997 |
38.984 |
8.655 |
22,2 |
1960 |
383.908 |
100.544 |
26,2 |
1998 |
38.148 |
8.562 |
22,4 |
1961 |
387.123 |
114.012 |
29,5 |
1999 |
56.283 |
12.689 |
22,5 |
1962 |
365.611 |
117.427 |
32,1 |
Subtotale |
1.525.975 |
488.295 |
32,0 |
1963 |
277.611 |
81.261 |
29,3 |
2000 |
47.480 |
10.639 |
22,4 |
1964 |
258.482 |
75.210 |
29,1 |
2001 |
46.901 |
10.518 |
22,4 |
1965 |
282.643 |
90.853 |
32,1 |
2002 |
34.056 |
6.848 |
20,1 |
1966 |
296.494 |
78.343 |
26,4 |
2003 |
39.866 |
9.191 |
23,1 |
1967 |
229.264 |
47.178 |
20,6 |
2004 |
39.155 |
10.768 |
27,5 |
1968 |
215.713 |
51.152 |
23,7 |
2005 |
41.991 |
10.927 |
26,0 |
1969 |
182.199 |
47.563 |
26,1 |
2006 |
46.308 |
11.464 |
24,8 |
1970 |
151.854 |
42.849 |
28,2 |
2007 |
36.299 |
5.939 |
16,4 |
1971 |
167.721 |
54.141 |
32,3 |
2008 |
39.536 |
6.185 |
15,6 |
1972 |
141.852 |
43.891 |
30,9 |
2009 |
39.024 |
6.281 |
16,1 |
1973 |
123.802 |
41.386 |
33,1973(33,4 |
2010 |
39.545 |
4.803 |
12,1 |
1974 |
112.020 |
33.485 |
29,9 |
2011 |
50.057 |
6.880 |
13,7 |
1975 |
92.666 |
28.233 |
30,5 |
2012 |
67.998 |
10.352 |
15,2 |
Subtotale |
7.350.181 |
1.107.571 |
15,1 |
2013 |
82.095 |
11.441 |
13,9 |
1976 |
97.247 |
30.260 |
31,1 |
2014 |
88.859 |
14.440 |
16,3 |
1977 |
87.655 |
27.995 |
31,9 |
2015 |
102.229 |
15.000 |
13,6 |
1978 |
85.550 |
26.923 |
31,5 |
2016 |
114512 |
15.000 |
13,6 |
1979 |
88.950 |
30.965 |
34,8 |
2017 |
114539 |
15.000 |
13,6 |
1980 |
84.877 |
29.756 |
35,1 |
2018 |
116.732 |
18.000 |
15,4 |
1981 |
89.221 |
31.078 |
34,8 |
Subtotale |
1.179.170 |
196.676 |
16,7 |
1982 |
98.241 |
34.437 |
35,1 |
|
|
|
|
1983 |
85.138 |
29.524 |
34,7 |
TOTALE |
10.055.326
|
1.792.542 |
17,8 |
FONTE: Centro Studi e Ricerche IDOS Elaborazioni su dati ISTAT
L’emigrazione in Germania dopo la seconda guerra mondiale
Nel secondo dopoguerra i primi italiani che lavorarono Germania arrivarono dalla zona di occupazione francese, nella Foresta Nera (Baden–Wurttemberg) e dal territorio della Saar. Essi trovarono un inserimento sia come taglialegna che come lavoratori nelle industrie del carbone e dell’acciaio. Negli anni Cinquanta fu cruciale l’accordo bilaterale del 1956 per l’occupazione della manodopera italiana nella Repubblica. Federale Tedesca, sottoscritto l’anno precedente. L’accordo fu firmato il 20 dicembre 1955, dopo quasi due anni di trattative, e fu l’ultimo sottoscritto dall’Italia dopo quelli riguardanti il Belgio, la Francia, la Svizzera, il Regno Unito e la Cecoslovacchia [15].
Nonostante l’entrata in vigore dell’accordo, gli espatri verso la Germania furono molto contenuti nei primi anni tre anni. Invece nel 1959 le partenze dall’Italia furono 28.390, pari a un decimo di tutti gli espatriati. La RFT andò, così, affiancandosi alle tradizionali mete europee dell’emigrazione italiana (Francia, Svizzera e Belgio), per poi diventare quella più importante. L’accordo regolò diversi aspetti della questione: le quote dei lavoratori da inviare, le professioni di pertinenza, l’accoglienza e l’alloggio, la garanzia del trattamento paritario con i lavoratori autoctoni e le possibilità per i lavoratori di trasmettere i loro risparmi in Italia. (aspetto di fondamentale importanza per l’Italia), Per andare a lavorare in Germania il lavoratore doveva stipulare un contratto della durata di due anni e, alla sua scadenza, doveva ritornare in Italia per sottoscrivere un altro contratto, mentre era esclusa la possibilità di rinnovo sul territorio tedesco. Un’altra rigidità consisteva nella mancata flessibilità per il passaggio da un settore lavorativo all’altro. I controlli medici in Italia erano eseguiti prima della partenza da medici tedeschi, mentre quando si rimpatriava non erano previsti controlli per accertare se gli italiani avessero contratto delle malattie in Germania.
Dall’Italia iniziarono a partire treni speciali con centinaia di lavoratori, che andavano a lavorare nella Baviera, nel Baden Wurttemberg, nel Nordrhein-Westfalen e in altri Land. Per la gestione dell’accordo fu istituita a Verona una Commissione ad hoc [16]. Si pervenne a questa intesa perché la Germania aveva bisogno di lavoratori generici per far ravviare a pieno ritmo la produzione in serie della grande industria e soddisfare così i crescenti consumi di massa. Fu considerata una grande opportunità quella di poter ricorrere alla massa di italiani disoccupati e a bassa qualifica, da inserire specialmente nel settore automobilistico e in quello farmaceutico. I flussi migratori dall’Italia verso la RFT furono ulteriormente favoriti dalla firma avvenuta pochi anni dopo il Trattato di Roma (25 marzo 1957), istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE), che diede l’avvio man mano alla libera circolazione sul territorio comunitario dei lavoratori originari dei Paesi aderenti alla CEE [17] .
Col tempo la normativa comunitaria permise agli italiani di recarsi liberamente in Germania per ricercare un lavoro senza la necessità di acquisire previamente un’autorizzazione e sottoscrivere un contratto. Pertanto, dopo alcuni anni la gestione dell’accordo bilaterale del 1955 fu resa più flessibile e gli italiani poterono recarsi in Germania con un semplice visto turistico, senza ricorrere all’intermediazione della Commissione di Verona: una volta arrivati sul posto, essi potevano cercare un datore di lavoro, firmare un contratto e ottenere il permesso di soggiorno. Si attivarono così le cosiddette catene migratorie, basate sulle chiamate fatte da parenti o amici già stabiliti sul posto.
Nonostante la politica di rotazione voluta dalle autorità tedesche, gli emigrati italiani dovevano rimanere sul posto per tutta la durata del contratto e, ovviamente, presentavano necessità sia religiose che sociali. I vescovi tedeschi e quelli italiani, per sostenerli durante la loro permanenza e rispondere alle loro esigenze, si accordarono con tempestività per il coinvolgimento di giovani sacerdoti italiani a loro sostegno. I primi sei missionari nel primo periodo (1951-1954) operarono a Berlino, arrivarono nel 1951 nelle MCI di Amburgo, Berlino, Francoforte sul Meno, Stoccarda, Monaco, Berlino e Saarbrucken. Don Aldo Casadei, della diocesi di Cesena, fu il responsabile della MCI Francoforte e anche il coordinatore dei missionari: gli successe don Silvano Ridolfi, che fu anche direttore del Corriere d’Italia, settimanale che nel 1961 sostituì La Squilla, fondato dieci anni prima. Aumentando il numero degli immigrati, sarebbero aumentati anche i missionari e le missioni, al cui interno nacquero dei Centri italiani dove lavoratori potevano incontrarsi e partecipare ad attività socio-culturali.
Un sostanziale complemento dell’intervento ecclesiale a favore degli emigrati italiani si ebbe quando i vescovi tedeschi assunsero, tramite le Caritas diocesane, un centinaio di giovani assistenti sociali italiani che, operando nelle città e anche in centri più piccoli, svolsero una preziosa opera di mediazione con le istituzioni pubbliche e con le aziende a favore degli italiani.
Gli anni Sessanta si caratterizzarono al loro inizio per eventi di grande portata politica e sociale. Il muro di Berlino fu alzato nel 1961 come demarcazione tra la zona di controllo sovietico della città (dalla quale si continuava a fuggire) e la zona soggetta al controllo anglo-franco-statunitense. Ne conseguì una diffusa agitazione in seno alla collettività, anche per i toni allarmistici delle trasmissioni di Radio Praga, molto ascoltate in Italia dai familiari degli emigrati. Non mancarono gli italiani che iniziarono a licenziarsi per rimpatriare. I missionari invitarono alla calma: “Trionfi la ragione” fu il titolo dell’editoriale del Corriere d’Italia del 5 settembre 1961. Il governo tedesco fu grato ai missionari per questa loro tempestiva funzione rasserenatrice, ribadita autorevolmente dall’arcivescovo di Colonia e presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, card. Josef Frings, che tenne un magistrale discorso in cattedrale alla vigilia del 1° maggio 1964 [18].
Gli anni ’60 furono caratterizzati da flussi intensi, tanto che la Germania dell’Ovest totalizzò un quarto di tutti gli espatri registrati in Italia in quel decennio. Alla fine del decennio si trovavano nel Paese ben 4 milioni di stranieri. Gli italiani costituivano la prima collettività che includeva anche un numero non trascurabile di donne: complessivamente, alla fine del decennio, essi raggiunsero il suo massimo storico, superando le 700 mila unità. Il picco degli espatriati italiani si ebbe nel 1962: furono 117 mila gli italiani, pari al 32% di tutti gli espatriati in quell’anno secondo l’ISTAT.
Le autorità pubbliche tedesche non mancarono di riconoscere pubblicamente il grande apporto assicurato dai lavoratori stranieri allo sviluppo del Paese. Ad esempio, nel 1964, presso la Stazione di Colonia, alla presenza delle autorità locali, si celebrò l’arrivo del milionesimo lavoratore straniero: il casuale protagonista non fu un italiano bensì un portoghese, che ricevette in regalo un motorino. L’apprezzamento delle “braccia da lavoro”, seppure rivolta a tutti i lavoratori, riguardava in particolare gli italiani che erano i più numerosi. Tuttavia in quel periodo non poteva ritenersi soddisfacente la presa in considerazione delle diverse esigenze esistenziali di questi lavoratori: l’impostazione della vita familiare, le tradizioni culturali e le stesse forme di pratica religiosa.
Nel corso della metà degli anni Sessanta l’Italia fece pressione sulla Germania affinché i lavoratori comunitari (di fatto, allora, quasi esclusivamente italiani) fossero assunti con diritto di priorità rispetto agli altri stranieri, ma il governo tedesco ritenne di non dovere accettare la richiesta per non pregiudicare una gestione flessibile del mercato occupazionale; inoltre, da parte tedesca si tenne conto che l’Italia era in ritardo nel mettere a disposizione le quote richieste di manodopera femminile. Ciò avvenne perché nel Meridione (e, in una certa misura, anche in altre aree della penisola) non era ritenuto conveniente per le ragazze recarsi a lavorare all’estero senza l’accompagnamento di un familiare: un comportamento così trasgressivo rispetto alle tradizioni avrebbe reso difficile. se non impossibile, trovare un giovane disposto a sposarle.
Indubbiamente il governo italiano era interessato al flusso delle rimesse, che nel 1966 ammontava a 500 miliardi. E se, di fronte ai ritardi da parte italiana nell’adozione di determinati provvedimenti a favore degli immigrati, i missionari avessero invitato gli italiani a spender i soldi sul posto? L’ipotesi preoccupò non poco il Ministero degli affari esteri, che chiese rassicurazioni al riguardo. Negli anni seguenti, comunque, il flusso dei soldi inviati in Italia era destinato a diminuire non per questa ragione ma a seguito dell’incremento dei ricongiungimenti familiari. Si rese sempre più evidente l’apprezzamento delle giovani italiane, considerate più disponibili agli orari aziendali perché senza impegni familiari, a buon mercato, di grande abilità manuale, e, aspetto tutt’altro che trascurabile nella concezione di una politica migratoria rotatoria, intenzionate, dopo una permanenza breve, a ritornare definitivamente in Italia per sposarsi. Lisa Mazzi, nella sua ricerca, ha sottolineato che le italiane garantirono un beneficio strutturale alle donne tedesche, che così ebbero l’opportunità di lavorare a tempo parziale e a livelli professionali più alti, specialmente in aree ad elevata industrializzazione come il Baden Wuerttemberg e il Nordrhein-Westfalen. Tuttavia, a differenza di quanto fatto per i lavoratori stranieri, il ruolo delle lavoratrici straniere non fu pubblicamente enfatizzato per ragioni ideologiche, e più precisamente, per la volontà di distinguersi dalla Germania comunista (RDT), impegnata nell’enfatizzare il lavoro retribuito delle donne.
I primi anni anni Settanta conobbero un forte incremento delle iniziative sociali iniziate nel decennio precedente. Fu quello un periodo di forte accentuazione dei riferimenti ideologici, cui facevano riferimento le singole strutture associative; tuttavia, ciò spingeva all’emulazione nell’impegno sociale e non impediva una certa unità d’intenti, che trovò la sua massima espressione nella preparazione della celebrazione della Conferenza Nazionale dell’Emigrazione del 1975. Furono anni intensi di riforme e provvedimenti sociali a tutela dei lavoratori stranieri.
Si registrò l’azione di tutela previdenziale, assicurata da strutture, professionalmente specializzate come i Patronati. I primi a insediarsi in Germania furono il Patronato ACLI, in collaborazione con il movimento dei lavoratori tedeschi (Katolische Arbeiter Bewegung) e il patronato INAS della CISL in collaborazione con il sindacato unitario Deutcher Gewerkschaft Bund (INAS-CALI-DGB). Ad essi si sarebbero aggiunti i patronati facenti capo agli altri sindacati e alle associazioni di categoria, dando vita a un’estesa rete territoriale. Si fondarono gli enti di formazione professionale (l’ENAIP delle ACLI, lo IAL della CISL, l’ECAP della CGIL e poi diversi altri), che si adoperarono in questo specifico campo, come anche per il conseguimento del diploma di scuola elementare e media e per il supporto all’apprendimento di lingua tedesca. Si attivò la presenza di associazioni a carattere nazionale (poi sarebbero seguite quelle a dimensione regionale), come ACLI (Associazione Cristiana Lavoratori Italiani), FILEF, UNAIE /Unione Nazionale, Associazioni Immigrati Emigrati), Fernando Santi, ANFE (Associazione Nazionale delle famiglie degli Emigrati) e FAIEG ( Federazione della Associazioni Italiane degli Emigrati in Germania), tra di loro collegate all’interno del Comitato italiano d’intesa, dal quale era escluso il CTIM perché si rifaceva al Movimento Sociale Italiano, partito legato alla tradizione della destra fascista. Si istituirono in loco le sezioni dei grandi partiti italiani che, pur nella loro contrapposizione, valsero a tenere vivo il dibattito sull’emigrazione e sulla sua tutela e su diversi temi maturarono una posizione comune. Si attestò in quegli anni l’operatività partecipata di strutture pubbliche come i Comitati di assistenza sociale (COASIT) e scolastica (COASCIT). Tra l’altro i COASCIT assunsero alle loro dipendenze dei giovani insegnanti italiani per l’insegnamento della lingua e della cultura italiana [19]. La diffusa militanza sindacale, consentì alla collettività italiana di essere in prima linea per il successo di determinate battaglie (come quella per la riduzione dell’orario di lavoro) e per la formazione di dirigenti sindacali ai più alti livelli. Si diffusero molte testate in lingua italiana, tra le quali il Corriere d’Italia (così dal 1963, mentre al momento della sua fondazione, nel 1951, si chiamava La Squilla/ diventato quello più letto e l’unico tuttora pubblicato [20]. Iniziarono le trasmissioni in lingua italiana presso la radio tedesca e si ebbe una incredibile fioritura di squadre di calcio di italiani con relativa organizzazione di tornei [21].
Negli anni Settanta si verificarono radicali cambiamenti. Le gravi conseguenze della crisi petrolifera del 1973 indussero la Repubblica Federale Tedesca a porre fine all’immigrazione assistita (Anwerbstop). In quegli anni, diminuito l’arrivo di nuovi lavoratori dall’Italia, aumentarono invece i ricongiungimenti familiari. Il 1970 fu un anno di 30 mila espatri, che rappresentò l’incidenza percentuale più alta (35%) del decennio sul totale degli espatri. Sulla diminuzione degli espatri influì anche la migliorata situazione occupazionale in Italia, tanto che i rimpatri prevalsero sugli espatri per quanto riguardava sia la Germania che le altre mete. La diminuzione degli inserimenti nel settore del lavoro dipendente e l’esperienza della disoccupazione per molti, che in precedenza avevano lavorato nelle fabbriche, incentivò ulteriormente la propensione degli italiani a rendersi indipendenti con un maggiore protagonismo nel settore della ristorazione (ristoranti e gelaterie), già ampiamente diffusa nel decennio precedente.
L’incidenza di chi si recava in Germania sul totale degli espatri si attestò sul 32% anche negli anni 1960 e 1971, e ancora sul 33,1% nel 1973 (in quell’anno a partire per la RFT furono 41 mila italiani). Secondo l’archivio dell’ISTAT, tra il 1946 e il 1975, il periodo di maggiore esodo, emigrarono in Germania un milione di persone, poco più di un quinto (22,1%) di tutti gli espatriati di quel periodo. Gli anni Settanta furono inizialmente un periodo in cui gli emigrati in Germania prestarono una grande attenzione all’Italia e alla sua politica nei confronti degli espatriati, che culminò nella celebrazione a Roma, nel 1975, della Prima conferenza Nazionale dell’Emigrazione (4 febbraio-1° marzo) [22] . Nella seconda parte di quel decennio iniziò una fase di maggiore attenzione alle esigenze d’inserimento in Germania, che nel corso dei due decenni successivi portò la collettività a concentrarsi sulle prospettive d’integrazione in loco, la cui ineluttabilità era attestata dai figli nati sul posto e ben presto, anche dalle terze generazioni.
Negli anni Ottanta la Germania, che continuava a non considerarsi un Paese di immigrazione e stava conoscendo una situazione economica non così florida come nel passato, diede l’avvio a una politica specifica per incentivare il rimpatrio degli immigrati. Nel 1983 una legge concesse dei benefici economici agli immigrati non comunitari disposti a ritornare in patria. Gli italiani, inseriti nel mercato occupazionale tedesco sulla base della normativa CEE, non erano destinatari di questi incentivi al rimpatrio, e tuttavia molti si rafforzarono nella convinzione circa la temporaneità della loro esperienza tedesca, da far durare fino al raggiungimento del risparmio preventivato. Pur in un quadro quantitativamente meno dinamico, la RFT non cessò di essere la meta prevalente per degli espatriati degli italiani, attirando nel 1982 il 35,1% di quelli che partivano (34.437 in valore assoluto).
Anche negli anni Novanta perdurarono le caratteristiche del decennio precedente: diminuzione dei flussi e perdurante prevalenza della destinazione tedesca, con un picco nel 1994 (incidenza del 35% sul totale degli espatri con 2 mila casi). Nella fase finale del secolo, essendo in corso di superamento da parte dei tedeschi e degli italiani una visione improntata alla provvisorietà, si rafforzò la prospettiva dell’integrazione, supportata anche dal diritto comunitario. La collettività italiana riuscì così a distinguersi positivamente tra i diversi gruppi linguistici e si presentò più preparata ad affrontare il nuovo secolo [23]. Anche per quanto riguarda i tedeschi bisogna riconoscere che gli ultimi due decenni del secolo furono segnati da un processo di maturazione quanto mai fecondo, che nei primi anni del nuovo secolo consentì ai decisori politici di innovare radicalmente la politica migratoria seguita fino ad allora.
Uno sguardo d’insieme su mezzo secolo d’emigrazione sotto l’aspetto statistico
Riprendendo quanto in precedenza esposto, si può dire che gli espatri del dopoguerra verso la Germania si dividono in due fasi nettamente distinte. La prima fase, fino al 1975 circa, fu contrassegnata da una grande intensità dei flussi (1.007.571, pari al 15,1% di tutti gli espatri), tuttavia con una tendenza alla diminuzione ravvisabile già nei primi anni ’70. Nel periodo 1976-1999 espatriarono in Germania quasi un terzo degli italiani che intrapresero la via dell’esodo (32,0%, e 488. 295 persone). Al termine del cinquantennio postbellico i flussi in uscita dall’Italia verso la Germania risultarono molto al di sotto rispetto ai livelli registrati a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, non solo perché la Germania era diventata meno ricettiva di manodopera a bassa qualificazione, ma anche perché l’Italia non aveva più il disperato bisogno di collocare all’estero quote così rilevanti di suoi cittadini disoccupati.
Secondo i dati di fonte tedesca emigrarono in Germania 1.903.237 italiani negli anni Sessanta, 1.166.720 negli anni Settanta, 477.719 negli anni Ottanta, 375.194 negli anni Novanta per un totale di circa 4,5 milioni. Nelle quattro decadi prese in considerazione i ritorni furono negli anni Cinquanta, 1.454.160 (negli anni Sessanta), 1.056.837 (negli anni Settanta), 580.965 (anni Ottanta) e 347.424 (anni Novanta) per un totale di circa 3,1 milioni. Non sussiste una convergenza di questi dati sugli espatri con quelli riportati dalle fonti statistiche italiane. Bisogna, tuttavia, tenere presente che non furono rari i casi di persone conteggiate più volte, perché più di una volta furono protagonisti di espatrio per svolgere lavori stagionali frazionati e inoltre, per quanto riguarda i dati ISTAT, gli spostamenti temporanei non sempre vennero registrati. I dati disponibili non sono tali da consentire una quantificazione univoca. Ad esempio, Sonja Haug precisa, sulla base delle statistiche ufficiali tedesche, che tra il 1955 e il 1999 furono 3.495.481 i ritorni con un saldo di meno di mezzo milione di persone fermatisi sul posto. Le divergenze dipendono dalla mancanza di omogeneità tra i sistemi nazionali di statistica e di alcuni aspetti problematici all’interno di ciascuno di essi. Anche nel periodo più recente i dati di fonte tedesca sono divergenti da quelli di fonte italiana e ad essi superiori. Comunque, è evidente il tasso molto elevato di rotazione tra gli italiani recatisi in Germania, un vero e proprio pendolarismo.
Uno sguardo d’insieme su mezzo secolo d’emigrazione sotto l’aspetto sociologico
A detta di molti commentatori, la politica migratoria della RFT, imperniata sulla rotazione e inizialmente coincidente con la temporaneità dei progetti migratori della maggior parte degli italiani, si collocò all’origine degli inconvenienti che la collettività italiana per un lungo periodo dovette sopportare, segnatamente per quanto riguarda il basso tasso di scolarizzazione (con pochi studenti iscritti nel liceo classico e pochi laureati) e quello alto di disoccupazione. La scelta iniziale rispose alle esigenze immediate dei pionieri, ma fu di pregiudizio ai figli e anche ai nipoti. Per lungo tempo furono molti gli italiani che vissero in Germania in attesa del rientro, investendo al riguardo anche notevoli risorse (basti pensare all’abbellimento della vecchia casa o alla costruzione di una nuova per il periodo delle vacanze estive e del futuro rimpatrio). In altre parole, con il corpo si era spostato in terra tedesca ma la mente restava in patria. In effetti non furono pochi quelli che rimpatriarono ma molti altri rimasero sul posto con i loro figli e i loro nipoti. Questi ultimi inizialmente si trovarono in una posizione di svantaggiato livello sociale, scolastico e professionale, ma poi riuscirono a effettuare un recupero che ancora continua.
Non va, tuttavia, dimenticato che nell’ambito della collettività italiana mancava una riflessione critica (quanto meno sollecita e generalizzata) a riguardo di una politica rotativa così esasperata. La convinzione prevalente era che si sarebbe tornati a casa l’anno seguente, finendo poi per restare per sempre in Germania. Ad esempio, si adoperarono per favorire un atteggiamento più realistico le Missioni cattoliche italiane attraverso la testata Il Corriere d’Italia, come anche attraverso i “Quaderni” della Fondazione Migrantes (fino al 1987 UCEI), pubblicazioni realizzate a sostegno dei missionari e delle loro equipe[24]. Si evince dalla bibliografia che non furono infrequenti i casi di figli, che vivevano sei mesi in Germania e sei mesi in Italia: questa impostazione non poteva non essere pregiudiziale, per lungo tempo, alla loro formazione scolastica.
Comunque, alla chiusura del secolo XX la collettività italiana si è presentata con una maggiore coscienza della scelta cosciente della stabilità e del conseguente radicamento in Germania. Per molti protagonisti dei flussi nell’immediato dopoguerra, la permanenza, più che essere frutto di una scelta, fu la condizione indispensabile per stare vicino ai propri figli e ai propri nipoti. Invece, per le seconde generazioni non importa che si trattasse di persone nate sul posto o arrivate da piccoli o da adolescenti, la permanenza stabile divenne una prospettiva scontata e la Germania, oltre a essere il luogo di lavoro, cominciò ad assumere una dimensione esistenziale più intrinseca, una sorta di seconda patria, per così dire.
Il cambio della politica migratoria tedesca e il varo del piano d’integrazione
Per oltre mezzo secolo, dall’immediato secondo dopoguerra fino alla fine del secolo XX, la Germania affermò di non essere un “Paese d’immigrazione”. Al termine del cinquantennio postbellico i flussi in uscita dall’Italia verso la Germania risultarono molto al di sotto rispetto ai livelli registrati a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, non solo perché la Germania era diventata meno ricettiva di manodopera a bassa qualificazione, ma anche perché l’Italia non aveva più il disperato bisogno di collocare all’estero quote così rilevanti di suoi cittadini disoccupati.
La RFT non si considerò un “Paese di immigrazione” (Einwanderungsland), pur essendo diventata in Europa lo Stato membro con il maggior numero di immigrati. In quel periodo si pensava unicamente a un’integrazione temporanea, non destinata a mettere radici sul posto seppure meritevole di un’accoglienza dignitosa e imperniata sul rispetto della lingua e della cultura di origine, fermo restando l’apprendimento di quella locale, considerata naturalmente la Leitkultur e poco preoccupata della mediazione culturale, trattandosi di persone che sarebbero rimpatriate dopo un soggiorno più o meno lungo.
Le cose sono andate diversamente, questa previsione si rivelò scarsamente conforme alla realtà, perché la presenza straniera aumentò sempre più fino a superare, negli anni più recenti, i 13 milioni di residenti stranieri. La politica migratoria, imperniata sulla rotazione, condizionò per lungo tempo la mentalità degli immigrati (specialmente degli italiani) e ci volle tempo prima che si prendesse coscienza della sua inadeguatezza: innanzi tutto tra gli immigrati, abituatisi a vivere sul posto e ad apprezzare i vantaggi della stabilità; tra i tedeschi, abituati a convivere con gli immigrati, avevano imparato a conoscere gli immigrati da vicino; tra gli stessi politici, diventati più attenti ai benefici derivanti dall’integrazione.
I segni di questo processo di maturazione furono diversi e molto concreti: nel 2002 fu approvata una legge di riforma della normativa sulla cittadinanza, nel 2004 una nuova legge sull’immigrazione e tre anni dopo si arrivò al piano nazionale d’integrazione. La cancelliera Angela Merkel il 12 luglio 2007 presentò un “Piano nazionale d’integrazione”, elaborato sulla base delle indicazioni ricevute dopo una amplissima consultazione dei rappresentanti del mondo sociale e imprenditoriale. Il suo obiettivo, lungimirante e realistico, mirava a un’integrazione sostenibile, con una particolare insistenza sull’apprendimento della lingua e sulla formazione professionale. Questi nuovi concittadini (Mitbeurger) furono non più considerati di passaggio bensì parte integrante della nazione e del suo sviluppo.
Nel 2008, sulla scia di questo innovativo e ambizioso piano, si svolse a Roma un convegno bilaterale, promosso dall’Ambasciata Tedesca a Roma e dalla Caritas Italiana, con il supporto del Centro Studi Idos. Parteciparono ai lavori i diversi esponenti del mondo politico e sociale di entrambi i Paesi. In tale occasione le vocazioni nazionali specifiche furono considerate un’opportunità per la reciproca ispirazione, essendo ormai diventata anche l’Italia un Paese d’immigrazione. Il titolo stesso del convegno, formalizzando il passaggio da lavoratori a cittadini, era particolarmente congeniale al partner tedesco, e alla sua nuova strategia d’intervento [25]. È significativo ricordare un episodio che si collocò a margine del convegno. La ministra tedesca incaricata dell’immigrazione, Maria Bheme, a un certo punto con discrezione uscì dalla sala del Goethe Institut, dove si svolgevano i lavori, per recarsi presso il Centro didattico interculturale Celio Azzurro, dove il “Forum dell’intercultura” (un programma d’azione voluto dal fondatore e direttore della Caritas mons. Luigi di Liegro e coordinato da Lidia Pittau) aveva preparato l’incontro con un mediatore interculturale italiano e uno in rappresentanza di ciascuno dei vari continenti. La ministra, dopo aver ascoltato con attenzione i diversi interventi, ringraziò i mediatori perché l’avevano aiutata a capire meglio quanto aveva appreso dalle relazioni svolte al convegno e rimase anche ammirata di fronte alla figura del “mediatore interculturale”, un ruolo professionale allora scarsamente sperimentato anche in Germania [26].
Questo episodio presenta una certa analogia con un convegno che nel 2009 fu promosso a Mannheim dal patronato EPASA-CNA insieme alla locale Università e alle istituzioni comunali per gli stranieri, sulle problematiche dell’integrazione e sulla reciproca collaborazione (sancita anche da uno specifico accordo tra il Comune e l’EPASA, il primo siglato in città in attuazione del Piano nazionale d’integrazione: obiettivo dell’intesa era il proficuo inserimento degli italiani, superando ogni tipo di discriminazione.
L’emigrazione italiana in Germania negli anni Duemila [27]
I primi due decenni del XXI secolo sono stati molto diversi relativamente alla ripresa dei flussi degli italiani verso la Germania. I flussi per l’estero sono ripresi nel 2008 per effetto della crisi economica mondiale scoppiata in quell’anno. Nel primo decennio le cancellazioni per l’estero sono riprese, ma in misura contenuta, e contemporaneamente è aumentato moltissimo l’afflusso di lavoratori stranieri in Italia. Nel secondo decennio ha continuato a essere elevato l’arrivo di stranieri in Italia (specialmente di richiedenti asilo negli anni 2015-2018) e, nello stesso tempo, sono molto aumentate le partenze degli italiani per l’estero: queste, in larga misura, sono state offuscate dalla cosiddetta “crisi migratoria del Mediterraneo”, durante la quale gli stranieri sono stati considerati il “problema numero uno” da parte di una consistente buona parte dei politici e della popolazione [28].
Secondo i dati ISTAT, tra gli italiani con più di 25 anni registrati in uscita per l’estero nel 2002 il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e il 19% la laurea. Dal 2013 l’Istat ha riscontrato un cambiamento radicale: il 34,6% dei migranti italiani ha la licenza media, il 34,8% il diploma e il 30,0% la laurea. Come è noto, l’incidenza dei laureati tra quelli che emigrano è andata continuamente aumentando [29].
Non bisogna sottostimare la portata di questa nuova emigrazione italiana, come evidenziato dal Centro studi e ricerche Idos in un apposito comunicato stampa nel 2018: “Tanti come nell’immediato dopoguerra gli emigrati italiani: 250 mila l’anno”; tra l’altro, queste partenze hanno riguardato in prevalenza la Germania. La necessità di procedere a una rivalutazione dei flussi in partenza è stata ribadita anche da studiosi del settore, che hanno fatto riferimento ai dati EUROSTAT [30]. Peraltro, la stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE riporta dati superiori a quelli ISTAT. Ciò avviene perché non è sanzionabile il fatto di omettere la cancellazioni dall’anagrafe comunale quando ci si trasferisce all’estero per almeno dodici mesi. Queste omissioni sono recuperate negli archivi AIRE quando chi si è trasferito all’estero si reca negli uffici consolari per il disbrigo di qualche pratica.
A spostarsi negli anni ‘2000 sono in massima parte persone con un più alto grado d’istruzione. Gli scambi incentivati dall’Unione Europea tramite i programmi Erasmus hanno consentito ai giovani italiani di conoscere meglio la Germania e maturare l’apprezzamento nei confronti di questo paese. La Germania esercita una forte capacità di attrazione anche sui talenti non originari dell’UE tanto da avere emesso i quattro quinti delle carte blu rilasciate nell’Unione Europea [31]. Complessivamente in Germania, nel 2018, i motivi di iscrizione all’AIRE (incluse le persone nate sul posto) sono state 64.183, più del doppio rispetto alla Gran Bretagna e circa 250 mila in più rispetto alla Francia, che segue al secondo posto tra tutti i Paesi UE. Tuttavia, nel 2018 il Regno Unito ha superato la Germania per i nuovi ingressi di italiani (22 mila rispetto ai 18 mila), un superamento non più destinato a ripetersi dopo la Brexit. Per numero di espatri in provenienza dall’Italia nell’intero periodo 2000-2018 la Germania si è collocata al primo posto (239.111). Il Regno Unito e la Francia sono stati gli unici due Paesi ad aver registrato più di 100 mila arrivi, restando comunque ampiamente distanziati dalla Germania.
Le caratteristiche dell’attuale collettività italiana in Germania
Tre sono i Laender nei quali si è realizzato il maggiore inserimento degli italiani: Baden-Wurttemberg, Nord Reno -Westfalia e Baviera, mentre da ultimo hanno esercitato una forte attrazione anche Berlino e Amburgo e diverse altre città della ex Germania dell’Est [32]. In Germania, al 31 dicembre 2019, gli iscritti all’AIRE sono risultati 765.080 su 2.304.293 complessivi iscritti nei diversi Paesi dell’Unione Europea e 5.486.080 in tutto il mondo. Secondo i dati AIRE, a livello mondiale questa collettività italiana è la più numerosa dopo quella presente in Argentina, mentre in Germania è tra le più consistenti e si colloca subito dopo le collettività turca, ex-jugoslava e polacca. Nella collettività italo-tedesca, rispetto alla media di tutti gli iscritti all’AIRE, è più bassa (3,2%) l’incidenza di quelli che sono registrati per acquisto della cittadinanza sulla base della discendenza, e perciò ben si capisce se si tiene conto che l’insediamento stabile nel Paese è di data recente. Le iscrizioni per espatrio riguardano 507mila persone, i due terzi del totale (15 punti percentuali in più rispetto alla media europea), un chiaro indicatore dei tempi ravvicinati in cui è avvenuto l’insediamento.
I protagonisti in questa collettività continuano a essere le persone venute direttamente dall’Italia. Ad esse si aggiungono 225 mila rappresentanti delle seconde generazioni (e in piccola parte anche delle terze generazioni), destinati a svolgere un ruolo nevralgico nel prossimo futuro. I tre quarti dei membri della collettività sono di origine meridionale (41,8% dal Sud e 35,8% dalle Isole), o personalmente o per discendenza. I centro-settentrionali sono così ripartiti: 16,54% originari del Nord (mentre tra tutti gli italiani nel mondo la loro incidenza è del 35,5%) e 6,0% del Centro (rispetto a una media mondiale del 15,7%). Una ripartizione territoriale così netta induce a porre in evidenza che, se nel futuro la collettività italiana riuscirà a svolgere un ruolo preminente in questo “Paese leader”, tale affermazione sarebbe dovuta in prevalenza ai meridionali e ciò metterebbe in evidenza che l’origine meridionale non è di per sé di pregiudizio a una positiva affermazione e che determinanti sono le opportunità offerte dall’ambiente in cui si opera.
La collettività cresce quindi sotto l’impulso di fattori interni, rappresentati dai nati sul posto (e molto meno dalle acquisizioni della cittadinanza) e fattori esterni (e cioè dagli arrivi a seguito di emigrazione, sia arrivate nel passato, sia negli anni più recenti). Rispetto ai periodi precedenti è molto attenuata la prospettiva di rimpatrio. Su questa radicale modifica delle prospettive esistenziali hanno influito diversi fattori: la ricomposizione dei nuclei familiari (iniziata negli anni ’70); la frequenza scolastica dei figli, loro nozze con i nuovi nuclei familiari e la nascita dei nipoti. Ne è conseguito uno spostamento del centro d’attenzione dall’Italia alla stessa Germania.
Anche se storicamente gli italiani s’inserirono in prevalenza nell’industria, una parte della collettività non trascurò di esercitare il lavoro autonomo. Attualmente, la collettività italiana ha un tasso di imprenditorialità più alto, sia rispetto alla popolazione tedesca, sia rispetto a diverse altre collettività immigrate, distinguendosi per l’attività esercitata ristoratori e gelatieri [33]. Questi protagonisti, inizialmente si inserirono per lo più come lavoratori dipendenti, nell’attesa di poter avviare un esercizio loro proprio, che condussero poi con notevole soddisfazione personale e anche l’apprezzamento dei tedeschi. Di seguito, quando emersero nuove esigenze a livello gestionale, si rese necessario un cambiamento radicale. E così le comprensibili esigenze di risparmio hanno portato a superare il carattere stagionale dell’attività. Si è reso anche necessario assumere dipendenti non italiani presenti sul posto, così come è prevalsa la strategia di affiancare alla vendita del gelati quella dei prodotti tipici della caffetteria e della pasticceria.
Il futuro degli italiani in Germania
È fondato chiedersi se la consistente emigrazione italiana, riversatasi in Germania nel dopoguerra e rinvigoritasi durante questo secolo, contribuisca non solo a rispondere alle attese dei singoli, a essere di supporto allo sviluppo del Paese di accoglienza e di lustro a quello di origine. Per rispondere a questa domanda sono d’aiuto non solo l’economia e la sociologia ma anche una riflessione preliminare sul fatto che le migrazioni nel mondo includono non meno di 300 milioni di persone, perciò si configurano come uno dei più potenti fattori di cambiamento. Con semplicità, dopo aver ripercorso le diverse fasi dell’inserimento degli italiani in Germania, cercheremo di rispondere all’interrogativo sollevato con riferimento agli immigrati e ai due Paesi.
Le migrazioni, seppure generalmente determinate da esigenze lavorative, sono (o possono essere) funzionali allo scambio tra la cultura del Paese di accoglienza e quella del Paese di arrivo, creando tra gli autoctoni e gli immigrati rapporti di reciproco apprezzamento, un obiettivo sempre necessario, ma più difficile in un contesto di migrazioni di massa. Inizialmente, da parte dei tedeschi. fu scarsa la considerazione degli italiani, umili lavoratori, incapaci di esprimersi in tedesco e, per giunta, dalle abitudini così differenti a partire da quelle culinarie, per cui furono indicati come Spaghettifresser. L’atteggiamento di superiorità dei padroni di casa nei confronti dei nuovi venuti, non necessariamente sempre malevolo, era espresso dalla canzonetta intitolata Der kliner Italiener aus Napoli. I pregiudizi durarono a lungo ma, con il tempo, l’atteggiamento nei confronti degli italiani andrà modificandosi [34]. I tedeschi hanno imparato a conoscere meglio l’Italia come Paese per le vacanze, ad apprezzare i cibi italiani, a fare amicizia con i vicini di casa, a sposarsi con persone della penisola, a lavorare insieme in fabbrica e poi anche negli uffici, a militare nel sindacato, a essere membri delle stesse associazioni, ad apprezzare l’alta qualificazione dei nuovi arrivati, insomma a sperimentare che si può vivere vicini anche se diversi per molti tratti.
Questi sviluppi hanno favorito la riscoperta e l’apprezzamento di quei valori, dei quali già in precedenza gli italiani erano portatori e che erano poco compresi nel corso delle massicce ondate migratorie: la tenacia nel lavoro, l’attaccamento alla famiglia, il senso dell’amicizia, la semplicità di vita, la fantasia estrosa (non solo in cucina), la religiosità semplice ma non necessariamente superficiale, l’attaccamento alla propria patria come ambiente trasmettitore di principi, tutto questo unitamente all’attaccamento alla Germania, Paese generatore di lavoro e di benessere, mutuandone anche stimoli e comportamenti (ad esempio per quanto concerne l’ordine, la puntualità, il rispetto delle cose pubbliche e così via). Una volta in Germania era presente solo il corpo degli italiani, ora è presente anche la loro mente. perché quello è diventato il Paese del loro inserimento definitivo.
Si riporta la testimonianza sul suo percorso di integrazione resa da Giacomo Salmeri, un operatore incontrato in precedenza, quando si parlò del convegno organizzato a Mannheim nel 2009.
«La mia esperienza è diversa da quel percorso degli immigrati, ormai arrivati alla terza generazione. Io, per così dire, sono “la vittima del Progetto Erasmus”, nel senso che, conosciuta in Italia la mia attuale compagna di vita (proveniente dalla Germania), dopo avere concluso gli studi universitari decisi di vivere nello spazio europeo trasferendomi in un‘altra regione d’Europa, per l’appunto in Germania. Vivere seriamente in questo Paese significa integrarsi. La prima tappa, quella fondamentale, è consistita nell’imparare la lingua, un compito non facile. In primis perché bisogna imparare a conciliare il tempo del lavoro con la partecipazione ai corsi di lingua. Se si vince questa sfida si acquista la consapevolezza di essere in grado di interagire in tedesco e, cioè, di poter “partire compiutamente”. Tuttavia, non bisogna accontentarsi di una semplice lingua veicolare e occorre invece, farne lo strumento per entrare in profondità nella realtà tedesca di oggi, evitando la tentazione di isolarsi in una realtà separata (parallele Gesellscjaft), mentale e, in definitiva, anche fisica.
Inizialmente ho operato in una struttura di emanazione italiana e ho diretto la locale sede del Patronato EPASA CNA (poi EPASA ITACO) e, in seguito sono stato responsabile delle diverse sedi del Patronato EPASA operanti in Germania. Ho assolto questo compito per 18 anni fino al mese di gennaio del 2020. Nel 2017, padrone della lingua, in grado di provvedere economicamente a me stesso, con una residenza fissa nel territorio della Repubblica Federale e senza precedenti penali di rilievo (queste sono le condizioni previste dalla legge), ho fatto valere la norma europea sulla doppia cittadinanza e ho ricevuto anche la cittadinanza tedesca. All‘interno del Comune di Mannheim il mio percorso ha incluso un periodo di pratica presso gli uffici preposti all’accoglienza degli immigrati, molti dei quali italiani. Poi ho lavorato in un progetto comunale a supporto dei giovani italiani. Nel mese di febbraio 2020 é iniziata la mia ultima avventura, lavorativa e personale, come responsabile di una delle dieci “Job Börse”, enti per l‘impiego a disposizione dei residenti presenti nel territorio comunale. Mannheim insieme a Colonia è la sola città ad avere questi uffici in tutta la Repubblica Federale.
Il mio impegno è stato sempre strettamente legato al fare politica. Dal 2003 ho, ininterrottamente, fatto parte del locale Consiglio degli stranieri e di diverse commissioni comunali. Qui, dove risiedono cittadini provenienti da 170 paesi, mi trovo a lavorare in un contesto internazionale in cui le competenze interculturali giocano un ruolo decisivo: sono la chiave per assolvere al meglio il proprio compito».
Questa testimonianza, quanto mai positiva, induce a essere ottimisti, ma uno sguardo portato sull’insieme della collettività italiana, riscontra anche qualche ritardo rispetto ad altre collettività, e ciò attesta che il cammino è ben avviato ma non completato. Non si è, quindi, all’anno zero e le premesse sono promettenti. È stato evidenziato che gli spostamenti degli italiani in Germania hanno coinvolto non solo masse di lavoratori, ma anche artisti, operatori economici, intellettuali, politici, studenti e scienziati. Attualmente si stanno sempre più sviluppando le risorse interne alla collettività italiana insediata sul posto. Carmine Chielino, che ha analizzato il panorama degli intellettuali e degli scrittori italiani in Germania, parla di «un percorso di emancipazione socioculturale sorprendente, dopo che negli ultimi decenni è stato superato dagli italiani l’imbrigliamento nell’identità negative del Gastarbeiter e del pendolarismo. In questa fase la collettività italiana si sta mostrando in grado di esprimere tutte le sue potenzialità forte, rafforzata ormai nelle sue reti imprenditoriali, commerciali e dei liberi professionisti»[35].
Una specifica attenzione merita il mondo del lavoro con le affermazioni italiane di prestigio nella rappresentanza sindacale, come ha puntualizzato Laura Garavini, menzionando Daniela Cavallo, figlia di un Gastarbeiter (prima donna ad assumere tale incarico), diventata capo del consiglio di fabbrica della Wolkswagen, un’azienda con 670 mila dipendenti [36]. Va aggiunto che l’ingegnosità italiana, se così si può dire, non ha ancora avuto il tempo necessario per esprimersi in pieno per gli ostacoli verificatisi nel passato. Come accennato in apertura, rispetto ad altri Paesi, dove gli emigrati italiani hanno esercitato una profonda influenza sui vari ambiti della società e anche a livello politico (basti pensare ai numerosi Presidenti della Repubblica in Argentina, al presidente del consiglio dei ministri in Belgio, a parlamentari o amministratori di origine italiana in numerosi Paesi), in Germania è tuttora in pieno sviluppo il percorso d’integrazione e la completa attuazione dei suoi risultati saranno resi visibili a partire dalle terze generazioni. E anche dai protagonisti qualificati dei nuovi flussi migratori.
Anche nel caso tedesco furono tanti i disagi che avrebbero potuto essere evitati, ma non sono mancati gli aspetti positivi che, seppure tortuosamente, hanno portato alla situazione attuale, promettente come si è detto. Personaggi di rilievo si sono affermati in ambito giudiziario, giornalistico, imprenditoriale, universitario e specialmente nel mondo sindacale, dove gli italiani si sono fatti valere. Questi sono indicatori significativi di un percorso positivo in atto, passibile di un potenziamento. Queste opportunità attendono di essere pienamente colte a tutti i livelli: ecclesiale (in cui notevole è stato l’apporto delle Missioni cattoliche italiane), artistico-culturale, accademico, aziendale, sindacale, amministrativo e politico. Ne deriverà un grande lustro alla collettività italiana: questo è il vantaggio di operare in un grande Paese leader come la Germania. Quando si parla di “italianità” non bisogna pensare unicamente al senso di appartenenza che gli emigrati, o i loro discendenti, mantengono con l’Italia, ma bisogna anche tenere in considerazione questo lustro, di impronta sia germanica che italiana.
Le strutture di aggregazione in ambito sociale e religioso e le nuove sfide [37]
Nel processo d’inserimento degli italiani si rivelò molto importante l’apporto delle strutture associative italiane operanti sul posto. In ambito ecclesiale diedero un contributo di fondamentale importanza le Missioni cattoliche italiane, che operarono in sinergia con le strutture delle chiese locali. Nel corso del dopoguerra le Missioni, grazie al dinamismo di centinaia di sacerdoti, suore e di una schiera di volontari, si fecero carico non solo del benessere spirituale degli italiani ma anche dei loro bisogni sociali [38]. Anche in Germania, come in altri Paesi, si registrò nell’immediato dopoguerra una forte contrapposizione tra le strutture aggregative di ispirazione cattolica e quelle di ispirazione socialista e comunista, o comunque laica, mentre poi, per effetto del Concilio Vaticano II, diventò ricorrente il comune impegno per conseguire obiettivi improntati alla solidarietà umana, non essendo essa disgiunta dalla cura delle anime [39]. L’efficace organizzazione della pastorale cattolica tra gli emigrati fu sostenuta dall’impegno dei vescovi italiani e di quelli tedeschi (incluso, da parte loro, il sostentamento dei missionari).
Le strutture aggregative in ambito laico di matrice politico-sociale sono state di vario tipo: le associazioni vere e proprie (a carattere nazionale, regionale e locale), i sindacati, i patronati (preposti alla tutela socio-previdenziale), le sedi dei partiti politici. Il loro compito di tutela e di sostegno socio-culturale fu molto importante, specialmente nei primi decenni del dopoguerra, durante i quali la collettività era caratterizzata dalla precarietà e dai conseguenti problemi d’inserimento. La situazione attuale è molto più complessa ed è risultata più difficile la stessa individuazione degli interventi da effettuare, sia perché il panorama dei bisogni e gli stili di vita sono cambiati, così come risulta cambiato il riferimento degli emigrati alla Germania (diventato più stretto) e quello all’Italia (attenuatosi). Ciò ha reso necessario un adattamento delle strategie di intervento da parte dell’associazionismo tradizionale, chiamato sempre più a operare con strutture tedesche [40]. Questa sinergia è risultata più agevole alle strutture di emanazione sindacale, che hanno ritenuto ineludibile la continuazione del loro impegno in collegamento sempre più stretto con il movimento sindacale tedesco (fortunatamente a carattere unitario rispetto alla divisione riscontrabile in Italia).
Anche per le organizzazioni partitiche è emersa la necessità di un riferimento alle analoghe strutture locali, trattandosi per lo più di questioni legate alla vita in Germania di cittadini italiani. Così pure la rete delle Missioni Cattoliche Italiane, che per molto tempo aveva gestito gli interventi con grande autonomia per rispondere alle esigenze linguistiche e culturali degli italiani, preminenti nel passato, una volta venuta meno per i più la prospettiva del rimpatrio, ha curato maggiormente una pastorale integrata nell’ambito delle singole diocesi. Il cambiamento di prospettiva è risultato molto più difficile per le svariate forme di associazionismo, che tradizionalmente sono state presenti tra gli emigrati. Se è ingiusto liquidarle come un inutile fardello del passato, è superficiale ritenere che possano continuare per forza di inerzia: determinante è la leadership di persone con grande capacità innovative e organizzative e, inoltre, aperte alle sinergie.
È indubbio che gli italiani, con una certa anzianità di emigrazione, sono in grado di muoversi autonomamente nel contesto tedesco e che i nuovi arrivati si destreggiano completamente a loro agio su internet per risolvere i loro problemi di inserimento e di socialità, senza ricorrere alle varie forme dell’associazionismo tradizionale, facendo molto spesso perno sulle iniziative nate in ambito aziendale, o a gruppi ristretti sorti spontaneamente sulla rete, non di rado a carattere internazionale, e anche sui servizi offerti direttamente dai comuni tedeschi. La preoccupazione della bilateralità nelle iniziative sociali aveva iniziato a caratterizzare da tempo, gli ambiti più sensibili della collettività italiana. Tale apertura costituisce una via per venirne a capo delle nuove difficoltà operative alle quali si è fatto cenno. Le esperienze bilaterali e interculturali, se continueranno a essere dinamicamente promosse, aiuteranno a superare quella che possiamo definire una crisi di identità dell’associazionismo italiano, che potrà far valere l’apporto della sua esperienza anche nell’attuale scenario profondamente cambiato, contribuendo ad arricchire una convivenza pluralistica.
L’importanza dei rapporti tra l’Italia e la Germania
Alla storia dell’emigrazione in un Paese è legata anche la politica dei suoi rapporti con quello di origine, per cui è necessario parlare il livello qualitativo delle relazioni. Certamente non mancano gli studi che hanno approfondito i rapporti intrattenuti bilateralmente nel corso del tempo [41]. Ad avviso di molti esperti della materia il giudizio sulla Germania attuale è ancora pregiudicato dal peso del recente passato, che porta a soffermarsi sui campi nazisti di prigionia e di sterminio, sull’occupazione militare del territorio italiano, sui crimini di guerra. Tra l’altro, il mito della forza tedesca, rafforzatosi nelle precedenti fasi storiche, è ambivalente: nello stesso tempo esso affascina e suscita timore. Un giudizio sereno porta, invece, a riconoscere la straordinaria capacità organizzativa della Germania, ravvisabile anche nella recente politica migratoria, finalmente basata sull’integrazione e anche su un diffuso sentimento di simpatia nei confronti degli italiani. A loro volta gli italiani hanno imparato ad apprezzare l’impostazione del sistema produttivo tedesco e la sua complementarietà con quello italiano.
Bisogna liberarsi dai pregiudizi e andare oltre la superficie per riconoscere i molteplici aspetti positivi insiti nel rapporto tra i due Paesi, diversi ma non contrapposti. Si percepisce più distintamente questa differenza-complementarità quando si tiene conto che i due Paesi, collocati nel piccolo continente europeo, devono confrontarsi col protagonismo di giganti come gli Stati Uniti e la Cina. S’impara così a riconoscere, bilateralmente, la sussistenza di una forte convergenza sul piano economico (la Germania è il primo partner dell’Italia sia per l’export che per l’import), l’adesione a uno stesso piano di sicurezza nell’ambito del Patto atlantico e il protagonismo come soci fondatori nel processo di integrazione europea [42]. La complementarietà riguarda anche l’ambito migratorio, tradizionalmente per le vicende dell’emigrazione italiana qui raccontate, e da ultimo anche come Paesi che si confrontano con l’immigrazione estera, come evidenziò il citato convegno del 2008 organizzato presso il Goethe Institut di Roma.
Ancora ci sono d’esempio due grandi statisti, come il Cancelliere Konrad Adenauer e il Presidente del consiglio Alcide De Gasperi, che nell’immediato dopoguerra collaborarono per avviare il processo d’integrazione europea. Un apprezzato giornalista come Enzo Biagi, a metà degli anni Settanta, invitò a leggere i cambiamenti già allora ravvisabili nella società tedesca del dopoguerra [43]. Riflessioni analoghe possono essere sviluppate, al giorno d’oggi, con riferimento agli aspetti esistenziali e socio culturali [44]. Secondo il giornalista Karl Kofmannm, l’Italia (di cui è un ottimo conoscitore per viverci e lavorarci esercitando la professione), è sempre stata abbastanza amata dai tedeschi e dai loro politici. Comunque, rispetto al passato, le carte vanno rimescolate, avviando un profondo processo di osmosi. Si può essere di origine e cultura germanica o italiana, ma in ogni caso si è accomunati dalla dimensione europea, destinata nel tempo ad attenuare le differenze. Un tedesco vede anche i difetti degli italiani come collettività, ma non può fare ameno di sperare che nel futuro si riesca a unire l’ordine, tipicamente tedesco, con il carattere creativo, tipicamente italiano.
Passato, presente e futuro della comunità italiana in Germania
di Edith Pichler
«Nel desiderio di approfondire e di stringere sempre più, nell’interesse reciproco, le relazioni tra i loro popoli nello spirito della solidarietà europea, nonché di consolidare i legami d’amicizia esistenti fra di loro, nello sforzo di realizzare un alto livello di occupazione della manodopera e un pieno sfruttamento delle possibilità di produzione, nella convinzione che questi sforzi servano l’interesse comune dei loro popoli e promuovano il loro progresso economico e sociale hanno concluso il seguente Accordo».
Così si legge nel Preambolo dell’Accordo Bilaterale fra la Germania e l´Italia firmato nel 1955. La mobilità in Europa e fra l´Italia e la Germania si è trasformata negli ultimi decenni da una migrazione derivante da accordi bilaterali sul reclutamento di forza lavoro (i cosiddetti Gastarbeiter) a spostamenti in seguito ai ricongiungimenti familiari, a nuove forme di movimento promosse dai processi di integrazione europea. Se nel passato migrare era inteso, secondo il modello del container, come passaggio da un “container-nazionale” a un altro, le nuove forme di mobilità e di soggiorno, così come i migranti con un habitus transnazionale, hanno fatto sì che le pareti dei container-nazionali siano diventate sempre più permeabili. Così possiamo osservare nel frattempo anche fra gli italiani di Germania la presenza d’identità ibride e non più “mono-etniche-culturali”. Si potrebbe dire che la mobilità viene concepita come nuova realtà sociale per un numero crescente di persone: così per gli allora Gastarbeiter, i loro discendenti e i “nuovi mobili”.
Ma se le migrazioni degli anni 2000 erano favorite dai processi sopra indicati, dai diversi progetti formativi e di studi, così come dal moltiplicarsi delle possibilità e dei mezzi di trasporto (per esempio il comparire delle compagnie low-cost), con la crisi finanziaria è ripresa una migrazione di lavoro verso la Germania. Come nel passato per i Gastarbeiter anche i nuovi immigrati, compresi gli italiani, contribuiscono a soddisfare la richiesta di manodopera che non viene coperta dalla popolazione locale a motivo per esempio dei turni di lavoro, della remunerazione bassa (per esempio nel campo dell´assistenza agli anziani) o perché si tratta di lavori non prestigiosi. Per tanti queste trasformazioni si sono tradotte spesso in un declassamento verso settori caratterizzati da precariato e da forme d’impiego “grigie” e da processi di dequalificazione. Le loro caratteristiche ricordano in parte quelle dei Gastarbeiter, non più impiegati nell’industria, ma nuovi proletari dei servizi.
Anche questi nuovi mobili europei sembrano svolgere la funzione di Reservarmee avuta nel passato dalla manodopera straniera in Germania, che in caso di crisi come sta succedendo con il Coronavirus sono più facili da licenziare. La pandemia rende infatti sempre più visibile i diversi ma comuni modelli migratori e processi di inserimento di chi viene definito “expat”, o “cervello in fuga” o emigrati del lavoro, che in caso di crisi come sta succedendo con il Coronavirus sono più facili da licenziare.
Che tipo di mobilità possiamo pensare per il domani dell’emigrazione italiana in Germania? Ci sarà un ripensamento sul perché “mettersi in moto”, non solo per le tante famiglie ma anche per i cosiddetti “nuovi mobili”? Negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni come quello della jeunesse dorèe che approfittava di vivere in un appartamento comperato dai genitori in una metropoli europea come Berlino (quando per i genitori mantenere il figlio a Berlino era meno costoso che in una grande città italiana) e come quello della lost generation: giovani “creativi”, o che si ritenevano tali che per autofinanziarsi lavorano nei call center o nella gastronomia e che ora con il Coronavirus sono più precari che creativi.
Come si svilupperà il mercato del lavoro in Germania di fronte a tendenze di “decelerazione”, l’avanzata di una certa sobrietà e la richiesta di regolarizzazione? Si ridurranno in parte i lavori che svolgevano i cosiddetti giovani mobili e meno giovani con famiglie appresso ma che permettevano loro nonostante la precarietà di vivere in qualche modo dignitosamente? Cambieranno modelli di mobilità? Per esempio, fra i giovani verso una mobilità “matura” e “ragionata”, legata anche a un progetto di lavoro e di vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
[*] Un ringraziamento degli autori va a Laura Garavini (Senato della Repubblica), a Michele Schiavone (Consiglio Generale degli Italiani all’estero), Tony Màzzaro (giornalista) per la loro collaborazione.
Note
[1] Cfr. Pittau F., “Due secoli di immigrazione negli Stati Uniti: storie di italiani”, in Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020.
[2] Cfr. Jorio F., Pittau F., Waisel S., “Brasile: trenta milioni di oriundi italiani nel Paese del meticciato”, in Dialoghi Mediterranei n. 48, marzo 2021; Callia R, Farfan M., Pittau F., “La grande emigrazione italiana in Argentina: un peculiare modello di accoglienza”, in Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021. Si potrà anche constatare che il caso svizzero è quello che presenta maggiori analogie con quello tedesco.
[3] Sugli stagionali italiani in Germania prima e dopo la Seconda guerra mondiale cfr. la seconda parte del volume curato per 2006 da Gustavo Corni e Cristof Dipper.
[4] Si rimanda alla bibliografia riportata nella nota successiva.
[5] Cfr. tra le numerose pubblicazioni, Gerl H.B., Romano Guardini. La vita e l’opera, Morcelliana, Brescia 1988. Sul pensiero di Guardini cfr. Engelmann H., Ferrier F., Introduzione a Romano Guardini, Queriniana, Brescia 1968.
[6] Dante è al centro di due opere fondamentali di Guardini: Studi su Dante e La Divina Commedia di Dante. I principali concetti filosofici e religiosi. Cfr. Guardini R., La Divina Commedia di Dante. I principali concetti filosofici e religiosi, Brescia, Morcelliana, 2012.
8 Guardini R. (a cura di Zucal S.), La visione cattolica del mondo, Morcelliana, Brescia, 1994. Circa la sua spiritualità va ricordato Il Signore (Meditazioni sulla persona e la vita di Gesù Cristo), dato alle stampe nel 1937; fu la sua l’opera più nota, pubblicata in Italia nel 2005 dalla casa editrice Vita e Pensiero.
[8] Cfr. Magister S., “Benedetto XVI ha un padre, Romano Guardini”, in https://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/207016.html (1 ottobre 2008).
[9] Va ricordato che nel 1937 Guardini scrisse Lettere dal lago di Como, il nucleo di quest’opera è del 1934 e recava il titolo Lettere dall’Italia.
[10] L’articolo fu scritto da Mons. Silvano Ridolfi, direttore dei missionari italiani in Germania e direttore della loro testata La Squilla, poi diventata Corriere d’Italia). Cfr. anche la brochure: Comunità Italiana Mianz. 50 anni Cammino di Fede, Speranza, Carità”, ed. pro manuscripto, Magonza 2016.
[11] Caramel N., Braccia italiane al servizio del Reich; Caramel N., L’emigrazione dei Fremdarbeiter italiani nella Germania nazista (1937-1943). in Storia a e Futuro, Bononia University Press, n. 44, giugno 2017, https://www.academia.edu/33730735
/Braccia_italiane_al_servizio_del_Reich._Lemigrazione_dei_fremdarbeiter_italiani_nella_Germania_nazista_1937-1943. Due storici si sono particolarmente distinti nello studio dei flussi migratori di questo periodo in Germania: Bernani C. (un cultore della storiografia orale), Racconti e memorie dell’emigrazione economica italiana 1937-1945, Torino, Bollati Boringhieri 1998; Mantelli B. (uno storico che ha posto questo tema al centro della sua ricerca), Camerati del lavoro. L’arruolamento di lavoratori italiani per il Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, Firenze, La Nuova Italia, 1992. Sugli aspetti pastorali cfr. “Scalabriniani veneti nella Germania nazista”, in Emigranti a passo romano. Operai dell’Alto Veneto e Friuli nella Germania hitleriana, a cura di Marco Fincardi https://www.researchgate.net/publication/330965889_Scalabriniani_veneti_nella_Germania_nazista_in_Emigranti_a_passo_romano_Operai_dell’Alto_Veneto_e_Friuli_nella_Germania_hitleriana_a_cura_di_Marco_Fincardi.
[12] Fondazione Migrantes, 1938-1942 Gli anni oscuri della guerra in Germania”. Don Ascanio Micheloni, Quaderno Migrantes, (senza numero), Roma, 2003; Emigrazione e fede I cappellani dei lavoratori in Germania 1938-1945, Quaderno n. 44, Roma, 2003.
[13] Ad essi bisogna aggiungere circa tremila italiani periti nei mercantili britannici, nel periodo dal 20 giugno 1940 al 4 settembre 193 (per circa un terzo prigionieri di guerra e per un terzo internati civili).
[14] Cfr, le testimonianze raccolte da Macioti M. I. (a cura), Internati Militari Italiani, /www.analisiqualitativa.com/magma/1601/index.htm (vol.16 n.1, gennaio-aprile 2018).
[15] D.P.R. 23 marzo 1956, n. 893, “Esecuzione dell’Accordo fra la Repubblica italiana e la Repubblica Federale di Germania per il reclutamento e il collocamento di manodopera italiana nella Repubblica Federale di Germania, concluso in Roma il 20 dicembre 1955, in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 205 del 17-08-1956. All’applicazione dell’accordo Elia Morandi ha dedicato un volume, facendo riferimento alla documentazione del Centro italo-tedesco di Verona, a diverse fonti statistiche del 1955: Morandi E. 2011, Governare l’emigrazione. Lavoratori italiani verso la Germania nel secondo dopoguerra, Torino: Rosenberg & Sellier, Torino, 2011.
[16] Cfr. L’emigrazione italiana verso la Repubblica federale tedesca. L’accordo bilaterale del 1955, la ricezione sulla stampa, il ruolo dei Centri di emigrazione di Milano e Verona, storicamente.org/migrazioni-prontera.
[17] Sulla straordinaria importanza della normativa comunitaria sulla libera circolazione, che elevò il livello di tutela degli emigrati italiani rispetto agli standard in precedenza assicurati dalla contrattazione bilaterale, cfr. Idos, Istituto di Stuti politici “S. Pio V, a cura di Coccia B., Pittau F., La dimensione sociale del Trattato di Roma, Edizioni Idos, Roma, 2018.
[18] Per sottolineare l’importanza del settimanale delle Missioni cattoliche italiane va ricordato che poco prima, nel mese di gennaio 1964, il cancelliere Ludwig Ehrard fece una visita ufficiale alla redazione del settimanale Corriere d’Italia, al quale inviò gli auguri anche il successore Willy Brandt.
[19] Era ridottissimo il numero dei ragazzi italiani che si iscrivevano ai ginnasi ed elevata la loro presenza nelle classi differenziali e per evitare questa emarginazione diversi genitori lasciavano in Italia i loro figli, presso i collegi/convitti (ad esempio, a Milano, a Monte Bondone, a Viareggio, a Osimo).
[20] “70 Anni del Corriere d’Italia” nel 2021 assieme a Licia Linardi ambo ed. Delegazione delle Missioni Cattoliche e Litotipografia Alcione, Lavis, e infine “Diario Berlinese” ed. Migrantes TAU, Perugia 2021.
[21] La maggior parte delle squadre di calcio si sciolse nel 1993, quando i responsabili decisero di non aderire ai giochi tedeschi. Per particolareggiate informazioni sulla dimensione sociale della collettività italiana in questo periodo cfr. infra, Màzzaro T., “La collettività italiana in Baden-Württemberg. L’opera della Chiesa e dei Patronati” in Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022.
[22]http://www.luigigranelli.it/index.php/i-temi-guida/il-ruolo-della-politica-internazionale/l-emigrazione-italiana/1348-conferenza-nazionale-dell-emigrazione-introduzione-di-granelli-marzo-1975
[23] Cfr. la ricerca di inizio secolo dell’Istituto Nazionale di Demoscopia in Wiesbaden: cfr. Haug S., Soziales Kapital und Kettenmigration – Italienische Migranten in Deutschland, Opladen, 2000, Band 31, VI. e I. Kapitel.
[24] I primi quaderni della Fondazine Migrantres (fino al 1987 UCEI) furono, per l’appunto, dedicati alla scolarizzazione dei figli degli italiani: La scolarizzazione dei ragazzi migranti in Europa, Quaderno n. 1, Roma, 1983; Istruzione di base e cultura in una società pluralistica, Quaderno n. 2. Roma, 1983. Anche in seguito furono approfondite le implicazioni culturali della questione scolastica: Emigrazione è cultura: un impegno di Chiesa, Quaderno n. 16, Roma 1996: Immigrazione e progetto culturale, Quaderno n. 29, Roma, 1999.
[25] Behme M., “Immigrazione e identità europea, istruzione e lavoro quali elementi chiave: la via tedesca della politica d’integrazione”, in Caritas Italiana, Ambasciata Tedesca, a cura di in Di Sciullo L., Pittau F., Schmitz K., Da immigrato a cittadino: esperienze in Germania e in Italia, Idos, Roma, 2008.
[26] La mediazione interculturale, menzionata anche nella legge n. 40 del 1998, rappresenta una geniale intuizione nata in ambito sociale, che è stata praticata con straordinario impegno fino al primo decennio degli anni 2000 Per il contesto romano cfr. Caritas di Roma, a cura di Pittau F., Forum per l’intercultura: 18 anni di esperienza, Edizioni Idos, Roma, 2007
[27] Sulla situazione attuale degli italiani in Germania nell’ultimo decennio, fino alla situazione nel corso della pandemia da Covid 19, si possono consultare i contributi di Edith Pichler, docente italiana presso l’Università di Potsdam: “Gli Italiani in Germania fra precarietà e opportunità”, in Sanfilippo M., Vignali L. M.,, La Nuova emigrazione italiana, «Studi Emigrazione», n. 207, 2017; “Gli italiani in Germania: ancora un Reservarmee per il mercato del lavoro tedesco?”, in Neodemos, 2 Luglio 2017. https://www.neodemos.info/pillole/gli-italiani-in-germania-ancora-un-reservarmee-per-il-mercato-del-lavoro-tedesco/; “Tendenze e sviluppo del mercato del lavoro in Germania: mito e realtá”, in Neodemos , 21 giugno 2019, https://www.neodemos.info/articoli/tendenze-e-sviluppo-del-mercato-del-lavoro-in-germania-mito-e-realta/; “A Berlino con il Corona: più precari che creativi”, in Tirabassi M., Del Pra A.. (a cura), Il mondo si allontana? Il COVID-19 e le nuove migrazioni italiane, Accademia University Press, Torino, 2020: 89-93; “Il Covid colpisce tutti, ma alcuni di più: considerazioni sul mercato del lavoro della Germania, in Neodemos, 4 dicemebre, 2020; “Ieri, oggi, domani. I lavoratori italiani in Germania”, in Il Mulino, n. 4/20; “Germania. Lavoro e migrazioni nel tempo del Coronavirus”, in M. Livi-Bacci (a cura), L´ospite inatteso. Neodemos ed il Covid 19, Associazione Neodemos E-book, Roma, 2020: 97-103; https://www.neodemos.info/wp.-content/uploads/2020/06/lospite-inatteso-neodmos-e-il-covid-193.pdf:
[28] Cfr. Pittau F., “Il punto sul fenomeno migratorio in Italia: nuovi arrivi, vecchi problemi”, in Dialoghi Mediterranei, n. 23, gennaio 2017.
[29] Questi dati si possono desumere dall’aggiornamento sull’andamento dell’emigrazione italiana all’estero, che il Centro Studi e Ricerche Idos cura annualmente sul Dossier Statistico.
[30] Gabrielli D., “Le emigrazioni dei cittadini italiani negli anni 2000 e l’aumento dei laureati”, in Idos, Istituto di studi politici “S. Pio V”, a cura di Coccia B. e Pittau F. “Le migrazioni qualificate in Italia: ricerche, statistiche, prospettive”, Edizioni Idos, Roma, 2016: 89-98. Il Centro studi ha fornito precisazioni su questo divario nel capitolo dedicato agli italiani nel mondo, che appare nelle edizioni annuali del Dossier Statistico Immigrazione.
[31] Le seguenti pubblicazioni del Centro Studi e Ricerche Idos e dell’Istituto di Studi Politici S. Pio V: la prima a cura di Coccia B. e Pittau F., Le migrazioni qualificate in Italia. Ricerche, statistiche, prospettive, Edizioni Idos, Roma, 2016; la seconda, a cura di Coccia B, e Ricci A., L’Europa dei talenti. Migrazioni qualificate dentro e fuori l’Europa, Edizioni Idos, Roma, 3019.
[32] Su Berlino cfr. la dissertazione per il dottorato (2017) di Ghilardi M., Italiano e italiani a Berlino. Varietà e generazioni a confronto, https://edoc.hu-berlin.de/bitstream/handle/18452/19940/dissertation_ghilardi_x. Più di recente cfr. Pichler E., “A Berlino con il Corona: più precari che creativi”, in Tirabassi M., Del Prá A., Il mondo si allontana? Il COVID-19 e le nuove migrazioni italiane, Academia University Press, Torino, 2020:89-93.
[33] I gelatieri arrivarono nel dopoguerra dal Bellunese e dal Cadore, all’inizio solo stagionalmente (primavera ed estate); si rimanda allo studio di Storti, citato nella bibliografia finale.
[34] Cfr. Pichler E., “Briganti, Spaghettifresser e portatori del nuovo lifestyle: immagini e stereotipi degli Italiani in Germania”, Fondazione Migrantes, a cura di Licata D., Rapporto italiani nel mondo 2018, ed. Tau, Todi, 2019: 415-422. Della stessa ricercatrice, sul nuovo protagonismo degli immigrati, cfr. Rapporto italiani nel mondo 2018, Tau ed. Todi, 2018: 334-344.
[35] Cfr. anche C. Chielino. “La letteratura degli scrittori italiani in Germania”, http://archivio.el-ghibli.org/index.php%3Fid=1&issue=02_08§ion=6&index_pos=1.html
[36] Per un quadro complessivio Garavini L., “Italia-Germania, modello di amicizia tra i Popoli”, infra, in Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022.
[37] Per un esame dell’associazionismo tradizionale e una sua rivitalizzazione e delle nuove forme aggregative per rispondere alle nuove esigenze si rimanda alla ricerca condotta da Idos su incarico del Ministero degli Affari Esteri, Direzione generale degli italiani all’estero: Gli italiani all’estero. Collettività storiche e nuove mobilità, monografia apparsa su Affari Sociali Internazionali, n. 1-4, 2020 (cfr., in particolare”, il capitolo dedicato alle nuove categorie di migranti e alle nuove forme di associazionismo: 49-56).
[38] Sull’operato delle Missioni cattoliche cfr: Ridolfi S. (a cura), Le missioni Cattoliche Italiane in Germania e Scandinavia. Inizio e sviluppo della pastorale italiana nel primo dopoguerra (anni 1950-1970, e 2019); Delegazione delle Missioni Cattoliche Italiane in Germania, Francoforte, 2019- Cfr. anche la voluminosa ricerca (596 pagine), che già nel titolo accredita la pastorale migratoria italiana come un esempio di pastorale migratoria negli ultimi 50 anni: Lupo V. A., Die Italienischen Katholischen Gemeinden in Deutschland.Ein Beispiel für die Auswanderungspastoral während der letzten 50 Jahre, Verlag fuer wissenschaftliche Literatur, ,” edMuenster 2005. La Fondazione Migrantes (fino al 1987 UCEI – Ufficio Centrale dell’Emigrazione Italiana dei Vescovi Italiani) ha pubblicato decine di “Quaderni” sui temi riguardanti l’assistenza religiosa e di promozione umana. Cfr.: L’assistenza pastorale ai migranti italiani in Europa. La ripresa dopo la seconda guerra mondiale, Quaderno n. 3, Roma, 1981; Assistenza pastorale agli internati e agli emigrati italiani. Una vita fatta storia, Quaderno n. 30, Roma, 2000; Cfr., inoltre, sugli aspetti socio-culturali: Quando venni in Germania (Storie di italiani in Germania. Lingua ed emigrazione), Quaderno n. 19, Roma, 1996; La coppola accanto alla Schirmmütze. Storie di vita di emigrati italiani in Saar degli anni ’50, Quaderno n. 20, Roma, 1997. Cfr. anche Fondazione Migrantes, Direttorio dell’associazionismo religioso in immigrazione, Roma, 1999.
[40] Sui nuovi compiti delle strutture aggregative nel contesto attuale si sofferma il Centro Studi Idos in una recente ricerca curata insieme al Circolo di Studi Diplomatici: Idos, Gli italiani all’estero. Collettività storiche e nuove mobilità, numero monografico di Affari Sociali Internazionali, n- 1-4, 2020.
[41]Cfr., ad esempio, Niglia F., Romano B, Ivo Valeri D., Italia e Germania. L’intesa necessaria per l’Europa, Bollati Boringhieri, Torino, 2021. Pochi anni prima un altro volume, anziché occuparsi delle convergenze tra la Germania e l’Italia, riporta i contributi predisposti per il Centro Italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni (presso il Lago di Como), suddivisi in tre parti: cosa hanno fatto per l’Europa le passate generazioni, le modifiche attualmente necessarie in tema di cittadinanza europea e una analisi critica della situazione riscontrabile nei vari Stati membri: Amodeo I., Liermann C. (a cura) Why Europe? German-Italian Reflections on a Common Topic, Impulse Band 11, Villa Vigoni im Gespräch, Stuttgart, 2017.
[42] In Germania con oltre 100 mila addetti: cfr. la ricerca condotta da Intesa Sanpaolo per la Camera di Commercio Italo-tedesca, https://www.varesenews.it/2021/07/la-germania-piace-agli-imprenditori-italiani-oltre-1600-le-imprese-operano-sul-suolo-tedesco/1360226/; “Germania? Unite dalla sessa zolla di terra”, intervista di Maria Grazia Pecchioli Kofmann, una giornalista tedesca da molti anni residente in Italia, https://www.goethe.de/ins/it/it/m/kul/gsz/eur/22064518.html.
[43] Biagi E., Germania Rizzoli, Milano, 1976; cfr, anche Lombardo Radice L., La Germania che amiamo, Editori Riuniti, Roma, 1978.
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Giuseppe Bea, ha operato fino al suo pensionamento presso la Confederazione Nazionale Artigianato e Piccole Medie Imprese, sia a livello territoriale, come Segretario provinciale Roma, sia a livello nazionale, essendo stato responsabile per la CNA World (il programma rivolto agli imprenditori immigrati), dell’area internazionale, delle relazioni istituzionali e della comunicazione. Per la Confederazione ha partecipato a vari organismi ministeriali di consultazione ed è stato anche membro della Camera di Commercio italiana di Nizza. Laureato in Sociologia, si è adoperato a livello formativo e anche nella ricerca. È stato tra i fondatori dell’Osservatorio Nazionale Imprese. È docente di economia delle imprese immigrate nei master MEDIM dell’Università Tor Vergata di Roma. Nel 2013 ha ottenuto la onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana.
Edith Pichler, originaria di Cles, ha studiato all´Otto-Suhr Institut della Freie Universität di Berlino conseguendo il Ph.D. (Dr. Phil) in Scienze Politiche e l´Abilitazione Scientifica Nazionale come Professore Associato per Sociologia dei processi economici e del lavoro. Ha insegnato alla Humboldt-Universität di Berlino ed è stata Visiting Professor all’Università La Sapienza di Roma. Dal 2011 è docente presso l’Istituto di Economia e Scienze Sociali dell’Università di Potsdam.
Franco Pittau, dottore in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ’70, quando ha condotto un’esperienza sul campo, in Belgio e in Germania. È stato ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario del genere realizzato in Italia). Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come Presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Intercultura presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specialistiche sui temi dell’emigrazione e dell’immigrazione.
Silvano Ridolfi, recatosi nel 1955 a Francoforte come missionario per gli emigrati italiani, qui divenne nel 1960 direttore del “Corriere d’Italia” e nel 1966 direttore prima e poi delegato dei missionari italiani in Germania e Scandinavia fino al 1971. Rimpatriato nel 1973 dopo un biennio di studi a Lovanio, fu prima vice direttore e poi direttore (1979-1988) dell’UCEI, ufficio CEI, diventato poi Fondazione Migrantes, di cui fu inizialmente direttore della pastorale per gli emigrati. Sempre molto attento alla stampa pastorale, nel 1979 fondò l’agenzia “Migranti-press”. Ritornato nella sua diocesi di Cesena e nominato parroco-arciprete di Cesenatico, ha continuato a seguire i fenomeni migratori dedicandosi a diverse pubblicazioni e mettendo a disposizione la sua memoria storica per ricostruire l’evoluzione delle Missioni Cattoliche Italiane.
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